Gianluca Di Feo*
Come eravamo
Come per ogni anniversario illustre, per queste nozze di brillanti tra l’Istituzione e Polizia Moderna, 75 anni di pubblicazioni e di narrazioni ininterrotte, abbiamo pensato di ridare luce e leggibilità ad alcune pagine “datate”. Di volta in volta saranno commentate da giornalisti e storici che ci restituiranno il loro punto di vista
Com’è piccolo il mondo. In quegli anni la guerra era ancora una ferita recente, che aveva disperso le genti al seguito degli eserciti e ridisegnato i confini d’Europa. In Italia poi la pace aveva riaperto le porte al turismo straniero ma non aveva ancora cancellato le bande armate nate dal caos del conflitto. Tra vacanzieri e profughi si confondevano delinquenti di ogni risma: dai truffatori seriali agli assassini, pronti a cambiare identità e nazionalità con la sagacia di chi era abituato a far tutto pur di sopravvivere. Ed ecco nascere qualcosa che i criminali non avevano previsto: una polizia che andava oltre le frontiere e creava una rete mondiale per mettere fine ai loro crimini. L’Interpol, capace di mettere insieme già nel 1949 trentatré Paesi in uno scambio di informazioni che pareva fantascienza. Se ne accorsero a loro spese Virgilio Casula, Emilio Mellis, Renato Cannas e Giuseppe Corda, sorpresi dalla gendarmeria francese sui monti di Mentone: erano carichi di banconote e assegni, che tentarono invano di nascondere. Dissero di essere imprenditori che avevano venduto un’azienda in Sardegna: una giustificazione fino a pochi anni prima difficile da verificare. Non per l’Interpol: l’ufficio di Parigi contatta quello di Roma, scattano i controlli a Cagliari ed ecco che gli assegni risultano parte del bottino della rapina alle miniere di Ingurtosu in cui erano stati uccisi un carabiniere e una guardia giurata.
Era l’alba di una rivoluzione. Che non a caso riceveva grande attenzione sulle pagine di Polizia Moderna: la collaborazione con l’Interpol imponeva un salto di qualità per adeguarsi agli standard dei migliori investigatori occidentali. Servivano schedari completi, catalogazioni aggiornate, impronte digitali di buona qualità e tanti riscontri scientifici: “diligenza, precisione, rapidità” erano le parole chiave, evidenziate proprio nel titolone. E lo dimostra pure la scelta del primo responsabile dell’organizzazione, che firma gli articoli della rivista: Giuseppe Dosi. Un poliziotto leggendario, maestro nei travestimenti e nei pedinamenti, che nel 1925 aveva sventato un attentato contro Benito Mussolini ma poi aveva avuto il coraggio di denunciare le distorsioni nell’indagine per accusare ingiustamente Gino Girolimoni per lo stupro e l’uccisione di alcune bambine. Dosi credeva che il colpevole fosse un altro e lo aveva sostenuto in ogni sede mentre il regime fascista voleva la condanna del “Mostro di Roma”: per obbligare l’ispettore a tacere lo incarcerarono in un manicomio criminale.
Il tempo è stato galantuomo con Dosi, reintegrato in servizio nel 1940 e incaricato nel 1948 di gestire l’ingresso della polizia nella partita fondamentale della cooperazione internazionale.
Le attività che descrive restano straordinarie: la capacità ad esempio di identificare un omicida francese, che si era nascosto tra i profughi con la moglie romana passando di monastero in monastero dalla Capitale a Napoli, fino a scoprire il nome falso e il bastimento su cui si era imbarcato per raggiungere il Sud America riuscendo a catturarlo. Perché la polizia italiana ha saputo subito fare leva sulla tradizione di controllo del territorio e sulla determinazione dei suoi operatori per ottenere il plauso dei colleghi stranieri: siamo rapidamente diventati maestri. I testi di Polizia Moderna sono illuminanti e mostrano come i problemi nel coordinamento tra Paesi siano rimasti gli stessi, a partire dalla difficoltà nelle grafie dei nomi, e anche le specialità dei delinquenti cosmopoliti, come le truffe messe a segno fingendosi nobili o magnati. Allora come oggi, l’Interpol ha però reso molto più piccolo il mondo del crimine. ϖ
*analista de “La Repubblica”