Cristiano Morabito
Modello vincente
Da Pizza connection a New tower: oltre 40 anni di collaborazione tra Polizia di Stato e Fbi, cementata nel 2005 dal protocollo “Panthenon”
Tra gli ultimi vent’anni dell’800 e i primi quindici del secolo successivo furono oltre 9 milioni (secondo stime non ufficiali) gli italiani che tentarono l’avventura verso il Nuovo Mondo. Un viaggio estenuante di circa un mese, in condizioni igieniche e di sicurezza estreme durante il quale si stima che circa il 20% dei migranti non ce l’abbia fatta a raggiungere la “terra promessa” a stelle e strisce… un’immagine che ci riporta drammaticamente anche ai giorni nostri… Una moltitudine di persone che dal piroscafo, una volta arrivati nella baia di New York, poteva vedere solo da lontano la Statua della libertà, perché costretti a sbarcare prima a Ellis Island, un isolotto di poco meno di un ettaro all’interno della baia, dove venivano sottoposti a umilianti visite mediche alla ricerca di una qualsiasi infezione, batterio o parassita che potesse precludergli l’ingresso immediato negli Usa; una volta passata la visita era il momento del rilascio dei documenti e qui, poliziotti americani che parlavano solo la loro lingua, riportavano i cognomi e i nomi sulle carte d’identità spesso sbagliandoli: un errore che poi sarebbe rimasto per sempre. E poi, finalmente, l’agognato ingresso negli Stati Uniti, con al seguito una valigia di cartone e, raramente, qualche soldo in tasca per sopravvivere pochi giorni, in attesa di trovare il primo lavoro che, spesso, era quello di operaio addetto alla costruzione dei ponti e dei grattacieli della Grande Mela. Tantissimi quelli che non hanno avuto fortuna e che sono rientrati in madrepatria, ma altrettanti quelli rimasti e che con alterne fortune si sono stabiliti negli Stati Uniti, divenendone con il tempo cittadini a tutti gli effetti. Tanti i lavori umili svolti dai migranti italiani, che hanno esportato negli States anche molto del know-how del nostro Paese, dalla ristorazione all’imprenditoria fino ad arrivare anche a fondare, con Amedeo Giannini, quella Bank of America destinata a diventare l’istituto di credito più importante degli Usa. Ma alcuni degli italiani, in maggioranza provenienti dal Sud, esportarono anche un altro know-how molto particolare e al quale gli americani non erano avvezzi, ossia la criminalità organizzata e il metodo mafioso. Così come nel nostro Paese, pian piano la “piovra” allungò sempre di più i suoi tentacoli, trovando terreno vergine e fertile e, soprattutto, un popolo che fino ad allora non aveva mai potuto toccare con mano questo fenomeno tipicamente italiano. E proprio italiani sono i cognomi dei boss che “hanno fatto la storia” della mafia a stelle e strisce, su tutti “Scarface” Al Capone, Lucky Luciano e, da ultimo, John Gotti, arrestato nel 1990. La mafia americana nei decenni è cambiata, si è evoluta, infiltrata, è mutata, ha cambiato pelle da semplice organizzazione criminale con le varie famiglie che tentavano di conquistare il potere attraverso faide e omicidi, a mafia “moderna” il cui scopo è solo quello di mettere a punto “o’ businèss”, per dirla con l’accento di “Broccolino” (Brooklyn, ndr).
Ovviamente procuratori e forze dell’ordine Usa non avevano le giuste armi per poter contrastare un fenomeno a loro sconosciuto, allora perché non andare alla “fonte”? Perché non combattere la mafia con le armi di chi lo fa da tempo e ne conosce a menadito usi, costumi, movimenti, traffici e psicologia?
La collaborazione tra la Polizia di Stato e le agenzie americane, principalmente il Federal bureau of investigation, ha radici profonde e nasce alla fine degli Anni ’70, grazie all’intuizione del capo della Squadra mobile di Palermo, Boris Giuliano, che iniziò la collaborazione con agenzie come la Dea (Drug enforcement administration) e appunto l’Fbi; un connubio che porterà alla prima grande operazione antimafia sull’asse Italia-Usa: Pizza connection che, tra il 1979 e il 1984, accertò per la prima volta l’esistenza di un imponente traffico di stupefacenti tra Italia e Stati Uniti messo in atto dai due boss Leonardo Greco e Gaetano Badalamenti. E proprio al termine di “Pizza connection”, l’evento che cambiò per sempre la storia della lotta alla mafia: il 15 luglio del 1984 l’allora capo del Nucleo centrale anticrimine, Gianni De Gennaro, con la sua squadra riportò in Italia dal Brasile dove si nascondeva, il boss dei due mondi, quel “don Masino” Buscetta che, grazie alla collaborazione con Giovanni Falcone, scoperchiò il vaso di Pandora di Cosa nostra, aprendo le porte a scenari investigativi fino a poco prima impensabili.
