di Cristiano Morabito e Annalisa Bucchieri
Attacco globale
La lotta alla criminalità organizzata diventa sempre più internazionale. Per contrastare la ’Ndrangheta, in seno all’Interpol è nato I-can: un progetto a trazione italiana, che ha permesso di catturare 40 latitanti nel mondo in meno di tre anni
Sottotraccia, silenziosa, resiliente, camaleontica e allo stesso tempo globale e globalizzante, capace di sfruttare al massimo la tecnologia e di adattarsi ad ogni cambiamento della società, spesso precorrendone tempi e tendenze, ma anche in grado di insinuarsi nel mondo della finanza e delle istituzioni mantenendo un profilo basso, assestando colpi fatali. Sarà per questi motivi, oltre a quello di avere un nome difficile a causa delle tre consonanti iniziali che portano molti ad aggiungere una vocale all’inizio per poterlo pronunciare, che la ’Ndrangheta è riuscita in modo così capillare a farsi strada all’interno della nostra società e in quella di molti altri Paesi del mondo, rimanendo comunque e sempre sottotraccia, fino ad arrivare ad essere una delle più potenti organizzazioni criminali del pianeta. Sorprende la sua capacità, pur non vantando natali “nobili” ma prettamente rurali dall’entroterra calabrese, di riuscire a trasformarsi di continuo senza attrarre l’attenzione, fino ad arrivare a infettare il mondo dell’alta finanza governato dalla tecnologia. Una volta i boss comunicavano tramite i “pizzini” e continuano a farlo anche oggi, ma non quelli della ‘Ndrangheta, che prendono i loro accordi su piattaforme di comunicazione criptate: un’evoluzione, ma anche una debolezza che ha permesso agli investigatori di acciuffare alcuni dei latitanti più pericolosi.
La ‘Ndrangheta però dal 2020 ha un nemico in più, che si chiama I-can. Acronimo di Interpol cooperation against ‘Ndrangheta, è il progetto di cooperazione internazionale di polizia nato proprio per pianificare e mettere in atto una strategia comune tra le polizie di quattro continenti per un attacco su scala globale alla mafia calabrese. Un network al quale aderiscono 14 Paesi che ha come mission quella di sviluppare un approccio globale per prevenire e contrastare la ’Ndrangheta, attraverso lo scambio di competenze specialistiche, intelligence e best practice.
Ne abbiamo parlato con il prefetto Vittorio Rizzi, vice capo della Polizia e direttore centrale della Criminalpol, a capo del progetto I-can.
Perché nasce il progetto I-can?
Per rispondere a un’esigenza oramai diventata urgente che è quella di prendere consapevolezza della globalizzazione e metamorfosi dei fenomeni mafiosi. La ’Ndrangheta è sicuramente l’organizzazione criminale che ha compiuto per prima un processo di “colonizzazione” e quindi di esportazione dei modelli criminali nazionali in altri Paesi, scegliendo come modalità operativa quella di agire sottotraccia, un atteggiamento parassitario per cercare di sfruttare le Istituzioni a fini criminali, senza mai entrare apertamente in contrasto con lo Stato, così come invece avvenne con Cosa nostra nella stagione delle stragi. Di conseguenza, questo approccio ha anche attirato meno l’attenzione delle forze di polizia sulla minaccia ’ndranghetista. È stata la prima mafia che ha avuto l’intuizione di colonizzare ed esportare il modello mafioso. Ogni anno nelle relazioni della Dia, che fotografano la mappatura delle organizzazioni criminali nel mondo, si è assistito a una progressiva proliferazione di “locali” di ’Ndrangheta in giro per il mondo: a oggi sono coinvolti ben 40 Paesi. Dunque, una minaccia globale e globalizzata, che necessitava di una risposta adeguata: bisognava innanzitutto trovare un linguaggio comune con i colleghi delle