Maria Grazia Giommi

Io, testimone contro la mafia

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La storia di un sindacalista palermitano nel mirino di Cosa Nostra. Il coraggio, la paura, la fuga, gli affetti di un uomo che ha scelto la giustizia.

Io, testimone contro la mafia

Collaborare con lo Stato contro il crimine per alcuni è solo l’ultima possibile scelta. Dettata dalla disperazione, a volte dalla convenienza o dalla necessità di imboccare l’unica via di uscita che resta, quando non si ha più niente da perdere. Per altri invece è una scelta consapevole e coraggiosa. La scelta civile di chi non vuole sottostare al ricatto e alla minaccia. Di chi non sopporta l’idea che i criminali possano avere la meglio sulle persone perbene. Di chi non ce la fa più a vivere circondato dal marcio. In queste pagine raccontiamo la storia di una di queste persone coraggiose, che non ha esitato a stravolgere la sua vita e quella della sua famiglia per un ideale. Il suo è un percorso esemplare di testimone di giustizia. Dopo una lotta contro la mafia portata avanti per anni è diventato testimone ed è stato sottoposto al programma di protezione. Grazie all’aiuto dello Stato, con la sua famiglia ha potuto iniziare una nuova vita in un’altra città. Questa è la storia di Gioacchino Basile, un uomo libero.
Quando comincia la sua storia?
Sono nato e cresciuto in una zona ad alta densità criminale della città di Palermo.
I miei primi compagni di gioco furono i figli di Tommaso Buscetta e di suo fratello Vincenzo.
Fin da piccolo, malgrado l’amicizia innocente che mi legava ai figli di “Don Masino” cominciai a guardare come una sorta di viltà, come rinuncia, il servilismo dei tanti che vivevano e lavoravano in quella che apparentemente era una tranquilla località. Ero poco più di un bambino, ma la conoscenza acquisita dentro la cultura mafiosa era già tantissima; avevo abbandonato la scuola e da quel momento in poi la strada, i morti ammazzati, le regole delle borgate diventarono una necessità di apprendimento esistenziale ineluttabile. In quel tempo, e fino all’età di 16 anni, fra i miei amici c’erano anche quelli che poi sono diventati i peggiori e i più infami dei militanti in Cosa Nostra, che già vivevano l’addestramento delinquenziale nella quotidianità della loro vita: furti, rapine, attentati intimidatori, sempre autorizzati dai boss.
Una realtà durissima per un ragazzo.
Era duro confrontarmi con quel mondo; loro erano sempre carichi di soldi, mentre quelli come me, che non condividevano quelle scelte, per sopravvivere dovevano subire lo sfruttamento di qualsiasi lavoro, sempre sottopagato.
Alla fine del servizio militare pensai di non tornare più nell’inferno palermitano. Ma la sorte aveva già deciso il mio futuro quando mi diede la possibilità di scoprire il racket delle assunzioni all’ufficio di collocamento. La mia ira fu frenata solo dall’inizio del lavoro in quello stabilimento verso il quale avevo indirizzato le mie speranze: i Cantieri Navali. Era il 1971.
Fu così che finalmente iniziai una vita che valeva la pena di essere vissuta ed insieme al lavoro si rafforzò anche la mia militanza politica e sindacale; credevo che si potesse costruire un mondo più giusto.
E la sua famiglia, le è stata d’aiuto?
Nel 1972 incontrai Rosy, la donna che tre anni dopo diventò mia moglie. Poi nacque mio figlio Paolo e nel 1981 Marianna. La nostra famiglia, malgrado la mia militanza contro la mafia, cresceva e migliorava economicamente. Nell’anno 1982, poco dopo gli assassinii di Pio La Torre e di Rosario Di Salvo e l’arrivo del generale Dalla Chiesa a Palermo, il mio impegno contro Cosa Nostra, che nel frattempo si era radicata dentro i Cantieri Navali, diventò durissimo, frontale.
Consapevole d’essere ormai “un uomo morto” spiegai chiaramente le cose a mia moglie, anche per darle la possibilità di ricostruirsi un’altra vita con i nostri figli, lontano “dal mio cadavere”. Lei si dimostrò, e fu poi in futuro, il mio pilastro di resistenza e di tenacia esistenziale. Quando le dissi che ero un uomo morto e le consigliai di lasciarmi andare per liberarli dal pericolo, mi rispose: “per quello che mi riguarda, io non ti lascerò mai... ora decidi tu...”.
