di Mauro Valeri

L’epicentro della lotta

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L’intervista a Giovanni Bombardieri, procuratore capo di Reggio Calabria in prima linea nel contrasto alla ’Ndrangheta

Giovanni Bombardieri

Abbiamo chiesto a uno dei magistrati più attivi nella lotta alla ‘Ndrangheta, e nella collaborazione con il progetto I-can, di delineare le caratteristiche di questa organizzazione criminale.

Spesso la ‘Ndrangheta è stata considerata un “fenomeno” esclusivamente regionale. Qual è la sua reale espansione nel mondo?

Che la ‘Ndrangheta non sia solo nel Sud Italia è un dato ormai pacificamente affermato non solo nelle sentenze di molti tribunali del Nord Italia ma anche di altri Paesi. Ad esempio, importantissima è la pronuncia della Corte superiore di giustizia dell’Ontario, in Canada, che agli inizi del 2019 per la prima volta ha riconosciuto l’operatività della ‘Ndrangheta anche in quei territori, dopo che nel corso del processo era stato escusso un nostro ufficiale di polizia giudiziaria proprio in ordine alla struttura e operatività della ‘Ndrangheta nelle sue proiezioni nel Mondo. Sempre con maggiore consapevolezza, anche all’estero, ci si rende conto che la criminalità organizzata italiana rappresenta un problema anche per altri Paesi, europei ed extraeuropei. Nella scorsa primavera sono stato invitato a Melbourne, in Australia, per partecipare a una conferenza internazionale sul crimine organizzato italiano, in particolare sulla ‘Ndrangheta, in cui erano presenti le polizie giudiziarie di numerosissimi Paesi, europei ed extraeuropei, e, non a caso, anche alcuni responsabili del progetto I-can di Interpol. Ho così avuto modo di rilevare che, finalmente, quello che fino a poco tempo fa era considerato da molti Stati un problema solamente italiano, per non dire calabrese, oggi viene attenzionato come un serio problema anche per loro, per la capacità della ‘Ndrangheta stessa di infiltrarsi nella società, nell’economia e persino nelle Istituzioni. 

Eppure questa organizzazione criminale continua a utilizzare rituali arcaici…

Non illudiamoci. Accanto ai tradizionali riti, ad esempio di affiliazione, c’è la straordinaria modernità della ‘Ndrangheta, che ormai opera, anche a livello finanziario internazionale, mediante professionisti di alto livello e utilizza mezzi e sistemi di comunicazione sempre più sofisticati e difficili da intercettare. Già qualche anno fa è stata intercettata una conversazione tra due soggetti riferibili a cosche di ‘Ndrangheta in cui, parlando di alcune spedizioni dal Sud America di ingenti quantitativi di stupefacente, commentavano il fatto che i sudamericani non volevano pagamenti in criptovaluta, in particolare in bitcoin, mentre loro erano già pronti a utilizzare questi mezzi di pagamento. Oggi, nel mercato delle criptovalute, la ‘Ndrangheta è sempre più presente. 

Qual è il suo core business?

Certamente rimane il traffico internazionale di stupefacenti. Per anni, soggetti riferibili alla ‘Ndrangheta sono stati i broker più affidabili per i Cartelli sudamericani. Addirittura in alcuni periodi la stessa Cosa Nostra aveva bisogno della “garanzia” della ‘Ndrangheta per “lavorare” con alcuni Cartelli sudamericani. Ricordo un processo a Roma, quando ero un Pm nella Procura di quella città, in cui per la consegna, che doveva avvenire in un albergo della Capitale, di un certo quantitativo di stupefacente da parte di esponenti di un Cartello sudamericano a una Famiglia di Cosa Nostra palermitana, era stata richiesta la presenza di alcuni appartenenti alla ‘Ndrangheta della provincia jonica reggina. Oggi gli interessi della ‘Ndrangheta sono rivolti a tutti gli ambiti nei quali confluiscono ingenti flussi di capitali: dagli appalti pubblici, ai rifiuti, ai giochi, agli oli minerali, alle frodi fiscali, ai finanziamenti statali ed europei, al mercato delle criptovalute. 

Che valore aggiunto rappresenta il progetto I-can? 

Sicuramente sta svolgendo un ruolo molto importante sotto il profilo della sensibilizzazione di realtà territoriali in cui la ‘Ndrangheta è considerata qualcosa di poco concreto, con la creazione di punti di contatto nei vari angoli del Mondo, sicuro riferimento di supporto informativo e investigativo, che già conoscono, perché appositamente preparati, il fenomeno ‘ndranghetista, e sono in grado di affrontare i problemi relativi alle sue eventuali proiezioni su quel territorio. Peraltro nella realtà investigativa della Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria molto prezioso in questi anni è stato il supporto di Interpol attraverso il progetto I-can: dagli Emirati Arabi, all’Uruguay, dal Brasile alla Spagna, dall’Argentina al Costarica abbiamo, sempre, ricevuto l’assistenza necessaria. I-can ci ha inoltre supportato nella cattura di ben 14 indagati, ricercati nell’ambito di nostri procedimenti penali, e tra questi ci sono soggetti il cui spessore criminale è di indiscusso rilievo: basti pensare per tutti a Rocco Morabito, detto Tamunga

Che ruolo rivestono le squadre investigative comuni nel contrasto a questa organizzazione criminale?