polizie degli altri Paesi. Tutto è nato in occasione di alcune conferenze a cui sono stato invitato a partecipare sia in ambito europeo che internazionale, dove ho scelto come argomento di parlare proprio della ’Ndrangheta. La cosa che mi sorprese nei primi incontri, fu che quando parlavo della ’Ndrangheta nessuno la conoscesse, anzi mi resi conto che, nel definire le organizzazioni mafiose italiane, i colleghi parlavano di fenomeni folkloristici. Dunque, mi impegnai a far comprendere che il folklore è qualcosa di diverso e che, soprattutto, non si tratta di “un’usanza” tipicamente italiana, ma di un fenomeno globale. I-can è nato innanzitutto per costruire una consapevolezza della pericolosità della minaccia mafiosa e per fornire agli investigatori tutti gli strumenti, una “cassetta degli attrezzi”, a disposizione delle forze di polizia: un archivio delle ordinanze di custodia cautelare, con bollettini informativi diramati periodicamente, per informare sulle operazioni contro la ’Ndrangheta che venivano effettuate, facendo confluire il tutto in un’app, una sorta di manuale di diritto comparato, realizzata in collaborazione con Swiss Institute, per poter agevolare i colleghi nella conoscenza delle procedure nel momento in cui ci si relaziona con i vari Paesi. Il tutto, ovviamente, finalizzato a compiere operazioni di polizia e a far scattare un “hit positivo” così come accaduto per l’arresto di Rocco Morabito, il più pericoloso latitante di ’Ndrangheta. In meno di tre anni sono stati catturati in tutto il mondo, dalle forze di polizia italiane e grazie al supporto del progetto I-can, 40 latitanti di ’Ndrangheta.
La ’Ndrangheta da mafia tipicamente rurale si è trasformata in una organizzazione iper tecnologica, che ha saputo sfruttare questo know-how a proprio vantaggio. Come si riesce a non cedere il passo?
Un altro step fondamentale è costituito dalle metamorfosi: la morfologia delle mafie è mutata e l’esempio più semplice per poterlo capire è proprio la cattura di Rocco Morabito. Se nel 2006 l’arresto di Bernardo Provenzano venne compiuto dalla polizia rintracciando il boss di Cosa nostra nel proprio territorio, che comunicava con i suoi accoliti attraverso lo strumento dei “pizzini”, nel 2021 Rocco Morabito venne scovato in Uruguay, dopo che era riuscito a evadere da un carcere di Montevideo avvalendosi della complicità della mafia russa e serba; aveva un passaporto del Paraguay e da qui era andato a passare la sua latitanza in Brasile. Comunicava su piattaforme criptate, finché non è caduto in una cyber trappola, un “undercover digitale” che si chiama “Anom”, ideata dalla polizia federale australiana e dal Fbi, nella quale venivano gestite le comunicazioni di criminali di tutto il mondo e, tra queste, anche quelle di Morabito. Venne scoperto quando, per darsi appuntamento con un suo sodale, postò la foto dell’insegna dell’albergo dove si sarebbero dovuti incontrare. I carabinieri del Ros, nell’ambito di I-can, tramite una geocomparazione hanno scoperto che quell’insegna corrispondeva a un posto ben preciso e unico nel mondo e lo hanno catturato con la collaborazione del Servizio per la cooperazione di polizia, che è un ufficio interforze che costituisce un hub per le forze di polizia italiane e straniere. Questa è plasticamente l’immagine di una metamorfosi: se prima un’organizzazione criminale radicata in un territorio aveva bisogno di quel territorio e di quel tipo di ambiente anche semplicemente per comunicare, oggi è tutto cambiato.
Qual è il giusto approccio a livello internazionale perché una cooperazione di polizia fra Paesi possa funzionare nel migliore dei modi, per arrivare al risultato finale?
