Alice Vallerini

Arbitro per gioco

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Il direttore di gara più famoso nel mondo, Pierluigi Collina, racconta l’impegno necessario per scendere in campo ogni domenica con la stessa professionalità

Arbitro per gioco

Ventisette anni di arbitraggi alle spalle, due lauree, una vita fatta di emozioni forti da cercare di stemperare. Ha un anno di lavoro ancora davanti prima della pensione. Intanto il miglior fischietto del mondo, che nella vita fa il consulente finanziario, si racconta.

L’ultima di una lunga serie di soddisfazioni: la laurea ad honorem ricevuta dall’Università inglese di Hull per il contributo apportato alla scienza dell’arbitrare. Cosa significa per lei questo riconoscimento?
Ricevere una laurea è qualcosa di particolare, unico. Non è facile ottenere una gratificazione di questo tipo, soprattutto se a darla è un’università straniera. Lo ricorderò sempre come un momento importante della mia carriera.
Una carriera lunga, piena di emozioni. Cosa l’ha spinta a intraprendere questa strada?
Questa è una domanda che dovrebbe fare al mio compagno di banco del liceo. È stato lui a trascinarmi a un corso di arbitraggio, a farmi iscrivere, a spingermi a imparare le basi della professione. Una scelta che ha comportato ben ventisette anni di lavoro in questo campo e che mi ha permesso di arrivare dove sono oggi. Quello però è stato solo il punto di partenza: poi sono serviti gli allenamenti, lo studio, la fatica. Arbitrare ad alti livelli è un privilegio, una fortuna non da tutti, ma anche un punto al quale si arriva con sacrificio.
È ciò che ha cercato di comunicare ai lettori attraverso il suo libro intitolato Le mie regole del gioco.
Proprio così. Attraverso la pubblicazione di questo testo che parla della mia esperienza ho voluto spiegare alla gente chi sono davvero gli arbitri. Sono convinto che le persone non abbiano assolutamente idea di quello che facciamo e di com’è la nostra vita. Di noi conoscono solo i novanta minuti in cui siamo in campo, e tramite quello che facciamo in quei novanta minuti ci giudicano. La verità è che c’è dell’altro, c’è molto di più: durante la settimana passiamo ore e ore ad allenarci per tenere il fisico in forma perfetta e a esercitare il fiato. Poi spendiamo tantissimo tempo a studiare le tecniche di gioco, a ragionare sulle dinamiche del calcio. Un lavoro di studio durissimo e faticoso che quasi nessuno conosce e che invece è la base della nostra attività. I minuti in cui siamo sul campo la domenica sono solo il risultato di tutto questo.
Qual è la cosa più importante che le ha dato questo lavoro?
Ogni giorno imparo qualcosa. Questo è un mestiere che ti fa crescere, che ti fa scontrare con i tuoi limiti, che ti dà la misura di quanto a volte sia importante andare subito al sodo senza temporeggiare. Avere la capacità di analizzare qualcosa in un istante e di trovare immediatamente la risposta a un interrogativo è qualcosa di importante, qualcosa che serve per la vita. Perché ci sono momenti in cui non puoi permetterti il lusso di perderti in ragionamenti.
L’essere risoluti serve anche in campo economico e manageriale: molte aziende hanno afferrato che la velocità nelle scelte e la determinazione sono quasi sempre una carta vincente, per questo spesso mi invitano a partecipare a congressi e riunioni in cui cerco di spiegare come si fa a puntare dritto al risultato e a evitare il dispendio di energie. Un fattore cruciale per un buon management.
Quanto conta avere un buon rapporto extra-professionale con giocatori e allenatori?
È fondamentale. Quando ci si capisce e ci si stima la gestione delle cose è completamente diversa. E la qualità del gioco è migliore.
Lei è ambasciatore ufficiale della campagna promossa dalla Uefa e dal Comitato internazionale della Croce Rossa a favore dei bambini che vivono nelle zone di guerra. Com’è cominciato il suo impegno in questo campo?
Il progetto è stato lanciato dalla Croce Rossa durante l’ultimo campionato, e io sono stato entusiasta di diventarne portavoce. Oggi l’attenzione della gente è concentrata sulla guerra in Iraq, su tutto ciò che compare in televisione o sui giornali. I mezzi di comunicazione mettono in evidenza gli aspetti più attuali della cronaca e su quelli si focalizza il pubblico, perdendo di vista il fatto che ci sono tantissime zone del mondo dilaniate dai conflitti. Aree che passano inosservate e di cui ci si dimentica, dove i bambini sono costretti a imbracciare le armi o a vivere separati dai genitori. La Croce Rossa cerca di intervenire in questi contesti e di fare in modo che anche nelle zone di guerra vengano rispettate delle regole. Può sembrare assurdo, lo so, ma anche nei conflitti ci sono regole che vanno osservate. La prima è quella di non coinvolgere i bambini, in nessun modo.
La sua squadra del cuore non gioca a calcio ma a basket. È la Fortitudo Bologna. La passione per la pallacanestro è sempre esistita o si è sviluppata nel tempo, magari per “evadere” un po’ dai campi di pallone?
L’amore per il basket è qualcosa che mi accompagna fin da quand’ero bambino. Sono nato a Bologna e da noi la pallacanestro è vissuta in modo molto forte, probabilmente per il fatto che tra le due principali squadre della città la competizione è agguerrita. Ricordo che da piccolo una delle prime cose che mi trovai a dover decidere era da che parte stare e per quale delle due squadre tifare. Ricordo che si aspettava il derby con trepidazione. All’epoca la Fortitudo era la più debole: speravo ogni volta di vederla vincere per prendermi una rivalsa verso i ragazzini arroganti che scommettevano avrebbe perso.
Qual è la partita che l’ha coinvolta di più a livello emotivo?
Io sono freddo. Resto sempre staccato dalla competizione che ho davanti, qualunque essa sia. È una cosa essenziale: ti permette una performance migliore. Chiaramente però l’essere coinvolti e partecipare col cuore alle cose ti fa avere più ricordi, quelli che io non posso permettermi. Una cosa comunque è certa: per quanto io cerchi di essere distaccato, arbitrare la finale di una Coppa del mondo è qualcosa che non si scorda. Mai.
Malgrado l’ormai sviluppata freddezza, essenziale per sopravvivere nel settore, le pressioni che un direttore di gara subisce da giocatori e tifosi prima, durante e dopo la partita sono difficili da schivare. Come si fa, a livello emotivo, a difendersi dal turbine?
Impossibile difendersi; bisogna conviverci. È qualcosa che si impara col tempo e con l’esperienza. È assolutamente impossibile pensare di riuscire a non sentirsi “pressati” quando il risultato di una partita e tutto ciò che ne consegue dipendono solo dalle tue decisioni e possono essere condizionati da un tuo sbaglio. Per cercare di non esplodere per la tensione bisogna cercare di ripetersi che come i giocatori sbagliano, anche un arbitro può farlo. Può accadere. Logicamente la vita privata risente comunque dello stress: chi fa questo lavoro non riesce mai totalmente a scindere l’aspetto sportivo da quello privato. Non puoi staccare la spina a tavolino o a tuo piacimento; inevitabilmente le due parti si fondono. Ecco perché bisogna essere bravi a moderare il tutto, a “smorzare” i toni e a sminuire l’importanza di certe cose. In fondo basta convincersi che tutto quello che stai facendo è solo dirigere una partita. Per quanto gli interessi economici in ballo possano essere alti si tratta di ventidue giocatori e un pallone.                     

01/10/2004