Luigi Lucchetti*
La necessità del perdono
Provare risentimento e vendetta verso chi ci ha gravemente offeso può intossicare la psiche
Simon Wiesenthal, l’implacabile cacciatore di gerarchi nazisti braccati in tutto il mondo e alla cui ricerca ha dedicato l’intera vita, nell’opera “Il girasole”, racconta che nel giugno del 1942, a Leopoli, un giovane soldato delle Ss che stava per spirare gli confessò i suoi delitti per poter morire in pace dopo aver ricevuto il perdono da un ebreo. Wiesenthal glielo rifiutò, ma a distanza di anni si chiede ancora, e rivolge la domanda in particolare a filosofi, teologi e storici, se abbia avuto ragione o torto nel negare il perdono. L’Olocausto, per dimensioni e livello di atrocità, rappresenta nella storia recente l’esempio più sconvolgente del grado di abiezione a cui può giungere l’essere umano, ponendosi come riferimento e pietra di paragone per ogni riflessione circa la possibilità, l’opportunità e la legittimità del perdono. Ma senza andare a ritroso fino al secolo scorso, tutti i giorni le cronache dei giornali e della televisione riportano storie di delitti, violenze, abusi, discriminazioni, sofferenze indicibili a danno di singoli individui, gruppi o intere comunità. Di fronte a queste notizie si assiste generalmente all’espressione di compassione e partecipazione al dolore delle vittime da un lato, mentre dall’altro – specialmente da parte delle persone offese e di quanti sono a loro vicine – a sentimenti di rabbia e desiderio di vendetta nei confronti dei colpevoli. Ciclicamente poi, a seguito di gravi crimini perpetrati contro minori o altre vittime vulnerabili, l’opinione pubblica reclama pene esemplari riaccendendo il dibattito,