Oggi bisogna attrezzarsi con un approccio globale, con una cooperazione internazionale immediata e soprattutto “informale”. L’attività di polizia che si svolge sui canali di cooperazione può essere formale o informale. Nel momento in cui è di tipo esclusivamente formale, è di sicuro rispettosa di tutti i protocolli, però inevitabilmente più lenta. In alcuni casi, nasce la necessità di rendere la cooperazione più simile a quella che può essere la modalità di lavoro nel proprio Paese, ma su scala globale. E questo può essere fatto solo su canali e su reti che siano le più specializzate possibile e informali. Ed è proprio da questa esigenza che nasce I-can, che si alimenta soprattutto grazie ai contatti informali che vengono stretti durante i numerosi meeting tra i Paesi che aderiscono al progetto.
Come è strutturato I-can?
Su due livelli: uno strettamente operativo e un altro più strategico. Quest’ultimo definisce gli obiettivi e stabilisce i costi da affrontare; in pratica amministra il progetto. La parte operativa è invece composta da squadre specializzate, ogni paese ha una sua unità, che sarà poi destinata a svolgere le operazioni sul campo. Quindi, si crea una rete di investigatori che sono stati formati, specializzati, che hanno costruito tra di loro un rapporto di fiducia e che si parlano direttamente, in modo tale che qualsiasi forza di polizia si rivolga alla cooperazione di polizia sulla ’Ndrangheta, venga indirizzata sui canali di I-can. I risultati ottenuti ci hanno dimostrato come questo tipo di modello operativo sia particolarmente efficace, proprio perché risponde alla logica di costruire un modello di cooperazione, con i canoni della cooperazione di polizia, ma la più diretta e informale possibile.
Per affrontare un’organizzazione criminale come le ’Ndrangheta è sicuramente necessaria una conoscenza approfondita del fenomeno.
Nell’affrontare i fenomeni criminali, è necessario partire dal concetto che siano da considerare come veri e propri fenomeni sociali che, in quanto tali, interagiscono con la società in tutte le sue componenti, compresa quella economica e quella tecnologica; spesso giocano anche di anticipo, perché in tutte le trasformazioni sociali i fenomeni prima si modellano e poi arrivano ad essere regolamentati. In questi frangenti c’è sempre una fase di anomia, dove qualcosa cambia e solo dopo viene creata la norma per regolamentarla. Le mafie in genere sono molto resilienti al cambiamento e quindi pronte a trasformarsi: come abbiamo assistito in questo secolo a una serie di straordinari cambiamenti, dall’analogico al digitale e dall’economia finanziaria alla tecno-finanza, cioè alla proiezione digitale di valori su piattaforme virtuali come le block chain e il Metaverso, con la costruzione di sistemi di pagamento digitale, così le mafie si sono immediatamente adattate. Ci sono forme di pagamento digitale anonime, come gli NFT, che non sono normate, ma che vengono usate quotidianamente da migliaia di persone. La ’Ndrangheta è stata la prima a compiere questo processo di trasformazione, il che sorprende perché nasce come mafia rurale per eccellenza e diventa mafia globalizzata e tecnologica.
Le altre mafie sono rimaste un passo indietro rispetto alla ’Ndrangheta?
È pericolosissimo generalizzare, ma ogni organizzazione mafiosa ha avuto un percorso evolutivo e quello di Cosa nostra ha raggiunto il suo apice con le stragi del ’92: un attacco frontale allo Stato, che ha comportato una risposta durissima da parte di magistratura, forze di polizia e soprattutto della società civile, che ha fatto nascere un’altra consapevolezza sociale, un percorso grazie al quale le organizzazioni mafiose sono state costrette a rivedere e calibrare tutte le loro strategie, fino ad arrivare a quella che viene definita come la stagione dell’inabissamento. Gli esperti delle mafie hanno utilizzato vari canoni di linguaggio, ma penso che, al di là di ogni classificazione, sicuramente dopo il ’92 e dopo le risposte dello Stato, Cosa nostra abbia dovuto rivedere profondamente molti equilibri. La Camorra da organizzazione verticistica con una precisa suddivisione territoriale e gruppi molto forti (come la Nco), oggi è diventata pulviscolare, perché si è frammentata in molti gruppi criminali, alcuni dei quali operano direttamente dall’estero; senza contare il colpo assestato dalle collaborazioni di giustizia che hanno ulteriormente contribuito a questa frammentazione, da ultimo l’arresto di Raffaele Imperiale a Dubai. La ‘’Ndrangheta si è mossa sempre sottotraccia, in maniera parassitaria e per prima ha saputo cogliere le opportunità di un mercato globale.
