Raffaele Camposano*
Poliziotti per la libertà
Il contributo che alcuni poliziotti patrioti hanno dato alla Resistenza opponendosi, con coraggio e spirito di sacrificio, alla barbarie nazifascista in difesa dei valori della pace e della democrazia nel nostro Paese
“Voi non potete capire cosa significa la parola libertà”: sono le parole che il vice brigadiere di ps Pietro Ermelindo Lungaro ripeté alla moglie che gli raccomandava prudenza, pochi giorni prima di essere arrestato dalla Gestapo, il 7 febbraio 1944, all’interno della Caserma S. Eusebio di Via Mamiani a Roma.
Pietro Lungaro (Medaglia d’argento al Valor militare alla memoria), come tanti altri poliziotti durante l’occupazione nazista del territorio nazionale, scelse di sostenere la Resistenza pur sapendo di mettere a repentaglio la propria vita e quella dei suoi cari. Ai colleghi che avevano assistito impotenti alla sua cattura, ebbe la forza di affidare la sua famiglia, consapevole di aver fatto la scelta giusta per il bene dei suoi figli e del suo Paese.
Animato da sinceri sentimenti patriottici, operò in favore della formazione clandestina del Partito d’Azione, diretta dal colonnello della Regia Aeronautica, Umberto Grani, alla quale forniva armi, munizioni e viveri. Torturato a via Tasso, fu trucidato alle Fosse Ardeatine il 24 marzo del 1944, insieme ad altri 334 Martiri, tra cui un secondo poliziotto, il tenente ausiliario di polizia Maurizio Giglio, la cui vicenda personale è altrettanto toccante e significativa. Da ufficiale di fanteria, pluridecorato per diversi atti di valore sul fronte greco-albanese, Giglio prese parte l’8 settembre 1943 ai combattimenti contro i tedeschi a Porta San Paolo nella Capitale per poi, dopo la resa di Roma, mettersi a disposizione delle autorità militari alleate e italiane, ricostituitesi nel Sud Italia.
Con il placet del Servizio informazioni militare (Sim), fu inviato dal servizio segreto statunitense (Oss) in missione di spionaggio nella Capitale per fornire agli Alleati informazioni sui movimenti delle truppe tedesche, con il nome di battaglia “Cervo”. Compito che riuscì a svolgere più agevolmente e senza destare sospetti grazie all’arruolamento nel Corpo degli agenti di ps con la complicità di suo padre Armando, responsabile della II zona di Bologna dell’Organizzazione per la vigilanza e la repressione dell’antifascismo (Ovra).
Arrestato su delazione dalla famigerata “Banda Koch”, fu duramente seviziato nelle camere di tortura della pensione Oltremare di via Principe Amedeo, per essere assassinato successivamente dai nazisti alle Cave Ardeatine, a soli 23 anni, per rappresaglia, insieme a molte altre vittime incolpevoli, in risposta alla strage dei soldati tedeschi, perpetrata il 23 marzo 1944 in Via Rasella dai Gruppi d’azione patriottica (Gap) romani.
Lungaro e Giglio sono solo alcuni dei poliziotti che vengono ricordati nella pubblicazione Fecero la scelta giusta. I Poliziotti italiani che si opposero al nazifascismo, edita dalla Polizia di Stato, nel mese di gennaio 2025, insieme all’altra, dedicata ai poliziotti che soccorsero di ebrei.
Entrambi i volumi, rientrano nel più ampio progetto “Senza Memoria non c’è futuro” che la Polizia di Stato ha avviato per divulgare e preservare viva e attuale la memoria dei suoi appartenenti che, lottando contro il nazifascismo, seppero difendere l’onore della Patria e i valori di civiltà che le appartengono per retaggio storico e tradizione.
Ad alcuni di questi valorosi poliziotti, già a partire del 2022, sono state dedicate le pietre d’inciampo, realizzate dall’artista tedesco Gunter Demnig ideatore e promotore da più di trent’anni dell’iniziativa Stolpersteine, volta a diffondere nelle città europee la memoria degli assassinati nei campi di sterminio e di coloro che si sono opposti alla ferocia nazista, sacrificando la propria vita.
