Maurizio de Giovanni*
Come eravamo
Come per ogni anniversario illustre, per queste nozze di brillanti tra l’Istituzione e Polizia Moderna, 75 anni di pubblicazioni e di narrazioni ininterrotte, abbiamo pensato di ridare luce e leggibilità ad alcune pagine “datate”. Di volta in volta saranno commentate da giornalisti e storici che ci restituiranno il loro punto di vista
La memoria è fatta di piccole cose. Per carità, ci sono i grandi eventi che fanno la Storia con la S maiuscola, quella che orienta il futuro della collettività. E se uno considera solo i Grandi Eventi, allora l’anno in cui si sono verificati diventa addirittura secondario, marginale: un contenitore in cui si inseriscono quando è necessario, ma che varrà sempre meno del contenuto. Nel 1953, per esempio, è stata scoperta l’esistenza del Dna; ed è stata incoronata Elisabetta II d’Inghilterra. Ma chi si ricorda di quel numero, di fronte all’impatto che sull’epoca successiva hanno avuto questi due sfolgoranti inizi?
Se però abbandoniamo la consapevolezza storica e pensiamo alle nostre esistenze, e a quelle di chi ci ha preceduto, allora forse varrà la pena di osservare le minuscole cose quotidiane, quelle che caratterizzavano il costume per intenderci, che ci fanno capire com’era in realtà la vita di ogni giorno, quella che si snodava attraverso necessità e abitudini. E soprattutto quali erano i sentimenti, individuali e collettivi, che sostenevano questa ottusa, testarda voglia di sopravvivere alle avversità e di sbarcare con coraggio in quel territorio sconosciuto e bellissimo che è il futuro.
È così che osservare le pagine della rivista Poliziamoderna fa battere il cuore e aprire al sorriso. Ci sono ingenuità e dolcezza, certo; e il linguaggio è semplice e diretto, senza quella ricerca spasmodica di originalità e sorpresa che va di moda oggi. Ma ci sono anche entusiasmo, ottimismo e desiderio di costruire, merce diventata purtroppo rarissima e di cui, dopo aver letto un paio di righe di questi articoli di settant’anni fa, tutti sentiamo un’acuta dolorosa mancanza.
Si parla di colonie, per esempio. Di un’opportunità di vacanze, di sole, di divertimento e di salute per bambini e ragazzi che altrimenti non avrebbero potuto permetterselo, pur essendo figli di persone che lavoravano e che potevano godere di cosa allora rara, e purtroppo forse anche oggi: un reddito costante. E questo valeva anche per gli stessi lavoratori, accolti in “centri di riposo” dove si poteva godere, oltre che di un luogo decisamente ameno, della reciproca compagnia.
Il sorriso. Quello che emerge dalle foto dell’epoca, ingiallite ma vivide, è il sorriso. I bambini, gli adulti, gli assistenti e gli ospiti sorridono. E non sono sorrisi di circostanza, non derivano dall’imbarazzo di trovarsi davanti a un obiettivo: sorridono perché sono felici. Entusiasti, pieni di aspettative.
Ecco perché mettersi a sfogliare queste pagine, oggi, è un’esperienza dolcissima ma anche in qualche modo dolorosa. Quel tempo ingenuo, senza smartphone e mappe satellitari, senza intelligenza artificiale e viaggi low cost aveva qualcosa che arriva in un’ondata calda al nostro cuore indurito e diffidente. Le persone di allora, che in larga parte non ci sono più, venivano dalla sofferenza indicibile di privazioni, prigionie, macerie e morte, ma andavano a vele spiegate verso qualcosa di meraviglioso: un futuro migliore. Ci credevano, erano aggrappati a questa speranza. E sapevano bene che l’unico modo per arrivarci era il reciproco sostegno, la solidarietà, l’appoggio a chi aveva bisogno. O ci salviamo tutti, o non si salva nessuno. Loro lo sapevano con chiarezza.
Sospirando e sorridendo, mentre leggiamo, non possiamo fare a meno, noi che abitiamo proprio quel futuro, di chiederci quando e come abbiamo perso quella consapevolezza. E a come potremmo ritrovarla.
Per poter sorridere anche noi, come sorridono queste persone nelle fotografie ingiallite di allora.
*romanziere