Da allora le operazioni portate a termine grazie alla collaborazione tra Polizia di Stato e Fbi si sono moltiplicate: Iron tower (1988), Onig (1994), Old bridge (2008), Paesan blues (2010), New bridge (2012), Underboss (2013), Columbus (2014), solo per citare le più importanti, fino ad arrivare a New tower del novembre scorso.
Dunque, una collaborazione, quella tra polizia e Fbi, che fattivamente dura da più di quarant’anni come “accordo di mutua assistenza in materia penale” tra i governi di Italia e Usa, ma che è stata “sancita” effettivamente solo nel 2005, grazie al protocollo “Pantheon”. Un accordo, quello firmato da entrambe le Istituzioni, nato dalla preoccupazione per la minaccia che le attività criminali transnazionali costituivano per i due Stati e per rafforzare la cooperazione nella lotta alle mafie, sviluppando e incrementando i rapporti di collaborazione per rafforzare la presenza su entrambi i territori, attraverso iniziative congiunte messe in opera da personale operativo proveniente dalle due parti in causa, che prevedono innanzitutto la presenza sul territorio italiano e su quello statunitense di agenti speciali del Federal bureau of investigation e di poliziotti provenienti dal Servizio centrale operativo. Un vero e proprio “interscambio” di esperti della materia che, dal 2005, ha permesso di assicurare alla giustizia numerosi criminali e di disarticolare molti sodalizi criminali in Italia e oltre oceano.
Ma come far “parlare la stessa lingua” a due istituzioni che fondano il proprio modo di svolgere le indagini su pilastri completamente diversi? Esempio principale è costituito dal sistema giuridico completamente differente tra i due Paesi: in Italia il titolare delle indagini è l’autorità giudiziaria, che delega la polizia giudiziaria a svolgerle, mentre negli Stati Uniti le Agenzie investigative, come Fbi o Dea, di solito avviano un iter investigativo di propria iniziativa e solo al termine delle indagini riferiscono al procuratore distrettuale. E questa è solo una delle tante differenze, molte delle quali affondano invece le radici in due culture completamente diverse e spesso particolarmente lontane. Di questo rapporto, unico nel suo genere, e della spinta che ha dato il protocollo “Pantheon”, ne abbiamo voluto capire di più insieme al direttore del Servizio centrale operativo, Vincenzo Nicolì, e a Marco Garofalo, capo della prima Divisione dello Sco: «Ci interfacciamo – esordisce il direttore dello Sco – con Unità specifiche del Bureau che seguono le indagini sulle mafie. La conoscenza reciproca dei diversi sistemi processuali e penali vigenti nei due Paesi permette a investigatori e procuratori di scambiarsi dati e informazioni, seguendo il regime di collaborazione previsto dal protocollo Pantheon, che possano essere utilizzati proficuamente anche nel sistema processuale-penale dell’altro Paese. Ad esempio, nel sistema americano le intercettazioni sono concesse in base a presupposti in parte diversi da quelli necessari nel nostro Paese. Per questo, nelle indagini svolte in collaborazione con l’Fbi, tendiamo a evidenziare anche quegli elementi, ove presenti ovviamente, necessari per la prosecuzione delle indagini nel loro Paese. E loro fanno lo stesso con noi».
«Dunque, uno scambio di esperienze e best practice continuo – continua Nicolì – che ci permette non solo di aggiornare le tecniche investigative utilizzate ma anche di organizzare corsi di formazione specifici, come quelli sull’attività sotto copertura e sulle tecniche di pedinamento».
«La chiave di tutto – prosegue Garofalo – è nei rapporti one to one che negli anni si sono instaurati tra gli investigatori nostri e quelli dell’Fbi e che vanno al di là di un qualsiasi protocollo o accordo tra le parti. Questa cooperazione operativa “uno a uno” nelle indagini internazionali, soprattutto in quelle antimafia, è molto preziosa; perché la conoscenza diretta tra investigatori, tra persone, aiuta e si è dimostrata un modello vincente: questa consuetudine a conoscere le rispettive problematiche e il rispettivo modo di lavorare, è uno degli elementi di forza che nasce anche dall’uso del protocollo Pantheon».
Prima del protocollo siglato nel 2005, le indagini erano focalizzate soprattutto sull’attività principalmente redditizia per le cosche, ossia il narcotraffico, e sulle relazioni tra Cosa nostra americana e Cosa nostra italiana e in parte anche sulla ’Ndrangheta calabrese: l’eroina veniva raffinata in Sicilia e poi inviata negli Stati Uniti, da dove poi il denaro frutto della vendita di stupefacenti veniva riciclato in parte negli Usa, soprattutto nella zona di New York, mentre un’altra parte tornava in Sicilia. «Da un certo momento in avanti – riprende Garofalo – la tematica delle indagini è un po’ cambiata perché si è creato un radicamento negli Usa: chi operava lì ha maturato una certa autonomia, pur mantenendo in piedi i rapporti familiari di sangue con la “casa madre”».
