Annalisa Bucchieri

Italiani per decreto

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Come e quando viene concessa la cittadinanza nel nostro Paese. Le proposte di cambiamento in vista dell’aumento di immigrati “stabili”. La posizione di Ciampi

Italiani per decreto

Italiani si nasce, difficilmente si diventa. Ma una volta acquisito il titolo, rarissimi sono i casi in cui lo si perde. Si potrebbe riassumere così la legge n. 91 del 1992 che regola il diritto alla cittadinanza nel nostro Paese. Un diritto basato principalmente sul vincolo di sangue e sul valore della famiglia: è sufficiente che uno dei due genitori sia italiano per acquisirlo automaticamente, oppure che si discenda fino al secondo grado da un nostro connazionale per poterne fare richiesta. Caso che si ripropone copiosamente per tutti i nipoti e pronipoti degli italiani emigrati, per esempio, in Argentina. Corsia preferenziale anche per gli stranieri che scelgono di sposarsi un signore o una signora “maccheroni”: dopo solo sei mesi di matrimonio consumati nel Belpaese si può fare giuramento solenne sulla Costituzione. Non stupisce, quindi, che su quasi 110 mila naturalizzazioni di stranieri decretate negli ultimi dodici anni dall’Ufficio cittadinanza del Dipartimento delle libertà civili e l’immigrazione del ministero dell’Interno, il 90 per cento riguardi i matrimoni misti. Il rischio di “opportunismo” di tali unioni ha comportato una stretta attività di controllo del Servizio immigrazione. D’altra parte su questo punto la legge del ’92 ha pareggiato finalmente i conti tra i sessi. Prima la donna che sposava uno straniero rischiava di essere privata della cittadinanza, adesso non solo non la perde, e quindi la può trasmettere all’eventuale figlio, ma la fa acquistare al marito. Ai giorni nostri, per fortuna, il criaturo niro della Tammurriata cantata da Carosone, figlio di una napoletana e di un soldato ’mericano alleato, avrebbe il passaporto tricolore d’ufficio.

Parte dell’opinione pubblica, però, inizia a chiedere ulteriori aggiornamenti normativi e contesta il fatto che la legge sia rimasta ancorata alle esigenze di un popolo di emigranti e non corrisponda all’attuale interesse di una nazione continuo approdo di immigrati, che premono per mettere radici, secondo la comune tendenza dell’essere umano di “sentirsi a casa” nel posto dove vive. Per far fronte a tutto ciò negli ultimi tempi le attività e le attribuzioni dell’Ufficio cittadinanza si sono intensificate portando al raddoppio di naturalizzazioni degli stranieri residenti (da 945 del 2002 a 2.122 del 2003). Ma c’è ancora molta strada da fare per tamponare i malesseri dell’estraniamento che si riflettono negativamente su tutta la collettività, non solo quella nazionale. L’apolidia, l’assenza di cittadinanza, infatti, è una ferita che gli Stati membri dell’Ue si avviano a rimarginare preparandoci alla cittadinanza europea. Se il Vecchio Continente vorrà riconoscersi nella nuova realtà multietnica dovrà diminuire la quota di precarietà degli extracomunitari per favorire la coesione sociale, ridurre lo sfruttamento del lavoro e l’evasione fiscale, favorire un quadro di diritti-doveri. Un modello praticabile viene dagli Usa e dal Canada, Paesi che hanno fatto dell’integrazione stabile degli immigrati nella comunità un fattore insostituibile di crescita riconoscendo il principio dello ius soli e dello ius domicilii – divenire cittadini del Paese in cui si nasce o in cui si sceglie di studiare e lavorare.

A riguardo Daniela Pompei, responsabile del Servizio immigrazione della Comunità di Sant’Egidio afferma: “Un passo in avanti sarebbe correggere le norme che attualmente rendono lungo e complicato il raggiungimento della cittadinanza italiana per gli extracomunitari. I dieci anni richiesti divengono nei fatti 12-13 a causa della necessità di dimostrare una residenza ininterrotta, a volte per la mancanza di un contratto di affitto registrato”. A sostegno di questa tesi, il mondo cattolico sulle pagine dell’Avvenire riferisce che lo Stivale ha una delle medie più basse di stranieri diventati italiani: 0,5 ogni 1.000 immigrati, contro i 2,4 per mille di Francia, Spagna Germania e Regno Unito, e addirittura i 4 per mille di Svezia e Danimarca (rielaborazione dati forniti dal ministero dell’Interno). “La nostra proposta, attualmente sul tavolo della Commissione affari costituzionali – spiega la Pompei – è di diminuire il periodo necessario alla naturalizzazione dai dieci anni attuali a sei, un lasso di tempo che costituisce un indice affidabile della stabilità dello straniero in Italia e del suo futuro progetto di vita. In analogia, fra l’altro, con quanto avviene in altri Paesi europei, dove la presenza di stranieri provenienti dalle ex-colonie ha avviato già dal secondo dopoguerra la ricerca dell’integrazione razziale”.