Costituiscono uno strumento importantissimo nell’attività internazionale di contrasto alla ‘Ndrangheta poiché rappresentano un nuovo modo di interpretare la cooperazione giudiziaria internazionale, resa indispensabile dalle nuove dinamiche criminali delle organizzazioni ‘ndranghetiste. Fino a qualche anno fa ci si limitava a cooperare a livello internazionale nella fase finale delle indagini, nella fase di esecuzione degli arresti o con le richieste di estradizione. Oggi, per fortuna, è cambiato l’approccio internazionale e si è compreso che per contrastare organizzazioni criminali connotate da forte dinamismo operativo, è necessario impostare la collaborazione giudiziaria e di polizia giudiziaria su binari altrettanto dinamici. Le Squadre investigative comuni consentono di svolgere le attività di indagine, contemporaneamente, nei diversi Stati, con acquisizione diretta dei risultati investigativi nell’ambito di ciascun procedimento penale, senza necessità di attivare quegli strumenti di cooperazione internazionale, come l’Ordine di indagine europeo o la rogatoria internazionale, che richiedono tempi molto più lunghi. 

Gli strumenti legislativi dei Paesi europei sono idonei a fronteggiare le mafie?

Quello delle differenze degli strumenti legislativi nei vari Paesi è un problema reale che, evidentemente, crea qualche difficoltà nel contrasto al fenomeno “mafioso”. Occorrerebbe armonizzare le normative, sia a livello sostanziale (nuove figure di reato) che procedurale (strumenti omogenei nell’acquisizione degli elementi di prova, ad esempio in materia di intercettazioni); e intanto rafforzare organismi e Agenzie europee di cooperazione, quali ad es. Eurojust, che negli ultimi anni ha costituito un riferimento concreto ed efficace nell’azione di coordinamento investigativo tra le autorità giudiziarie dei Paesi europei (e non solo). 

Porto di Gioia Tauro cruciale nel traffico degli stupefacenti, in Italia e non solo. Responsabilità penali personali di alcuni addetti o sistema portuale profondamente compromesso?

È importante non criminalizzare il sistema portuale di Gioia Tauro che può davvero costituire un volano per tutta l’economia calabrese. Certamente i dati in nostro possesso ci dicono che i sequestri degli ultimi periodi sono aumentati vertiginosamente: tra luglio 2021 e gennaio 2022 sono state sequestrate oltre 24 tonnellate di stupefacente proveniente dal Sud America. Ciò è stato possibile anche grazie a un importante lavoro di analisi dei flussi dei containers in arrivo al Porto, e al coordinamento internazionale della Direzione centrale dei servizi antidroga con le polizie giudiziarie degli altri Stati. Una nostra recente indagine ha, poi, ricostruito, allo stato degli atti di indagine naturalmente, il coinvolgimento di numerosi operatori portuali nonché di un addetto ai controlli delle Dogane nelle operazioni di “esfiltrazione” dello stupefacente dal Porto. Ma non si può parlare di un “sistema portuale profondamente compromesso”. Certamente il sistema portuale deve riservare sempre più attenzione a quello che avviene all’interno del Porto, per intercettare segnali di anormalità nei servizi svolti dai propri dipendenti che possono rivelarsi “sintomo” di più gravi condotte criminali al servizio delle cosche di ‘Ndrangheta del territorio. 

Maxi processi come Epicentro hanno dimostrato, tra l’altro, quanto fosse diffusa nel reggino la richiesta di “pizzo”… 

Il “pizzo” rimane una forma, oltre che di finanziamento immediato, ad esempio per il mantenimento dei detenuti o loro familiari, di controllo del territorio e della sua economia. Epicentro ha confermato, sempre allo stato del processo, che persino l’apertura di un esercizio commerciale in un dato territorio richiede il benestare della cosca insediata in quel medesimo territorio; e questo ci da l’idea di quanto soffocante per l’economia legale sia la pressione criminale delle cosche. Gli imprenditori devono confrontarsi con una realtà che non lascia loro altra scelta che quella di rivolgersi alle Istituzioni. Spesso sottomettersi alle richieste delle cosche di ‘Ndrangheta, e, quindi, beneficiare, anche indirettamente, della loro “protezione” li rende responsabili dell’inquinamento dell’economia legale, che si manifesta, anche, con la garanzia di non avere problemi in quell’area, di non avere la “concorrenza” di altri imprenditori nello stesso settore economico; li rende, altresì, responsabili di concorrere alla affermazione di quella medesima cosca che, anche attraverso loro, finisce per controllare, anche economicamente, quel dato territorio. Oggi sempre più le Istituzioni fanno la loro parte e dico agli imprenditori che ci sono, certamente, le condizioni per poter denunciare. ϖ

03/02/2023