Cristiano Morabito

Un male contemporaneo

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La violenza giovanile in Italia, le sue origini e uno sviluppo che negli ultimi anni ha fatto alzare il livello di attenzione delle forze di polizia. Ne parliamo con il direttore dello Sco, Vincenzo Nicolì, con uno sguardo ai dati del Servizio analisi criminale

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arliamo con i nostri figli, cerchiamo di trovare sempre il tempo di farlo, magari anche solo pochi minuti ogni giorno facendoci raccontare le loro giornate che, come quelle di noi adulti, possono sempre sembrare una uguale all’altra ma, anche a costo di sentirsi dire sempre le stesse cose del tipo «Sono andato a scuola, mi sono allenato, ho visto i miei amici, etc.», ascoltiamoli sempre, nei meandri dei loro spesso semplici racconti, cerchiamo di capire se c’è qualcosa di particolare e di cogliere quei piccoli, spesso impercettibili, segnali che, invece, tanto piccoli non potrebbero essere, ma potrebbero configurarsi come dei primi segnali di allarme di un qualcosa da approfondire e che, se preso per tempo, potrebbe evitare ai nostri ragazzi conseguenze irreparabili. Non dobbiamo solo ascoltarli, ma anche cercare di notare se nei loro comportamenti, nel loro crescere passando dalla fase adolescenziale a quella della giovinezze fino alla maturità, ci sia qualcosa di nuovo o anche di preoccupante. Quante volte i genitori, interrogati dalle forze dell’ordine a causa di reati commessi dai propri figli, rispondono agli investigatori «No, mio figlio non aveva mai dato segnali del genere», salvo poi ricredersi andando a scavare un po’ di più nella memoria finché quel «Chi mio figlio? State scherzando?» spesso diventa un «In effetti, quella volta mi si è rivolto in modo più violento» o un «Ah, ora ricordo… una volta che l’ho sgridato ha tirato un pugno alla porta della cucina…». 

Appunto, segnali piccoli, a volte piccolissimi, che però possono invece essere grandi campanelli di allarme, prodromici, o anche contestuali, di un qualcosa di ben più grave che sta per accadere, che è appena accaduto o che accade da tempo.

Se nel 2023 i genitori di una delle due cuginette di Caivano non si fossero accorti di quei piccoli piccoli segnali di disagio disperatamente e inconsciamente lanciati dalla figlia, probabilmente il branco avrebbe ancora continuato nelle sue azioni e, il piccolo paesino della periferia nord di Napoli, non sarebbe assurto agli onori della cronaca nera, non ci sarebbe stata la sollevazione popolare, non si sarebbero risvegliate le coscienze e molti genitori non avrebbero mai scoperto che i propri figli, in gran parte purtroppo minorenni, sarebbero stati capaci di tali nefandezze.

Negli ultimi decenni, il fenomeno della violenza giovanile è emerso come una delle questioni più preoccupanti per le società moderne, assumendo contorni sempre più complessi e sfaccettati. Le dinamiche che lo sottendono si sono progressivamente intrecciate con fenomeni più ampi come il disagio giovanile, la diffusione della violenza di genere e il radicamento di culture deviate alimentate anche dal crescente impatto della tecnologia e dei social media. Elemento cruciale, l’evoluzione del comportamento giovanile post-pandemia, che ha contribuito a plasmare nuove modalità di espressione della violenza e a rendere più difficili le operazioni di prevenzione e contrasto; attività che vede in prima linea la Polizia di Stato e, in particolare, il Servizio centrale operativo grazie al quale, insieme alle sue articolazioni periferiche rappresentate dalle Squadre mobili, e ad uno studio del Servizio analisi criminale (Sac), possiamo esplorare in profondità il fenomeno, soprattutto nella sua intersezione con la violenza di genere.

