Maria Grazia Giommi

Mario Ceroli, maestro operaio

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L’artista apre le porte della sua casa-laboratorio-museo a Poliziamoderna. Qui si nasconde dal “rumore” del successo per dedicarsi alla materia. E darle forma viva

Il maestro Mario Ceroli

Per Mario Ceroli la materia è viva, ha odore e sapore. Con il legno, il vetro, il bronzo, il cartone, i marmi colorati ha un rapporto carnale. Si autodefinisce un operaio, questo artista noto nel mondo, che ha avuto il primo importante riconoscimento alla Biennale di Venezia del 1966. Le sue opere sono dovunque, è suo anche il cavallo alato davanti alla sede Rai di Saxa Rubra. E decine di “lavori in corso” sono nella sua casa-laboratorio-museo che si allarga per tremila metri quadrati alle porte di Roma. Vorrebbe aprire questo spazio al pubblico, perché serva da stimolo alle più recenti generazioni di artisti. Qui, in questo luogo magico, ci parla di sé.
Maestro parliamo dei suoi inizi artistici?
Ho iniziato per caso. Quando mi sono trasferito a Roma mia madre è andata a iscrivermi a scuola. Doveva essere quella di perito tecnico industriale. Ma in quello stabile c’erano tre scuole. Sbagliò piano e mi iscrisse all’istituto d’arte. Quando i miei capirono, volevano che cambiassi. Ma io mi opposi.
Ha cominciato a creare con la ceramica, poi è passato al legno…
Sì, nel ’59 ho smesso con la ceramica, non ne potevo più, era un lavoro lunghissimo. Al ritorno dal servizio militare, ho “ricominciato con l’alfabeto”: le mie prime opere in legno, dopo l’avventura del tronco con i chiodi, sono state le lettere dell’alfabeto. Quasi a esprimere la voglia di ricominciare a studiare.
Perché il legno?
Per caso. Un giorno, passando sul Lungotevere mentre stavano potando dei platani, ho chiesto che mi venisse regalato un tronco. Così è iniziata questa avventura.
Ancora il caso. Ma forse non del tutto.
In un certo senso è così. Credo che la formazione di una persona avvenga dall’età di 5 anni fino ai 10/12 anni. È in quel periodo che si apprende ciò che ci segnerà. Si accumula una sensibilità che è fondamentale per tutto quello che accadrà dopo. Tornando con la memoria a quando ero bambino, mi ricordo che sentivo sempre un odore acre che proveniva da una falegnameria dove lavoravano molto al tornio. Poi c’era anche una fornace dove si fabbricavano mattoni, altra grande curiosità. Ecco, a voler trovare la radice del mio lavoro, credo che la cercherei lì.
E forse è sempre da lì che proviene questa instancabile ricerca, sperimentazione, soprattutto nei materiali e nelle realizzazioni che hanno caratterizzato la sua opera…
Io ho fatto molte cose in questo mio lavoro. Mi sono impegnato a 360 gradi, non ho fatto solo lo scultore. Ho realizzato allestimenti per i più grandi teatri del mondo e scenografie per il cinema. Ho fatto persino l’architetto, pur non essendo architetto. Ho realizzato il teatro e la chiesa di Porto rotondo in Sardegna, la chiesa di Tor bella monaca qui a Roma. Di chiese ne ho fatte quattro con l’ultima che è la cappella dell’Istituto superiore di polizia, vicino al Sacrario.
Lei è uno dei massimi esponenti di quella generazione di artisti che dagli anni Sessanta ha rivoluzionato il linguaggio dell’arte dando vita alla Pop Art in Italia. Com’era il clima in quegli anni?
Straordinario. La mia generazione è stata all’avanguardia in quel momento su tutta l’arte contemporanea. Il nostro Paese in quegli anni era il numero uno. A tutt’oggi, nessuno si è soffermato a mettere ordine fra quella generazione che ha fatto grandi cose. Fu una realtà importante ma ancora un po’ trascurata.
Fu un periodo di grande fermento culturale e di talenti…
Stranamente tutti i principali artisti di quel periodo venivano, come me, dalla stessa periferia est di Roma. Schifano, Festa, Angeli, Lombardo, Tacchi: venivano tutti dal Quadraro. È strano perché quelle erano e sono realtà dure. È curioso perché in genere si pensa che lì sia più facile prendere altre strade, e poi perché l’arte è difficile. È un fatto di sensibilità. Io credo che da certi quartieri può venir fuori una grande sensibilità. Non a caso io lì ho conosciuto Pasolini.
Cosa pensa del panorama artistico contemporaneo? Non trova che ci sia una grande carenza di idee?
L’arte contemporanea è in un momento di grande difficoltà. Quello che si produce è in gran parte noioso e inutile. Le nuove generazioni non hanno molta voglia di fare, hanno solo voglia di guadagnare subito. Invece la cosa importante è fare, poi il tempo giudicherà.
Lei lo “fa” da cinquant’anni.
Sì, mezzo secolo di “mestiere” (ho fatto la mia prima mostra a sedici anni) eppure mi reputo ancora oggi un operaio. E lo dico con la consapevolezza di aver vissuto la più bella avventura del mondo: in quell’epoca fare “quei pezzi di legno” e avere successo. Anche se io non so cosa vuol dire il successo. Una volta mi è stato chiesto quando ho capito di avercela fatta: fatto cosa? Io ancora adesso non lo so. Non mi piace il successo come una cosa definitiva, non ti dà più nessuno stimolo.
E il suo sogno di bruciare la chiesa di Porto Rotondo?
Sembra una follia, invece è una cosa giusta. Diventerebbe bellissima. Come una magia.
Per non essere frainteso, ci spiega in che modo?
La chiesa di Porto Rotondo è un posto dove si dà a tutti la possibilità di meditare, riflettere, pensare. Come la cappella dell’Istituto superiore di polizia. E, come quella, per me non è finita. L’idea di bruciarne l’interno è per renderla ancora più viva, eterna. Bruciare il legno, piano piano, con la fiamma ossidrica, significa veramente dargli più vita. Tutta la superficie prende una luce incredibile, argentea e dura in eterno. Nel momento in cui si interviene con questa tecnica, il legno diventa come un fossile, non è più attaccabile dagli agenti atmosferici, dalle tarme.
Mi piace “rivisitare” le mie opere a distanza di tempo. Per non abbandonarle.
Un sogno nel cassetto?
Destinare questa mia casa museo alla collettività. Ci sono moltissime opere che vorrei restassero qui, piuttosto che in un museo, anche per come è organizzato lo spazio. Vorrei dare la possibilità ai ragazzi di avere una borsa di studio e stare qui un periodo per studiare. Perché l’arte educa.       
01/08/2004