Dopo anni di ricerche d’archivio, frutto di un lavoro scrupoloso e sistematico, il personale dell’Ufficio storico della Polizia di Stato è riuscito a ricostruire l’agire ardimentoso, e sovente tragico, di questi nostri poliziotti-patrioti, la gran parte dei quali rischiava di rimanere confinata nell’oblio a causa della frammentaria e spesso lacunosa documentazione d’archivio disponibile.
A questa ricerca si sono aggiunti, nel tempo, gli approfondimenti di molti docenti universitari e degli storici di diversi Istituti per la Resistenza e la società contemporanea del Centro-Nord Italia, della Comunità ebraica di Roma e dei ricercatori di numerose sezioni dell’Anpi (Associazioni nazionali partigiani d’Italia), i cui saggi figurano nelle pubblicazioni accennate poc’anzi.
I poliziotti che combatterono per la libertà non si comportarono da eroi, nell’accezione comunemente intesa del termine, bensì da persone coraggiose e coerenti, caratterizzate da una purezza e da un’integrità di spirito che difettò a quanti (e furono tanti) scelsero di restare indifferenti, per paura oppure per semplice opportunismo, di fronte alla tracotanza di spietati e sanguinari carnefici, attorniati dai loro fiancheggiatori fascisti.
Essi decisero di rompere l’indifferenza e passare all’azione, certi che non vi fosse altra alternativa per non soccombere di fronte alle aberrazioni di ideologie come quella nazionalsocialista e fascista, bollate poi dalla Storia con ignominia per il loro portato di violenza e disumanità.
La gran parte erano giovanissimi come il tenente Maurizio Giglio (Medaglia d’oro al Valor militare alla Memoria); l’agente della Polizia ausiliaria repubblicana (Par) Dino Carta (Croce valor militare alla Memoria), poliziotto partigiano vicentino, ucciso dai fascisti il 12 gennaio 1945; l’agente di ps Giovanni Lupis (Mavm alla Memoria) e la guardia Pai Emilio Scaglia (Mavm alla Memoria), entrambi trucidati a Forte Bravetta alla vigilia della liberazione della Capitale (sono ricordati come i Martiri della vigilia) che, pur essendo cresciuti nel mito dell’Uomo della Provvidenza, non esitarono a schierarsi per i valori di libertà e di giustizia i quali, in sommo grado, erano proclamati dalla religione cattolica.
Non è un caso, infatti, che molti dei poliziotti partigiani, nel loro agire clandestino, avessero stretto rapporti di collaborazione proficui con diversi sacerdoti antifascisti, a dimostrazione di quanto fosse tenace il vincolo che legava coloro che combattevano per la libertà ai religiosi, che avevano scelto di restare coerenti fino in fondo, coi principi religiosi professati, come monsignore Desiderio Nobels e don Libero Raganella a Roma; Padre Paolino Beltrame a Parma; don Mario Scarpato e don Antonio Mori, parroci della provincia spezzina.
Ma quanti furono i poliziotti che decisero di opporsi al nazifascismo?
Quello che emerge dal quadro d’insieme delle ricerche finora effettuate è che ad operare non furono solo pochi e isolati poliziotti, ma centinaia di essi che, rimanendo al loro posto, senza distinzione di gerarchica e di età e con livelli di complicità e coinvolgimenti diversi, contribuirono efficacemente alla lotta di Liberazione.
Lo fecero opponendosi con le armi in pugno, sfidando l’occupante nazista, nel corso della difesa di Roma al ponte della Magliana e, poi, a Monterotondo coi reparti inquadrati della Polizia dell’Africa italiana (PAI) e a Napoli già a partire dall’11 settembre del 1943 e durante le “Quattro Giornate” (27 - 30 settembre 1943) o partecipando in numero consistente alle formazioni partigiane come nel caso dei quindici poliziotti comandati dal ventiquattrenne sottotenente di ps Vittorio Labate, comandante della tenenza degli agenti di ps di Ardenza (Livorno), che il 19 giugno 1944 decisero di unirsi con armi, munizioni e razioni di cibo del proprio reparto alla formazione partigiana “Santo” della III Brigata Garibaldi, operante nel comune di Castellina Marittima (Pisa). Altri, non meno audaci, scelsero di non abbandonare il proprio posto ma di dissimulare una collaborazione di facciata con le autorità nazifasciste, ricorrendo a condotte omissive o delatorie per vanificare l’efficacia dei loro ordini o intralciarne l’esecuzione, seguendo, in tal modo, molte delle indicazioni che gli provenivano dagli esponenti del Comitato di liberazione nazionale o dai partigiani con cui erano in collegamento.
