Stefano Clerici

Quell’attore sembra un vero poliziotto...

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Proliferano le fiction con personaggi in divisa, per la felicità di produttori e spettatori. Ecco le ragioni del successo

Quell’attore sembra un vero poliziotto...

È ormai accertato che il poliziotto in tv piace. Eccome se piace. Lo dice l’Auditel, Grande Oracolo del Quinto Potere. Sceneggiati, film, telefilm, fiction – come si dice oggi – che hanno per protagonisti i nostri uomini in divisa (o in borghese), ogni volta che sono stati lanciati in campo (leggi palinsesto) sono quasi sempre riusciti a conquistare la vetta degli indici di gradimento. Tra i telespettatori dell’Italia unita. Da Nord a Sud. Siano essi “fedeli” di Rai o di Mediaset. Perché? Semplice: perché il successo di questi programmi, oltre al naturale italico amore per il genere, è legato alla credibilità. Certo, trattasi pur sempre di fiction. Ma storie come quelle de La Squadra, o di Distretto di Polizia o simili non possono essere trattate come film di fantascienza, tipo Guerre Stellari, o come film, forse avvincenti ma incredibili (nel senso letterale del termine) come Rambo. No. La forza di questi programmi sta, se non nella loro assoluta fedeltà al vero, almeno nella loro verosimiglianza. Una forza che nasce, sicuramente, dall’abilità di attori, registi e sceneggiatori, ma che ha sullo sfondo i preziosi consigli di chi è del mestiere. Cioè di chi ogni giorno certe situazioni, a volte a lieto fine ma altre volte drammatiche o addirittura tragiche, le ha vissute e le vive realmente, sulla propria pelle.
Attori, registi e sceneggiatori dicono grazie a questi uomini che hanno fatto e fanno ancora loro da maestri, o se preferite da consiglieri. Ma se i maestri-consiglieri (ovvero i funzionari, gli ispettori i sovrintendenti e gli agenti che di volta in volta hanno offerto la propria collaborazione ai vari programmi) hanno accettato di buon grado questo ruolo è anche perché hanno intelligentemente capito che in questo mondo in cui regna implacabile la comunicazione televisiva, una fiction – studiata, costruita e realizzata in un certo modo – può aiutare a fornire a milioni e milioni di persone, attraverso il piccolo schermo, un’immagine della polizia meno fantasiosa e più veritiera di tante altre realizzate invece senza una conoscenza diretta sul campo. Pur nella piena consapevolezza che uno sceneggiato potrà magari avvicinarsi molto alla realtà, ma non potrà mai essere la realtà. “Da parte nostra – spiega Roberto Sgalla, responsabile delle Relazioni esterne del Dipartimento della pubblica sicurezza – nessuna voglia né possibilità di veto verso chicchessia. Ma, al contrario, totale disponibilità a fornire tutte le informazioni necessarie. Dal punto di vista logistico innanzi tutto, ma anche, specie all’inizio, per quel che riguarda le nostre tecniche operative. In modo da evitare errori palesi. Non solo e non tanto a nostro danno, ma anche e soprattutto a danno di chi quei film scrive, interpreta e manda in onda”. Ed è così che, solo per citare qualcuno, i vari Lorenzo Flaherty, Ricky Memphis, Giorgio Tirabassi, Claudia Pandolfi, Isabella Ferrari, Irene Ferri, nonché Luca Zingaretti, alias il mitico commissario Montalbano, si sono trovati – insieme con tanti altri attori – a frequentare per un bel po’ di tempo, uffici di dirigenti, sale operative, stanze da interrogatorio, archivi, reparti informatizzati e quant’altro di tradizionale o altamente futuristico e tecnologico fa oggi parte della vita d’ogni giorno in un commissariato o in una caserma di polizia. Per una conoscenza in presa diretta. Per poter poi comportarsi sul set in modo da sembrare in tutto e per tutto un vero poliziotto. Tanto che ormai – come conferma Roberto Sgalla –  per alcuni attori, giunti magari alla terza, quarta, quinta esperienza del genere, del consigliere non c’è più bisogno. Anzi, quel che era un maestro, è diventato quasi un amico o – con le virgolette d’obbligo – quasi quasi un “collega”.
Come si può ben capire, la difficoltà principale sta nel “matrimonio” tra il rispetto della verità e le esigenze della sceneggiatura, inevitabilmente attratta dalle sirene del mercato (o dell’audience, se preferite). Prendiamo, ad esempio, il caso di Doppio agguato, la fiction ispirata al sequestro dell’industriale Dante Belardinelli (avvenuto nella primavera-estate dell’89) e interpretata da Luca Zingaretti e Isabella Ferrari. I protagonisti dello sceneggiato hanno passato giorni e giorni accanto ai veri protagonisti di quell’operazione: i Nocs, i corpi speciali, perfettamente addestrati, dopo durissima selezione, per azioni particolarmente rischiose come, appunto, quella della liberazione di un ostaggio. L’ispettore superiore che fece da consulente alla produzione la ricorda come una bella e significativa esperienza. Gli attori dovevano applicarsi e imparare, prima di tutto. E grandi professionisti come Zingaretti e la Ferrari ce l’hanno davvero messa tutta. “Zingaretti – racconta ancora l’ispettore-consulente – ha seguito un corso d’addestramento con noi ed è stato un ottimo allievo”. Con umiltà e impegno. “Lui stesso, come Isabella Ferrari, ci chiedeva di tutto, da come si doveva impugnare correttamente la pistola, allo stile di uscita dall’auto con estrazione rapida dell’arma, il fuoco immediato e il rotolamento per evitare i colpi del nemico”. Molto ben eseguite.
Promossi quindi dai Nocs, e con lode, gli attori. Voto un po’ più basso, invece, per gli autori e gli sceneggiatori. Le esigenze di copione hanno un po’ troppo romanzato e tinto di rosa certi aspetti della vita, professionale e privata, di questi uomini scelti.
Certo, una storia come quella raccontata in Doppio agguato si presta più di altre al rischio di “americanate”. Ma anche le fiction legate al lavoro, apparentemente più semplice, dei tradizionali commissariati, possono correre lo stesso rischio. Primo perché certe regole valgono per tutti. E poi perché la voglia di “strafare” è sempre in agguato. C’è una tecnica, un modo di essere o di comportarsi per ogni situazione: dall’irruzione, armi in pugno, in un appartamento in città o in un casolare di campagna, alla registrazione di una denuncia per furto. Dalla ricerca di dati e informazioni sul computer, all’elaborazione di un identikit. E – quel che più conta – c’è un rapporto umano, quotidiano, tutt’altro che burocratico, non solo tra colleghi, ma anche con le vittime o i sospettati d’un crimine. Ecco perché la collaborazione di chi è del mestiere s’è rivelata arma (non impropria) vincente per il successo di tante fiction. E per far sì che oltre all’amico poliziotto di quartiere la gente possa riconoscere anche l’amico poliziotto in tv.
È solo quel che una volta si chiamava il fascino della divisa? No. Se il telespettatore s’appassiona, è anche perché le storie che vede – comunque vadano o finiscano – sono, o sembrano, storie di vita vissuta. Storie che potrebbero capitare a ognuno di noi. Storie capaci, quindi, di catturare una consistente fetta di pubblico (l’ultima serie de La Squadra, ad esempio, ha viaggiato intorno a quota 11 per cento di share) e da meritarsi, di volta in volta, a grande richiesta, nuovi episodi. Per non parlare, poi, delle lettere e delle e-mail che sommergono ogni giorno produzione e protagonisti dei vari serial. Poco tempo fa, prendendo a prestito una canzone di grande successo, un importante quotidiano nazionale, in un articolo dedicato appunto al fenomeno televisivo delle fiction “in divisa”, titolava così: “Diamo di più, senza essere eroi”. Già, senza essere eroi. Perché, come ha commentato l’attore Renato Carpentieri (in arte vice questore Cafasso de La Squadra) il segreto sta nel dare l’immagine di una polizia “realistica e insieme ideale. In pratica, quella che tutti vorremmo avere...”. Ecco perché il poliziotto in tv piace. Eccome se piace. Sempre, sia chiaro, che somigli a quello vero...  