Intanto continuavo a presentare denunce alle autorità, sottoscritte anche dai miei compagni di lavoro. Nel 1984, in spregio alle regole della mafia, con quei risparmi che dovevano servire a comprarci la casa, decidemmo di aprire un’attività commerciale, un negozio di calzature. Consapevole del fatto che ero un uomo morto, speravo addirittura che i criminali compissero un attentato contro la nostra attività per poterli finalmente denunciare con più possibilità d’attenzione. Ma i criminali si guardarono bene dal farlo: per ben 13 anni quel negozio a perdere alla fine si rivelò un ottimo investimento, perché la gente veniva a comprare le scarpe da noi per solidarietà, altro che paura.
Quando mia moglie mi diede la notizia che eravamo in attesa del terzo figlio, preso dall’angoscia di dover rendere un altro figlio possibile vittima d’una ritorsione mafiosa, chiesi a mia moglie se non fosse il caso di interrompere quella gravidanza; quel giorno Rosy, me ne disse di tutti i colori e minacciò di lasciarmi. Ketty (Caterina) nacque il 29 aprile del 1986. Sarà proprio lei che, dieci anni dopo, abbandonato da tutti e con tante persone, mia madre, le mie sorelle, i miei fratelli, i miei nipoti che pressati dagli amici dei mafiosi mi chiedevano la resa, mi dirà: “Papà, non t’arrendere; hanno solo paura”.
Quando inizia la sua vicenda da testimone di giustizia?
Quando finalmente la procura di Palermo, nella persona del pubblico ministero Luigi Patronaggio agì con determinazione. Finalmente l’antica cloaca criminale e imprenditoriale fu scoperchiata. Ma a quel punto dovetti abbandonare la città perché i criminali puntavano alla vendetta sui miei figli: Marianna, che l’anno precedente agli arresti dei mafiosi mi aveva difeso pubblicamente, accusando di viltà “quegli amici politici” che mi avevano abbandonato, era già scortata dalla polizia a seguito delle ritorsioni che si stavano preparando contro di lei, e di cui non avevamo notizia. Abbandonammo ogni cosa, ogni affetto, ogni ricordo, lasciando tantissimi amici e parenti che ci volevano e ci vogliono sinceramente bene.
Come è cambiata la vostra vita?
Il nostro stravolgimento esistenziale è stato durissimo, ma essendo il mio nucleo familiare costituito da persone eccezionali non ci siamo pianti addosso.
Nell’ottobre del 2001, con i responsabili del Servizio centrale di protezione ho concordato il trasferimento del mio nucleo familiare in una località diversa, dove mio figlio aveva già trovato un ottimo impiego. Marianna sta per laurearsi in giurisprudenza; Ketty studia con buon profitto ed al traguardo della laurea spera di diventare una poliziotta. Grazie agli aiuti economici avuti dallo Stato la mia famiglia può affrontare con tranquillità il futuro di una vita, speriamo serena.
Ho svolto vari lavori di consulenza: il primo su criminalità e mondo del lavoro per conto della Cgil; il secondo è stato quello di consulente del sindaco di Palermo: quattro anni durante i quali insieme ad altri ho costituito l’Associazione antiracket di cui sono stato presidente fino a settembre del 2002; carica dalla quale mi sono poi dimesso per meglio studiare e approfondire il fenomeno che offende la dignità di noi siciliani. Il terzo, l’attuale, è quello che sto svolgendo per conto del ministero dell’Interno.
Sono stati anni di paura?
Di paura ne abbiamo vissuta tanta, che ormai ci stanca averne altra. Sono pienamente consapevole del fatto che prima o poi potrebbe arrivare la vendetta mafiosa, ma spero solo su di me.
Rifarebbe ora la stessa scelta?
Se potessi tornare indietro, non solo rifarei le stesse cose ma, alla luce della profonda conoscenza diretta del fenomeno che ho combattuto per tutta una vita, otterrei sicuramente risultati più concreti.
Proprio in questi giorni mi sono recato, come faccio spesso, al Sacrario di Redipuglia (Gorizia) per rendere omaggio a quelle migliaia di ragazzi che hanno dato la vita per il nostro Paese e mi sono chiesto quale vita vorrei vivere, se potessi rinascere un’altra volta; mentre mi ponevo questa domanda, mi sono sentito meschino verso tutti quegli uomini che hanno dato la vita per il bene del nostro Paese.
Ho chiesto loro scusa, perché il buon Dio non poteva concedermi vita migliore di quella che mi ha assegnato. Quella di uomo libero.  
01/01/2004