Fabiola Martini

Il tattoo globalizzato

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Prima simbolo di bassifondi, poi di élite trasgressive. Oggi il tatuaggio impazza tra ragazzi comuni, impiegati, mamme. Storia di un marchio d’identità

Il tattoo globalizzato

“Mancano solo i preti”, dice ironico (ma con una punta di soddisfazione) Claudio Pittan, titolare del negozio Pittan Tattoo di Milano. Si riferisce, neanche a dirlo, alla grande tribù dei tatuati. Un clan in spaventosa espansione che oggi raccoglie proseliti negli ambiti più disparati: dalle passerelle dell’alta moda ai quartieri popolari delle metropoli, dal mondo del cinema a quello della musica, dalle università ai licei, dalle grandi città agli uffici di provincia fino alle star del jet set internazionale. Una fauna variegata che rende l’idea delle reali proporzioni del fenomeno: a marchiarsi la pelle, oggi, è la massa.
Ne è passato di tempo da quando il tatuaggio era segno distintivo di “gentaglia” come prostitute, galeotti, marinai che amavano esibire la lunga lista delle loro donne su un bicipite. Dopo l’esordio nei bassifondi quest’icona di anticonformismo si è infatti imposta come ricercato ed eccentrico status symbol, approdando sulla pelle di uomini dall’aria trasgressiva e su corpi spesso statuari di donne dal fare provocatorio: dissacranti star di Hollywood, personaggi in vista, semplici amanti della sfida al perbenismo. Poi la società dell’apparire ha gradualmente metabolizzato questa pratica; l’ha depotenziata. Oggi esaurita la forte carica simbolica che ha caratterizzato il boom negli anni ‘60, il tatuaggio non fa più paura al cittadino medio; per questo adesso segna la pelle dei giovani ribelli dei centri sociali così come quella di timidi liceali, impiegati o rampanti manager della new economy. Sepolta ogni valenza contestatrice e riconducibile a una vita vissuta fuori dagli schemi, dimenticato il periodo in cui un disegno sul braccio rispondeva al bisogno di dimostrare l’appartenenza a una tribù d’indomabili, il ...


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01/04/2004