“Io, attrice in divisa...”
Irene Ferri, una delle promettenti attrici del firmamento televisivo (a breve la vedremo in una fiction sul mondo della danza con la casa di produzione Fascino di Maurizio Costanzo) è stata il vice commissario Monica Ramondini nella serie Sospetti 2 al fianco di Sebastiano Somma.
Cosa si prova a indossare la divisa?
È divertente. Come i costumi d’epoca, la divisa ti dà subito la sensazione, l’idea del personaggio che vai a interpretare. Ti identifica.
Imparare a impugnare una pistola è stato complicato?
Da sempre sognavo di fare film del genere. Il mio desiderio era quello di impersonare un’altra Nikita, come quella del film di Besson. Fino a quando però una pistola non l’ho presa in mano sul serio. Mi ha fatto impressione e anche un po’ di paura.
Chi l’ha aiutata a entrare nella parte del vice commissario Ramondini in Sospetti?
Il mio maestro d’armi è stato Gianluca Petrazzi. Il suo è stato un ruolo chiave per la mia interpretazione. Perché sparare bene è difficile. Non si può assolutamente improvvisare. Chi non l’ha provato non sa quale sia il vero peso di una pistola e la forza del rinculo.
Usate armi vere?
Agli attori vengono affidate armi vere, però caricate a salve. Devi imparare a comportati come un poliziotto vero. Tenerla con decisione, con due mani, le braccia tese. Tutto deve essere perfetto, la postura, i movimenti, tutto per non ferirsi e sembrare poliziotti veri. 
Come se l’è cavata nelle scene d’azione?
Con me si stupiscono sempre, forse sono abituati con attrici diciamo più delicate. Non ho mai usato controfigure. Tra film e fiction ho guidato di tutto, dalle moto ai furgoni. Con me i produttori risparmiano.
Federica Piccini

01/06/2004