Claudio Ernè*
I giorni del ritorno
Porta d’Occidente contesa e divisa per lungo tempo, Trieste festeggia la riannessione all’Italia e si candida all’Expo del 2008
IERI. Nove anni e 156 giorni. Dal 12 giugno 1945 al 26 ottobre 1954. Per questo lungo, lacerante periodo, Trieste fu governata dai vincitori della seconda guerra mondiale: militari americani e britannici. Il 26 ottobre 1954 alle 10 del mattino gli alleati restituirono la città all'Italia e ora i triestini, ma non solo loro, si preparano a celebrare questo avvenimento di mezzo secolo fa.
Cerimonie, mostre, parate, libri e manifestazioni pubbliche. Nei nove anni e 156 giorni di occupazione militare alleata la città fu virtualmente un surreale staterello fuori numero dell'Unione stellata. Niente tricolori, solo bandiere americane o britanniche. Gli abitanti stremati da due precedenti occupazioni militari – quella nazista che li mise a contatto con il forno crematorio della Risiera di San Sabba e con le deportazioni nei lager, l'altra, contrassegnata dagli eccidi delle foibe – accolsero i vincitori con tutto l'entusiasmo di cui erano ancora capaci dopo le tragedie della guerra e delle pulizie etniche. Poi col passare del tempo i triestini lentamente si resero conto che gli americani che governavano la città, non assomigliavano per nulla a quei ragazzoni conosciuti nei film. Al banco di prova della politica, dell'economia, della gestione delle tensioni sociali, il sogno a stelle e strisce si stemperò e illanguidì. Dovette ricredersi anche chi aveva puntato sull'autonomia della città garantita dall'Onu e da un governatore che non venne mai designato dai vincitori. Il Territorio libero di Trieste morì prima di nascere, lasciando qualche nostalgia nelle rime di un motivetto popolare. “Adesso che xé partì el batel, no possibile fumare più Camel”. Tradotto dal dialetto i versi suonano così: “Ora che la nave è partita, non è più possibile fumare sigarette Camel”.
La maggioranza al contrario, al Tricolore non aveva mai rinunciato. Lo aveva esibito a proprio rischio e pericolo anche nei momenti più bui, rivendicando l'italianità della città di fronte alla pretese e ai mitra jugoslavi.
Questa città, scese in piazza, manifestò, si preparò in segreto persino a combattere una battaglia casa per casa nell'evenienza sciagurata di un colpo di mano di Tito e dei suoi. Trieste ebbe i suoi morti uccisi a fucilate durante le manifestazioni del novembre 1953: erano scesi in piazza per rivendicare la fine dell'occupazione militare alleata e il ritorno della città all'Italia. Furono gli ultimi martiri di una lunga serie.
Un anno più tardi, negli stessi giorni della rivolta del 1953, gli americani e gli inglesi erano già lontani da Trieste e in città si stavano vivendo le giornate convulse e irripetibili della seconda redenzione. La prima è quella del novembre 1918, dell'approdo del cacciatorpediniere Audace e dello sbarco dei bersaglieri. Austria sconfitta, Trieste italiana. La seconda è quella di cui ci apprestiamo solennemente a celebrare l'anniversario nei prossimi giorni: i cinquant'anni del ritorno di Trieste nella comunità nazionale. Si chiudeva così l'ultimo doloroso capitolo della seconda guerra mondiale. Tricolore su Trieste; Istria e Fiume consegnate alla Jugoslavia.
Tra il 3 novembre 1918 e il 25 ottobre 1954, le giornate che precedettero l'arrivo ufficiale delle nostre truppe, ci sono molte analogie, anche atmosferiche. Tempo brutto sul mare e sulla città, un piovigginare lento, una foschia simile a nebbia. Lastricati che luccicano, tanta gente con l'ombrello in attesa festante. E il generale Carlo Petitti di Roreto fu accolto allo sbarco dall'Audace da una delegazione triestina munita di un buon numero di poco marziali parapioggia.