Dunque, un rapporto sempre più stretto negli anni ha legato la polizia italiana, e lo Sco in particolare, con i colleghi d’oltreoceano dell’Fbi: «Uno dei fattori più importanti di cui bisogna dare merito strategico agli Stati Uniti – continua Marco Garofalo – è stato quello di cogliere, più di quarant’anni fa, grazie ai rapporti soprattutto tra Giovanni Falcone e l’ex sindaco di New York Rudolph Giuliani, all’epoca procuratore distrettuale, la gravità e l’immanenza del pericolo che deriva dagli affari mafiosi. Gli Usa, culturalmente, sono un Paese molto pragmatico; se continuano ancora oggi a prediligere questo rapporto e continuano a indagare (a New York è di stanza un gruppo operativo Fbi che si occupa esclusivamente della mafia siciliana e italiana, ndr), vuol dire che strategicamente loro credono ancora all’importanza di questo rapporto con noi. Gli americani mantengono un interesse strategico sul contrasto alla criminalità mafiosa e sono particolarmente sensibili sull’argomento, molto disponibili e al contempo flessibili; pur essendo entrambi ben coscienti delle diverse modalità operative, dei diversi sistemi giuridici loro sono certamente i più disponibili ad adattarsi: ascoltano molto quello che gli diciamo e una volta instaurato il rapporto di fiducia sono poi molto aperti, non hanno ritrosie a scambiare e a parlare. In parole povere, a fidarsi».
Uno scambio, quindi, reciproco e continuo di informazioni, ma anche di metodologie investigative tra due Paesi fondamentalmente diversi, ma che in questo contesto sanno parlare la lingua comune dei poliziotti: «Penso che da noi abbiano imparato la velocità di esecuzione, ma soprattutto la capacità di fare collegamenti mettendo in relazione nomi, contesti, indagini vecchie con quelle nuove: una prerogativa che è tipica dell’investigatore antimafia italiano. La nostra mentalità investigativa, soprattutto nell’antimafia, ci porta in indagini di lungo periodo a essere molto puntuali, meticolosi, attenti ai dettagli e ai riscontri, perché ci vengono ovviamente richiesti dall’autorità giudiziaria; è una nostra caratteristica che i colleghi dell’Fbi apprezzano particolarmente».
Un know-how, quello italiano, sviluppato potendo contare sulla conoscenza della “materia prima mafiosa” sotto mano, particolarmente prezioso oltreoceano, così come ci conferma Eugenio Masino, vice questore della 1^ Divisione: «La curiosità è il principale “ferro” nella cassetta degli attrezzi dell’investigatore. Gli americani apprezzano molto la nostra capacità analitica che è figlia di una curiosità investigativa che ci ha portati anche a ricostruire genealogie familiari mafiose fino al 1800 a ricostruire. È proprio “l’animus dello sbirro” che ci fa andare avanti per arricchire la “cornice”». «Oltre alla curiosità – gli fa eco Giampiero Muroni, commissario della 1^ Divisione, che da quasi 30 anni investiga sulla ’Ndrangheta – c’è una metodologia ormai consolidata, fatta di attenzioni nel catalogare le informazioni: la curiosità viene alimentata anche da spunti investigativi e gli spunti vengono quando si sanno raccogliere con precisione le informazioni».
Un modo di investigare che, i colleghi dell’Fbi, hanno potuto toccare con mano partecipando a operazioni sul territorio italiano: «Per loro vedere i territori su cui poi operiamo, percepire, annusare la mafiosità del contesto sociale di riferimento, è sicuramente un motivo di arricchimento: una cosa è discuterne in una call o via mail, altro è andare, come accaduto di recente, in paesini di 700 anime come Rocca di Neto (in provincia di Crotone) e rendersi conto concretamente di quali siano i territori a densità e vocazione mafiosa».
È un lavoro continuo, costante, fatto di metodologie, di “sbirri”, ma soprattutto di uomini e donne la cui mente, anche quando finisce l’orario di servizio, continua a lavorare, a cercare spunti e a trovare soluzioni; un lavoro affidato a persone che, per ragioni di età, prima o poi dovranno chiudere la propria esperienza, ma senza il rischio che le conoscenze vadano perdute. Come ci spiegano, lo Sco sa guardare avanti, affiancando periodicamente agli investigatori più esperti, giovani che aspirano a diventarlo. Caratteristica fondamentale del Dna dello Sco è da sempre quella di replicare le conoscenze e di trasferirle alle nuove leve: materiale umano da plasmare. E anche questo ha concorso a rendere il Servizio centrale operativo un’eccellenza investigativa a livello internazionale.