Per loro fu così più agevole sottrarsi al controllo di spie e di delatori fascisti e nazisti e continuare, senza correre rischi inutili, a sostenere le formazioni partigiane con la fornitura di informazioni, armi, munizioni, documenti e lasciapassare contraffatti, viveri, medicinali o indumenti.
La segretezza divenne il presupposto indispensabile per non destare sospetti e sottrarsi alla cattura ma, allo stesso tempo, costituì anche un elemento di intrinseca debolezza che impedì ai poliziotti resistenti di organizzarsi in gruppi più numerosi all’interno dei rispettivi uffici e reparti.
Non era infrequente, infatti, che in molte questure del Centro-Nord Italia si trovassero ad operare contemporaneamente poliziotti che non sapevano dell’attività clandestina dell’altro, essendo appartenenti o in contatto con formazioni partigiane di diverso orientamento politico.
Ciò non impedì, tuttavia, di costituire, laddove fu possibile, una ramificata rete di contatti sul territorio, in grado, in caso di bisogno, di attivarsi e di interagire efficacemente sia con la Resistenza sia con i servizi di intelligence alleati.
Quanto avvenne a Udine e a La Spezia nel 1944 è indicativo del quadro complesso in cui si trovarono ad operare molti di questi poliziotti e funzionari di ps patrioti.
Nel caso di Udine bastò una delazione a mettere sotto scacco la questura e quanti vi lavoravano.
Il 22 luglio di quell’anno, dopo aver circondato la questura, i tedeschi arrestarono diversi poliziotti con l’accusa generica di scarsa collaborazione con le autorità o di attività contrarie alle direttive politiche della Repubblica sociale italiana o degli occupanti tedeschi. Pochi giorni dopo la stessa sorte toccò al questore e a un’altra quarantina di sospettati, anch’essi poliziotti e impiegati della questura.
Al blitz nazista, compiuto in evidente spregio all’alleato fascista, seguì la tortura e la condanna alla deportazione di dieci poliziotti. Ridotti a Stücke, “pezzi” senza valore, componenti intercambiabili di una moltitudine, identificati semplicemente da un numero, essi consumarono le loro esistenze nei lager di Mauthausen-Ebensee, Mauthausen-Melk, Buchenwald-Ohrdruf Nord, Dachau-Kottern Weidach. A tornare vivo da quell’inferno di orrore e di dolore fu solo il maresciallo di ps Spartero Toschi, che fu testimone delle atrocità subite da alcuni suoi compagni.
A La Spezia, invece, a scatenare la caccia agli oppositori politici fu l’ex capitano della Gnr Emilio Battisti, nominato questore ausiliario dal capo della provincia Appiani. Fanatico fascista, appoggiandosi alla “Banda Gallo”, una formazione eterogenea che agiva come servizio investigativo autonomo, alle dirette dipendenze dei tedeschi, ordinò diversi rastrellamenti, uno dei quali, eseguito il 23 novembre 1944, portò all’arresto di quasi quattrocento persone sospettate di avere collegamenti con il Cln. Tra di essi figuravano anche quattro poliziotti della questura di La Spezia, due dei quali funzionari di ps, la cui sorte ricalcò quella dei colleghi di Udine. Dopo essere stati segregati e seviziati nel campo di concentramento di Bolzano, fino al 4 febbraio 1945, vennero trasferiti nel lager di Mauthausen, dove tre di essi furono assassinati dai nazisti.
L’ulteriore merito delle pubblicazioni dedicate rispettivamente ai poliziotti italiani che si opposero al nazifascismo e a quelli che salvarono gli ebrei è quello di aver posto l’attenzione sul loro tragico destino che risultò identico a quello degli internati militari Italiani non optanti.
Infatti, questi ultimi, in violazione delle norme previste dalla Convenzione di Ginevra del 1929, furono considerati dai nazisti dei veri e propri schiavi, utilissimi a sostenere lo sforzo bellico tedesco e a sostituire il lavoro dei tedeschi richiamati alle armi per sostenere le difese del Reich.
Ai poliziotti deportati, essendo considerati “traditori”, fu riservato dai loro carnefici un trattamento oltremodo disumano e atroce, dato che il loro scopo non era quello di servirsene come forza lavoro, ma di eliminarli fisicamente.