Il nodo è stato affrontato anche dal presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi, che aveva lanciato un primo segnale forte a favore della valorizzazione degli immigrati, conferendo lo scorso 19 agosto la medaglia d’oro al merito civile al senegalese Cheikh Sarr, morto in mare per salvare un italiano davanti alle spiagge di Castagneto Carducci in provincia di Livorno. Sulla bara dell’eroe erano avvolti insieme il tricolore e la bandiera senegalese. Successivamente, durante una cerimonia con studenti stranieri al Quirinale, Ciampi ha voluto ritornare sulla questione: “la prospettiva di chi viene qui per studiare e per lavorare deve poter essere il conseguimento della cittadinanza italiana… in un lasso di tempo inferiore a quello richiesto oggi”. Ma aggiunge che la condizione indispensabile per ingrossare le fila del popolo di Dante “non può che essere la conoscenza, sufficiente e certificata, della lingua italiana. Ad essa deve aggiungersi la condivisione dei principi della nostra Costituzione”. Non è sufficiente lavorare e vivere in un luogo per sentirne l’appartenenza. Anche perché nella maggior parte dei casi diventare italiani è una decisione originata dalla disperazione più che una scelta, e peggio ancora, dalla convenienza, come dimostrano i tanti matrimoni misti naufragati il giorno dopo l’ottenimento della nazionalità.

L’apertura alla società multietnica comporta, dunque, l’abbandono del principio razziale ma non può prescindere dal mantenimento solenne dell’identità culturale e politica, un’identità elastica pronta ad assorbire e metabolizzare gli apporti di altre civiltà, senza perdere la propria tradizione.
Se Tzevan Todorov, studioso di filosofia politica, lo ha teorizzato nel suo libro Noi e gli altri, le università popolari e le associazioni di sostegno agli extracomunitari (da Melting Plot a Stranieri in Italia) lo hanno messo in pratica istituendo corsi gratuiti di lingua, storia, geografia, letteratura italiane per stranieri.

Sicuramente in quest’ottica chi studia e si forma in Italia dovrebbe poter usufruire di uno scivolo burocratico. Mentre a tutt’oggi bambini e ragazzi stranieri, che anche se nati e cresciuti a forza di spaghetti, non sono considerati italiani e non hanno alcuna possibilità di divenirlo prima di raggiungere la maggiore età. Il problema investe circa 440 mila minori stranieri, che in maggioranza hanno visto la luce nelle nostre terre (246.058). Ma ciò che rende rilevanti questi dati è la loro contestualizzazione tra i banchi di scuola e il loro confronto con gli indici di procreazione della popolazione italiana. In alcune province, come ad esempio Brescia o Milano, su 100 nuovi nati rispettivamente 23 e 19 sono figli di stranieri. Nell’ultimo anno si sono iscritti a scuola 282.683 minori stranieri, il 3,5 per cento del totale della popolazione scolastica. Il 40 per cento frequenta la scuola primaria, dato che fa riflettere sul fatto che questi bambini vivono gli anni centrali della formazione della loro persona nel nostro territorio. Da qui la campagna della Comunità di Sant’Egidio affinché il minore straniero possa acquisire la cittadinanza alla nascita in Italia se i genitori sono qui regolarmente presenti da almeno due anni, o se impegna in Italia almeno sei anni nel proprio processo formativo e lavorativo. Uscire dal limbo da bambini aiuta a diventari italiani maturi da grandi.


Cittadinanza in pillole
Come si acquista automaticamente
– Per nascita da genitore cittadino italiano (anche se questo l’ha successivamente perduta e vive all’estero).
– Per nascita sul territorio italiano nei casi di apolidia dei genitori.
– Per riconoscimento di paternità o maternità a seguito di dichiarazione giudiziale di filiazione durante la minore età del soggetto.
– Per adozione durante la minore età su domanda al prefetto del luogo di residenza o all’Autorità consolare italiana nel caso di residenza all’estero che la inoltrano, con parere, al ministero dell’Interno per l’eventuale decreto di concessione a firma del ministro.
– Per discendenza da cittadino italiano per nascita (fino al 2° grado), qualora sia presente, però, almeno uno dei seguenti requisiti: svolgendo il servizio militare nelle forze armate italiane; assumendo un pubblico impiego alle dipendenze dello Stato, anche all’estero; risiedendo legalmente in Italia da almeno due anni al raggiungimento della maggiore età.