Proprio perché connotata come “globale”, la ’Ndrangheta collabora con altre mafie nel mondo?
Partiamo dal concetto fondamentale che l’attività della ’Ndrangheta è il business, quindi il problema principale è che se ci si muove all’interno di un mercato globale, non bisogna considerare il territorio nazionale, ma è necessario guardare al di là dei nostri confini, fino ad attraversare l’Oceano Atlantico, fino ad arrivare in Colombia, Ecuador e, soprattutto, in Paraguay, ai confini tra il Paese sudamericano, il Brasile e l’Argentina, la cosiddetta Tripla frontera. Dal porto di Asuncion è partito il 50% della droga sequestrata nel Vecchio continente e la capitale paraguaiana è diventata il crocevia di tutte le mafie, perché oggi la droga non è monopolio di un solo cartello, ma di numerosi, vere e proprie holding criminali dove per una sola spedizione possono esserci molti soggetti criminali come fornitori e altrettanti come destinatari; infatti, non è detto che lo stupefacente provenga da un’unica fonte, ma potrebbe provenire da più fonti, anche per una questione di “parcellizzazione dei rischi”. Stando agli atti del Congresso Usa, persino formazioni filopalestinesi, come gli Hezbollah, fanno business con le mafie in Paraguay. Lì si vedono lavorare insieme la Yakuza giapponese con il Primero comando da capital o il Partito vermillo (potentissime mafie brasiliane) e il cartello messicano di Sinaloa o addirittura con la mafia serba. Noi siamo molto concentrati sulle mafie “autoctone”, ma in questo momento le mafie forti nel mondo sono ’Ndrangheta, Primero comando da capital, Partito vermillo, i cartelli messicani e quelli colombiani e tutte collaborano fra loro, con un unico fine: il business.
Un business che, però, non riguarda solo traffici illegali, ma che vede sempre di più l’infiltrazione ’ndranghetista all’interno dell’economia legale, non solo del nostro Paese…
Assolutamente sì. Essendo la ’Ndrangheta una mafia adattiva e mimetica, ha la capacità di utilizzare in ogni Paese lo strumento che è più utile a raggiungere l’obiettivo: dove esiste un tipo di controllo antiriciclaggio, si adotteranno determinati strumenti, dove non esiste se ne metteranno in campo altri. Oggi le tecniche possono arrivare a livelli di raffinatezza estrema, per cui anche i Paesi che hanno un sistema di normazione antiriciclaggio molto forte possono subire l’aggressione criminale. Facciamo l’esempio dei non performing loans (NPL): le banche hanno nei loro portafogli debitori buoni e debitori meno buoni. Quando un debitore diventa chiaramente insolvente, quel debito, così come normato dalla Bce, non può essere portato dalla banca come potenziale attivo, proprio perché non rientrerà. Dunque, il debito viene svalutato e definito non performing loan, di cui le banche devono liberarsi, svendendolo sul mercato. Ovviamente stiamo parlando di asset importanti, magari composti da immobili e imprese, collegati ad un’esposizione debitoria difficilmente recuperabile: chi acquista questo credito deve avere determinati requisiti, compra, ristruttura, rivende e, di solito, chi acquisisce questi NPL sono fondi di investimento internazionali, come la normativa italiana, ad esempio, consente. E allora come si può avere certezza che nel fondo di investimento straniero non ci sia anche quota parte di soldi della ’Ndrangheta? È una modalità per entrare nell’economia legale senza commettere alcun reato. E questo perché in un mondo globale e globalizzato non si può più pensare che i confini regionali, provinciali, nazionali costituiscano un argine, ma solo un’opportunità.