A seguito dell’occupazione nazista del Centro Nord e dell’instaurazione del regime collaborazionista della Repubblica sociale lo scenario italiano, essendo mutato drasticamente, aveva evidenziato quale fosse il vero volto del nazismo, intenzionato a proseguire nella “soluzione finale” degli ebrei e a combattere, ad oltranza, sia contro gli Alleati che contro i partigiani.
Divenne chiaro agli Italiani, stanchi della guerra e delle sue catastrofiche conseguenze, che la resa dei conti era oramai vicina e fosse giunto il tempo di fare ognuno la propria parte.
Proprio il generale Raffaele Cadorna, che durante la lotta di Resistenza partigiana, nel luglio del 1944, assunse il comando del Corpo volontari della libertà, il braccio militare della Resistenza, con queste parole riassume la motivazione che fu alla base di tutti quelli, poliziotti compresi, che sostennero il moto insurrezionale che portò alla sconfitta del nazifascismo: « Fu allora l’amore ad unirci. Amore di un Paese non vile che sembrava affondare in un vortice di vergogna e di viltà, amore per una tradizione non ingloriosa che pareva scomparire nel fango del disonore militare, amore per tutte le nostre città calpestate da un crudele oppressore, per tutte le nostre montagne offese, per le nostre vallate insanguinate, amore per tanti nostri fratelli perseguitati, insultati, massacrati dal nemico di cui non ci riusciva più distinguere il volto umano. Fu allora il pericolo ad unirci poiché su tutti noi come un unico sensibile corpo pesava la corda dell’impiccato, il coltello dello sgozzato, il piombo del fucilato, i chiodi dei crocifissi».
Le narrazioni contenute nei due volumi ”Fecero la scelta giusta”, nel ripercorrere gli innumerevoli e drammatici eventi, che si sono succeduti dall’occupazione nazista fino alla Liberazione, hanno inaugurato un nuovo percorso nella ricerca storica, che ci permetterà, ne sono certo, anche in futuro di far luce ulteriormente sul ruolo svolto da tanti poliziotti, ancora sconosciuti, nella lunga e sanguinosa battaglia per la riconquista della libertà e per l’affermazione della democrazia in Italia.
A suggellare il valore, il coraggio e la tenace determinazione di questi poliziotti patrioti che hanno contribuito efficacemente alla Resistenza, in occasione del 173° Anniversario della Fondazione, la Bandiera della Polizia di Stato verrà fregiata con la Medaglia d’oro al Merito civile. Senza dubbio, è una felice coincidenza che questa importantissima onorificenza venga conferita nell’anno della ricorrenza dell’80° Anniversario della Liberazione, affinché risulti di buon auspicio per l’agire quotidiano degli uomini e delle donne della Polizia di Stato e per il destino che attende la nostra Nazione. ϖ
*Primo dirigente della Polizia di Stato in quiescenza. Direttore dell’Ufficio storico dal 2009 al 2022
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LETTERA ALLA MADRE
Estratto della lettera che Maurizio Giglio indirizzò a sua madre, Anna Isnard, prima di riattraversare le linee nemiche per far rientro nella Capitale. Fu consegnata dal capitano Bourgoin dopo la Liberazione di Roma, nel momento in cui Maurizio non era più in vita:
“Se non ho mantenuto la promessa fattavi di restare tranquillo a Pescasseroli è stato perché ciò non era naturalmente possibile in primo luogo, e poi, perché sarebbe poco bello che io, che sempre ho professato e predicato la dedizione alla Patria, mi tirassi indietro al momento dell’azione. No, ciò non può essere e voi lo capite benissimo. Qui non si tratta di spirito eroico: è lo spirito umano che si ridesta ed ogni uomo con esso. Da lungo tempo io cercavo stesso la verità; cercavo affannosamente dove e quale fosse il retto cammino…
La mia mente non ha avuto ancora il modo di formarsi ad una disciplina costante, ma pur nel buio, è stata sempre guidata e sorretta da quelle idee e principi morali che sono stati sempre a base di qualsiasi tempo e costume”...