Come si acquista su domanda
Da presentare al prefetto del luogo di residenza o all’Autorità consolare italiana nel caso di residenza all’estero che la inoltrano, con parere, al ministero dell’Interno per l’eventuale decreto di concessione a firma del ministro
– Per nascita sul territorio italiano da genitori entrambi stranieri; se si risiede legalmente e ininterrottamente dalla nascita fino al raggiungimento della maggiore età.
– Quando uno straniero sposa un cittadino italiano/a, convive e risiede in Italia, può presentare domanda dopo sei mesi dal matrimonio oppure tre anni di matrimonio se residente all’estero (art. 5). In questo caso la concessione della cittadinanza è un atto dovuto (a meno che non vi siano condanne per gravi delitti o sussista pericolosità sociale) sempre che non intervenga la separazione tra i coniugi prima della definizione del procedimento.
– Per naturalizzazione (art. 9). Dieci anni di residenza legale sul territorio italiano oppure  tre anni di residenza per chi è nato in Italia o discende da italiano per nascita fino al 2° grado (nonni e bisnonni), cinque anni per gli apolidi o i rifugiati, sette anni per affiliato a cittadino italiano nessun periodo per chi ha prestato servizio anche all’estero per lo Stato italiano; assenza di precedenti penali; rinuncia alla cittadinanza d’origine (se prevista dalla normativa del Paese nativo).

Come si perde per rinuncia
Da presentare all’ufficiale dello stato civile del comune di residenza o all’Autorità consolare italiana nel caso di residenza all’estero.
– Da parte dell’adottato maggiorenne per revoca dell’adozione non imputabile allo stesso.
– Da parte di chi risiede all’estero e possiede un’altra cittadinanza.
– Al raggiungimento della maggiore età da parte di chi, in possesso di un’altra cittadinanza, ha conseguito quella italiana durante la minore età.

Come si perde automaticamente
– In caso di revoca dell’adozione per fatto imputabile all’adottato.
– Per non aver ottemperato al divieto del Governo di svolgere il servizio militare o un incarico pubblico presso uno Stato estero, anche durante lo stato di guerra (in quest’ultima ipotesi anche se ne ha  acquistato la cittadinanza).

Come si riacquista su domanda
– Svolgendo il servizio militare nelle forze armate italiane.
– Assumendo o avendo assunto un pubblico impiego alle dipendenze dello Stato anche all’estero stabilendo entro un anno dalla dichiarazione la residenza in Italia.
– Da parte della donna che aveva perso la cittadinanza per matrimonio contratto anteriormente al 1° gennaio 1948 con cittadino straniero.

Come si riacquista automaticamente
– Dopo un anno di residenza in Italia, salvo espressa rinuncia entro lo stesso termine.

Per ulteriori informazioni visitare il sito Internet www.interno.it (dal quale sono scaricabili i modelli di istanza).


In esodo per essere Carlo
“Mi chiamo Dragutin Sartori, con la pipetta sulla i. Purtroppo nome e cognome sono stati slavizzati al momento della mia nascita a Pola, ma io sono italiano al cento per cento. Per questo il prete mi ha sposato chiamandomi Carlo durante la cerimonia”. E Carlo lo continuano a chiamare tutti in famiglia così come succedeva a lavoro, al commissariato triestino di Villa Opicina, dove fino a qualche anno fa svolgeva servizio come assistente capo della Polizia di Stato. La storia di Sartori è quella di tanti – circa 370 mila – italiani profughi dell’Istria che vissero il dramma della nazionalità provvisoria nel secondo dopoguerra. Nel ’56 suo padre e sua madre scelsero di rimanere italiani: per farlo dovettero affrontare enormi sacrifici. L’unica possibilità di mantenere la cittadinanza, infatti, per le famiglie residenti in Istria era varcare la Linea Morgan che segnava il nuovo confine territoriale tra Italia e Jugoslavia. Ciò significava abbandonare casa, lavoro, beni e dover ricostruire tutto da capo. Lo fecero e finirono ad Arezzo in un campo-accoglienza, più simile a un campo di concentramento. Carlo allora aveva solo quattro anni, ne dovette passare altri due in quelle baracche prima di arrivare a Trieste, quella che considera la sua città, una città che ha vissuto la sofferenza del limbo e che è ritornata all’Italia solo dopo nove anni e mezzo dalla fine della seconda guerra mondiale. Per tutti quelli come Dragutin lo Stato, attraverso il Dipartimento per le libertà civili e l’immigrazione, applica la normativa speciale di riconoscimento della cittadinanza alle persone originarie dei territori appartenuti all’ex impero austroungarico e ai loro discendenti (legge n. 379). A testimonianza che l’italianità che noi diamo per scontata è qualcosa che si è definita tra i tormenti della storia.
Fabiola Martini

01/02/2005