Il 26 ottobre 1954 fu ancora peggio. Bora, pioggia sferzante, impermeabili lucidi, colpi di vento che rovesciarono gli ombrelli e li fecero a pezzi. Il maltempo non riuscì a smorzare l'entusiasmo della marea umana che da Barcola fin in piazza dell'Unità attese le autocolonne, ne bloccò l'avanzata, salì sui camion, abbracciò i soldati, fece festa con loro. Facce rigate di lacrime, braccia agitate nell'aria, fiori, sventolare di fazzoletti e bandiere fradice, automezzi presi d'assalto e conquistati di slancio. Il generale Edmondo De Renzi restò bloccato prima di entrare in città; la cerimonia di passaggio dei poteri con i generali Winterton e Dabney andò all'aria, travolta dall'entusiasmo dei triestini. Gli ex occupanti se ne andarono senza salutare.
Un entusiasmo non dissimile i triestini l’avevano manifestato il precedente 5 ottobre quando a Londra era stato firmato il Memorandum d'intesa che aveva sancito il ritiro entro tre-quattro settimane delle truppe angloamericane e l'estensione alla città dell'amministrazione civile italiana. Un'ora dopo la firma del trattato migliaia di triestini si riversarono per le vie del centro e il sindaco Gianni Bartoli si affacciò assieme alla giunta da un balcone del municipio che guarda su piazza dell'Unità e sul mare.
L'accordo per il trasferimento dei poteri all'Italia nella zona di Trieste venne perfezionato il giorno dopo, il 6 ottobre 1954, nel castello di Duino da una delegazione angloamericana e italiana. Al vertice di quest'ultima il generale De Renzi. Al suo arrivo una fanfara britannica intonò per la prima volta nel dopoguerra l'inno di Mameli.
I soldati americani iniziano a fare le valige venerdì 8 ottobre. La prima autocolonna con cento camion e automobili e 240 uomini, transita per il posto di blocco del Lisert alle 8 di mattina. Gli inglesi iniziano a muoversi giovedì 14. L'autocolonna con i fucilieri del Lancashire si dirige verso Villaco, in Austria. Il 25 ottobre i primi soldati italiani appartenenti all'81° fanteria si attestano nella base del Lazzaretto a pochi metri dalla linea di demarcazione tra Zona A e zona B. Quella linea di demarcazione oggi rappresenta il confine di Stato tra Italia e Slovenia e a breve scadenza, vista l'adesione di Lubiana all'Unione europea, diverrà un confine virtuale. Fino al 1992 rappresentava invece l'estremo punto di contatto tra il mondo occidentale e quello comunista.
Il grosso delle truppe italiane inizia a entrare a Trieste da Duino all'alba del 26 ottobre 1954. I reparti motorizzati sono preceduti da pattuglie in moto della polizia stradale. Piove a dirotto, soffia la bora ma i triestini fanno ala al passaggio degli uomini in divisa. Li bloccano, li abbracciano. L'incubo è finito, anche per Trieste può iniziare il dopoguerra. Ma i problemi non mancano e sono drammatici. Tra il 1955 e il 1956 diecimila persone sono costrette a emigrare mentre in città si riversano quasi 14 mila profughi istriani. Non basta: tra i primi anni Cinquanta e il 1957 vanno perduti più di dodicimila posti di lavoro nella pubblica amministrazione e nei servizi. Il Governo militare alleato aveva gonfiato gli organici per garantirsi una relativa pace sociale. Ma i conti non tornano e la città entra lentamente in una crisi strisciante di cui ancora oggi è difficile intravedere una soluzione.