L’impatto della pandemia: una “tempesta perfetta sulla gioventù”
«La pandemia da Covid-19 ha inciso profondamente su tutti gli aspetti della vita sociale e ha lasciato un segno indelebile sulla psiche collettiva, in particolare tra i giovani – esordisce il direttore dello Sco, Vincenzo Nicolì – Durante il lockdown, i reati sono diminuiti drasticamente, ma il confinamento forzato ha generato un accumulo di tensione che si è riversato subito dopo la fine delle restrizioni. La “tempesta perfetta” è stata generata dalla combinazione di fattori psicosociali che hanno portato i giovani a manifestare comportamenti aggressivi e devianze di varia natura. L’isolamento forzato ha interrotto bruscamente il processo di socializzazione naturale dei ragazzi, trasformando i social media in uno spazio virtuale in cui compensare la mancanza di relazioni interpersonali fisiche. Se da un lato, i social hanno rappresentato una valvola di sfogo, dall’altro sono stati un catalizzatore di comportamenti di vario genere, anche negativi. Nel contesto della pandemia, le piazze virtuali della Rete si sono trasformate in luoghi di aggregazione per i giovani, sostituendo la funzione delle piazze fisiche, storicamente deputate alla socializzazione e allo scambio. E a questo si è unito anche il fatto che, e i dati del Servizio analisi criminale lo confermano, i giovani e gli adolescenti di oggi, non sono come quelli di 30-40 anni fa. Sono persone in grado di muoversi nelle città autonomamente, di andare anche al di fuori dei loro quartieri e quindi hanno indubbiamente una maggiore capacità decisionale, purtroppo anche in termini negativi».

Il ruolo dei social media, come accennavamo prima, nella diffusione della violenza tra i giovani non può essere sottovalutato. Essi fungono da piattaforma per la costruzione di identità virtuali, a volte distorte, in cui l’aggressività e il “potere” possono diventare strumenti di affermazione sociale. Una situazione che nell’ultimo decennio si è ulteriormente aggravata, a causa dall’esposizione costante dei ragazzi a contenuti che promuovono comportamenti violenti e criminali, anche in una parte del mondo musicale come alcuni generi che, nonostante non possano essere criminalizzati in toto, veicolano molte volte messaggi più che ambigui. 

Un mondo particolarmente variegato quello della criminalità giovanile, con gruppi presenti sia tra gli italiani sia tra gli stranieri, anche di seconda generazione, in maniera abbastanza trasversale e che spesso e volentieri si incrociano tra di loro. «Non ci piace la definizione di “baby gang” – dice Nicolì – e infatti non la usiamo». Una delle sfide principali nel trattare la violenza giovanile è la corretta definizione e categorizzazione dei gruppi coinvolti. Il termine “baby gang” è spesso utilizzato in modo generico dai media e dal pubblico per descrivere giovani coinvolti in atti criminali, ma questa etichetta può risultare fuorviante e restrittiva.

«Il dato che stiamo rilevando – prosegue il direttore dello Sco – è che progressivamente, soprattutto in alcune in realtà del Centro nord, queste dinamiche criminali, perché di tal specie si tratta, vanno anche a incidere in una sorta di tentativo di imporre il controllo del territorio, anche semplicemente come sfida alle istituzioni. Abbiamo visto più volte come vengano in qualche maniera bloccati gli accessi a determinati quartieri, come si vada alla ricerca della rapina del capo firmato piuttosto che del telefonino, non tanto e non solo per acquisire il bene ma anche per imporre la presenza e l’egemonia in quell’area. Al Sud la situazione è un po’ più complessa perché a questo aspetto si lega anche uno storico approccio alle organizzazioni criminali di tipo mafioso, che comunque si sono progressivamente alimentate anche di nuove leve che iniziano a “mettersi in mostra” con reati più vicini a quelli da strada, per poi in qualche maniera “fare carriera” all’interno delle organizzazioni. Al Sud l’esempio tipico è quello della camorra napoletana; in questo caso, banalizzare le bande giovanili come un fenomeno quasi folkloristico vuol dire sottovalutare pesantemente l’influenza della criminalità organizzata. Indubbiamente questo aspetto porta anche delle valutazioni sulla possibilità che in questi gruppi criminali si annidino altre prospettive ideologiche, altre problematiche, tipiche di alcune città nord europee, come nel caso delle banlieu francesi. Ed è il motivo per quale lo Sco, dalla scorsa estate, sta sistematicamente sviluppando delle attività investigative e di contrasto su questo specifico fenomeno».

Sebbene questi gruppi di giovani criminali operino anche nelle zone centrali, i loro quartier generali sono normalmente legati alle zone di provenienza, tenendo sempre ben presente che la distinzione che si faceva 30 anni fa tra centro e periferie, al giorno d’oggi lascia il tempo che trova: «Una volta la periferia era periferia fisica e periferia anche di contesto – osserva Vincenzo Nicolì – Adesso è solo periferia fisica, perché le stesse persone si possono spostare verso le zone centrali con estrema facilità. Bisogna fare lo sforzo di comprendere che il fenomeno è stato reso più complesso, e anche più difficile da combattere, dallo sviluppo enorme dei social e dalla mobilità di diverso tipo che adesso i ragazzi possono sfruttare».