Maurizio Giglio
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Memoria futura
Alcuni ricorrenze sono l’occasione per incontrare persone che portano dentro di sé insegnamenti importanti. Quelli di chi ha lottato per difendere la libertà, di chi anche nell’ambito della Polizia di Stato ha fatto propri i valori della Resistenza opponendosi alla violenza nazifascista. Uno di loro è stato Antonino D’Angelo, commissario di pubblica sicurezza, incarcerato come prigioniero politico per 40 giorni e deportato il 26 agosto 1944, all’interno di un carro bestiame, prima al centro di smistamento di Dachau, poi a Mauthausen da cui non avrebbe fatto più ritorno. In occasione della cerimonia avvenuta a Montecitorio la nipote Gioia D’Angelo è passata a trovarci nella nostra redazione per ricordare, con parole piene di emozione, il nonno Antonino e la ricchezza di valori che è riuscito a trasmettere.
Suo nonno Antonino D’Angelo, commissario presso la questura di Udine, è stato deportato per aver difeso la popolazione dalle violenze naziste. Quale testimonianza lascia alla vostra famiglia e alla Polizia di Stato?
Conosciamo i suoi pensieri dalle lettere che mio nonno ha scritto dal carcere di via Spalato, e quelle gettate dal treno merci che lo portavano prima a Dachau e poi a Mauthausen, e che i partigiani portarono a mia nonna. L’insegnamento è il suo testamento per noi. Le sue parole per noi sono sempre state fondamentali. Sempre. Per tutta la famiglia. Sono lettere piene d’amore, gratitudine e speranza verso il futuro con le indicazioni su come indirizzare le propria vita verso lo studio, la dedizione, l’impegno. Alla Polizia di Stato ha lasciato l’importanza del sacrificio, della difesa del valori della civiltà e di giustizia.
Nella sua testimonianza all’interno del volume “Fecero la scelta giusta. I poliziotti italiani che si opposero al nazifascismo” lei scrive che le parole sopravvivono al tempo e alle persone.
Dopo avvenimenti di grande dolore rimangono solo le parole. Quale valore hanno le “parole” oggi rispetto a quel che è accaduto a suo nonno in un periodo storico ormai lontano?
Le parole sono state tutto. Tutto ciò a cui mia nonna si è aggrappata. Lei lo aveva aspettato tutta la vita e non ha fatto altro che leggere e rispondere alle lettere di mio nonno. La forza delle sue parole ha dato la spinta e la determinazione a mia madre, a mia zia e a mio zio di intraprendere le carriere professionali che hanno seguito. Fin da piccoli le parole di mio nonno Antonino hanno risuonato nella nostra famiglia come indicazione per studiare con grinta e voglia di migliorare se stessi.
Che significato ha la Memoria per lei?
Quando si parla di Memoria si pensa automaticamente al passato, a me invece piacerebbe parlare di “Memoria futura. Io sono un’attrice quindi amo fortemente le parole, le parole sono un’ancora, sono una luce, possono muovere le coscienze, gli stati d’animo. Credo siano fondamentali per condurre alle giuste azioni. Le parole sono un faro, una luce nei momenti di buio e d’indecisione e mi aiutano a trovare la strada giusta. Non che io riesca sempre a percorrerla, ma certamente hanno sempre aiutato la mia famiglia.
Recentemente a Palazzo Montecitorio sono stati presentati i due volumi “Fecero la cosa giusta” durante un evento a cui hanno partecipato il presidente della Repubblica, il ministro dell’Interno, il capo della polizia e altre autorità istituzionali. In uno dei volumi è raccontata la vicenda di suo nonno. Cosa ha significato per lei?
Parlando a nome di mia madre, di mia zia e di mio zio posso dire di provare profonda gratitudine per questa attenzione e per il valore che è stato riconosciuto a questi uomini, per le scelte di coraggio che hanno compiuto. Sicuramente sono stata onorata di aver partecipato a un evento così importante e di aver potuto parlare di lui. L’unica cosa che posso fare è di continuare a raccontare la sua vicenda che, attraverso la forza delle parole, può essere di monito in una società che va sempre di fretta e in cui molto spesso l’indifferenza e l’egocentrismo dominano i comportamenti umani. L’insegnamento che mio nonno ci ha lasciato contiene la speranza che si possano fare le cose giuste e sono contenta che il suo sacrificio non sia stato vano. Se mia nonna fosse stata presente a questo evento si sarebbe commossa tantissimo, sarebbe stata felicissima di sapere che è stato riconosciuto il merito di suo marito, il commissario Antonino D’Angelo.
Antonella Fabiani
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