OGGI. “Il cambiamento tra le due amministrazioni alleata e italiana fu gestito positivamente anche grazie alle forze dell'ordine” afferma il questore di Trieste Natale Argirò, negli anni Sessanta giovane ufficiale istruttore alla scuola di polizia di San Giovanni, uno dei quartieri della città giuliana. “A Trieste imparai sul campo cose molto diverse da quelle apprese nei corsi dell'Accademia. La mentalità e le regole introdotte dai funzionari del Governo militare alleato erano ancora ben salde e in qualche modo anticipavano di trent'anni le nostra attuale riforma di polizia. Già alla fine degli anni Sessanta a Trieste la mensa per gli ufficiali e le guardie era la stessa. Ci mettevamo in fila dietro agli allievi. Tranquillamente”.
“I metodi e le procedure introdotti a Trieste più di mezzo secolo fa dagli inglesi e dagli americani, hanno fatto scuola e creato un rapporto di fiducia tra le forze dell'ordine e la popolazione che non ha uguali in Italia. La gente ci aiuta, telefona al 113 non appena vede qualcosa di inusuale o strano. Si autodifende informandoci. La nostra preoccupazione maggiore è mantenere alto il sistema di sicurezza per continuare ad assicurare ai cittadini quella tranquillità cui sono abituati da mezzo secolo. In questo particolare momento internazionale offrire sicurezza è un fattore determinante anche a livello economico. Ecco perché credo che Trieste abbia buone chances nella corsa all'assegnazione dell'Expo internazionale del 2008. Le altre città concorrenti non sono in grado di offrire nulla di simile.”
In effetti Trieste e la regione Friuli-Venezia Giulia sono riuscite a risolvere gran parte dei problemi di ordine pubblico e di criminalità organizzata, innescati nei primi anni novanta da un'immigrazione clandestina di massa gestita da organizzazioni internazionali. In queste bande criminali si era inserita la manovalanza criminale italiana. Il merito della loro sconfitta va alla procura della Repubblica di Trieste e in particolare al pubblico ministero Federico Frezza che con un piccolo gruppo di investigatori della polizia è riuscito a costruire una banca dati in cui sono confluite per anni tutte le informazioni sui clandestini, sui passeur (responsabili di traffici clandestini lungo il confine, ndr), sulle auto e i furgoni usati, sulle destinazioni finali e sulle località di provenienza. Sono stati utilizzati e inseriti in un computer anche i dati apparentemente insignificanti, come biglietti con numeri di telefono e indirizzi trovati nelle tasche degli immigrati. In un anno è emerso un quadro chiaro dei legami tra organizzazioni ed è stato costruito anche l'organigramma di chi le comandava. Vertici, luogotenenti, affiliati, manovalanza.
Questo modello investigativo è stato applicato successivamente a tutte le procure italiane alle prese con l'immigrazione clandestina e con i clan di stampo mafioso che le gestiscono. Trieste e i suoi investigatori anche in questo settore hanno inventato qualcosa di efficace e assolutamente nuovo.
Un altro settore pilota nella città giuliana è quello dei reati che hanno per vittime gli anziani che vivono soli e che sono bersagli di truffe messe a segno da sedicenti ispettori dell'Inps, da falsi funzionari delle Poste e da tecnici fasulli delle società dell'acqua, del gas e dell'elettricità. La questura ha sottoscritto convenzioni con queste società e ha istituito una sorta di numero telefonico verde dove i cittadini possono informarsi sul reale ruolo di chi ha bussato all'ingresso della loro abitazione, chiedendo di entrarvi per un controllo. In pratica per derubarli.
“La conformazione orografica della città, con due sole importanti vie di accesso, rende difficile l'attività ai rapinatori. Non riescono a farla franca perché queste vie sono ben controllate e la vigilanza nella stazione ferroviaria è intensa – spiega ancora il questore – Alcune bande di trasfertisti avevano tentato di mettere a segno dei colpi nelle banche. Arrivavano dal Veneto e dal Friuli ma gli stretti controlli e le informazioni che sono giunte al 113 dai cittadini ce li hanno fatti individuare e arrestare in tempi molto brevi. Ecco perché Trieste può dirsi una tra le città più sicure d'Italia.
*Redattore de Il Piccolo