Un fenomeno fluido, eterogeneo e trasversale
Sono tre caratteristiche che disegnano il fenomeno della criminalità giovanile, dal Nord al Sud della Penisola, con gruppi che tendono a identificarsi e ispirarsi alle omologhe gang USA o del Centramerica. «Come per tutti i gruppi criminali – prosegue il direttore del Servizio centrale operativo – c’è bisogno di una riconoscibilità esterna, di un progetto a cui aderire, di riconoscersi in qualcosa. Quello che caratterizza questi gruppi è un’estrema fluidità, un’estrema mobilità, una capacità di travasare e di spostarsi da un gruppo a un altro. Difficilmente troviamo capi che stabilmente restano tali: il capo normalmente viene imposto dalla base quasi per paura, una dinamica un po’ diversa da quella dei gruppi criminali storici degli adulti, dove si arriva a essere capi per altre dinamiche, per “meriti”. Questo fenomeno criminale, rispetto a tutti gli altri, si caratterizza anche per una grande complessità, cambiano in continuazione e le motivazioni che fanno sì che un gruppo si sviluppi in un senso piuttosto che in un altro, sono veramente molto varie».

Ma non bisogna fare assolutamente l’errore di pensare che siano tutti quanti ragazzi appartenenti esclusivamente a fasce della società con gravi disagi. Non è raro che il “fighetto” della Milano bene si trovi coinvolto insieme a coetanei di Quarto Oggiaro, così come il “pariolino” romano con ragazzi di San Basilio o che il “chiattillo” del Vomero partecipi alle “stese” insieme a giovani di Scampia: «Talvolta per attrazione o per emulazione abbiamo registrato anche la presenza di persone che hanno un percorso scolastico normale e che provengono da famiglie che non hanno precedenti di polizia. Non c’è dubbio che in questo abbiano un ruolo determinante i social, dove anche con un semplice “like” si aderisce a un “progetto criminale” consentendo a questi ragazzi di essere accolti in quell’ambito. Tant’è che in alcune situazioni queste attività criminali sono state anche connesse a tutto il fenomeno della cosiddetta “malamovida”».

Allarme armi
Altro aspetto particolarmente preoccupante è quello della presenza diffusa di armi nell’ambito di queste aggregazioni giovanili criminali, sia da taglio che da fuoco. La tendenza a esibire armi sui social, in particolare in video musicali o clip condivise nelle piattaforme di streaming, ha contribuito a normalizzarne il possesso tra i giovani. Questo fenomeno è preoccupante non solo per il rischio di escalation di violenza, ma anche perché rappresenta una minaccia diretta alla sicurezza pubblica. Anche quando si tratta di armi finte, come pistole giocattolo modificate o scacciacani, l’effetto di intimidazione e il pericolo di incidenti restano altissimi. «Che poi queste armi da fuoco siano repliche, scacciacani, pistole giocattolo senza il tappo rosso e che sia un modo per rafforzare la “potenza” di questi ragazzi, è un altro aspetto – aggiunge Nicolì – Però, indubbiamente, che si girino dei video in cui si mostrano armi che sembrano vere, in cui anche inconsapevolmente si faccia finta di attaccare una Volante della polizia piuttosto che una Gazzella dei carabinieri, è evidentemente il segnale che un altro aspetto che caratterizza questi gruppi giovanili, soprattutto se sono minimamente strutturati, è certamente quello della voglia di contrapporsi ai modelli dello Stato».

Violenza di genere tra i giovani: una crescita preoccupante
Secondo uno studio del Servizio analisi criminale, la violenza di genere tra i giovani è in forte aumento, con dati che dimostrano un coinvolgimento crescente di adolescenti e giovani adulti sia come vittime che come autori. Le statistiche mostrano un quadro preoccupante: nel 2023, il 76% delle vittime di violenza sessuale era costituito da giovani sotto i 34 anni, con un picco particolarmente significativo nella fascia d’età 14-17. Un dato che riflette una preoccupante normalizzazione della violenza all’interno delle relazioni giovanili. Gli adolescenti, infatti, sono spesso esposti a modelli relazionali distorti, in cui il controllo e la prevaricazione sono considerati comportamenti accettabili o addirittura desiderabili. La violenza di genere si manifesta in molte forme: dagli abusi psicologici alle violenze fisiche, passando per il controllo coercitivo e la manipolazione emotiva. Spesso, queste forme di abuso non vengono immediatamente riconosciute come reati, ma sono prodromiche a episodi di violenza conclamata.

Il caso della violenza sessuale di gruppo è particolarmente allarmante: nel 2023 Il 73% delle vittime aveva meno di 34 anni, e questo dato evidenzia come i giovani siano non solo vittime di questa pratica, ma anche attori di una dinamica di potere che trova nella violenza un mezzo per consolidare il legame tra i membri del gruppo. Questo tipo di violenza è spesso legato a un desiderio di affermazione all’interno del branco, e viene visto dai giovani come un modo per dimostrare la propria forza e il proprio controllo sulle donne.

Quello della violenza di genere – commenta Nicolì – è un dato che ci preoccupa particolarmente perché abbiamo rilevato proprio nel monitoraggio dei social un abbassamento sensibile della consapevolezza del rispetto tra i generi sia da parte dei maschi nel considerare le donne, ma anche da parte di molte ragazze che si prestano a quelli che loro definiscono “giochi”, ma che invece sono tutt’altro: violenza».

Reati spia e modelli comportamentali devianti
I reati spia, come definiti dal Servizio analisi criminale, includono atti persecutori, maltrattamenti contro familiari, conviventi e violenze sessuali e rappresentano un importante indicatore della diffusione della violenza di genere tra i giovani. Nel 2023, il 34% delle vittime di stalking apparteneva alla fascia d’età tra 0 e 34 anni, con un’incidenza particolarmente alta tra i giovani adulti. Questo dato rivela come i ragazzi non siano solo vittime, ma anche autori di questi comportamenti abusivi, spesso perpetrati all’interno di relazioni sentimentali o familiari.

La normalizzazione della violenza è particolarmente evidente nei casi di maltrattamenti contro familiari e conviventi. Nel 2023, il 25% dei presunti autori di questi reati aveva tra i 14 e i 34 anni. Un dato particolarmente allarmante, poiché indica che si stanno sviluppando modelli relazionali distorti, in cui controllo e violenza diventano elementi centrali delle dinamiche familiari. Questi comportamenti non emergono solo in contesti disagiati, ma anche in famiglie apparentemente normali e ben integrate.

Lo studio del Sac evidenzia inoltre come la diffusione di questi reati sia legata a una crescente mancanza di consapevolezza dei ragazzi riguardo al rispetto tra i generi. In molti casi, i giovani autori di violenze di genere non percepiscono la gravità delle loro azioni, spesso minimizzando gli abusi o giustificandoli come comportamenti accettabili all’interno della relazione.

Le strategie di contrasto: monitoraggio e prevenzione
È dai primi anni 2000 che la Polizia di Stato, e in particolare lo Sco, produce numerosi report delle attività investigative sui gruppi criminali giovanili; il dopo Covid, anche grazie all’uso elevato dei social network, ha esaltato la visibilità che, rispetto al passato, è un elemento di novità, con ragazzi che, a caccia di like e consensi, postano sulla Rete filmati e foto delle loro “malefatte”. «Un tempo – conclude Vincenzo Nicolì – questi gruppi criminali giovanili si rendevano visibili nel momento dell’azione e però poi scomparivano dai radar della pubblicità. Adesso, invece, spesso ne danno ampia diffusione sul Web, ingenerando anche il fenomeno dell’emulazione. Ci stiamo muovendo su tre direttrici principali. La prima è quella di conoscenza del fenomeno e dell’aggiornamento costante su quello che succede, monitorando i social, parlando con le comunità che accolgono i minori, facendo interventi di prevenzione sulle strade. Poi c’è un secondo livello, che è quello di una effettuazione periodica di attività ad alto impatto investigativo, come quella compiuta nei mesi scorsi a livello nazionale, che va a colpire le situazioni più eclatanti. A fianco a questo c’è un’attività molto più riservata, che è fatta di indagini dirette dalle varie procure della Repubblica che mirano ad approfondire le situazioni più problematiche o i reati più gravi commessi da questi gruppi criminali».

Come per altri fenomeni criminali, la chiave principale per arginare la violenza giovanile è costituita dalla prevenzione: educare i giovani al rispetto tra i generi e alla risoluzione non violenta dei conflitti, fornendo loro gli strumenti necessari per affrontare le sfide della vita quotidiana senza ricorrere alla violenza.

La violenza giovanile è una sfida complessa e multiforme, che richiede un approccio integrato e coordinato tra le diverse istituzioni: educazione, prevenzione e sensibilizzazione sono le armi più potenti per costruire un futuro in cui il rispetto, la non violenza e la legalità siano al centro della vita sociale dei giovani.

09/10/2024