Mimmo Famularo*
Il modello Vibo
Un vero esempio dopo i risultati ottenuti sul fronte della lotta alla ‘Ndrangheta grazie all’azione sinergica delle istituzioni
Vibo Valentia è la più piccola delle province della Calabria. Geograficamente è incastonata in un punto strategico del Mezzogiorno d’Italia dove si concentrano in pochi chilometri le bellezze di Tropea, la perla del Tirreno con i suoi tramonti mozzafiato; quelle di Pizzo con le sue vaste spiagge e il suo castello intitolato al cognato di Napoleone Bonaparte, Gioacchino Murat; quelle di Serra San Bruno con la sua storia millenaria e il monastero della Certosa luogo di misteri e leggende. Il litorale tirrenico vibonese, situato nel cuore del golfo di Sant’Eufemia, è conosciuto come la “Costa degli Dei” e, in effetti, la provincia di Vibo Valentia è per davvero un paradiso terrestre abitato, tuttavia, anche da diavoli. Non solo mare e spiagge da godere. L’altra faccia della stessa medaglia presenta l’immagine più brutta di una provincia altrimenti solo bellissima. Vibo è, infatti, l’epicentro della famigerata operazione “Rinascita Scott” sfociata nel più grande maxi processo alla ‘Ndrangheta. Non a caso, in ognuno dei cinquanta paesi che costituiscono la provincia c’è almeno una ‘Ndrina. Storicamente la “famiglia” più potente, egemone in tutto il territorio, è quella dei Mancuso con base a Limbadi e Nicotera, i due feudi principali della cosca delle cosche. Nel 1983 il capobastone Francesco Mancuso, conosciuto come “Don Ciccio”, risultò addirittura da latitante durante la campagna elettorale, primo degli eletti nel consiglio comunale di Limbadi. Ancora non esisteva la legge contro le infiltrazioni mafiose negli enti locali e l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini intervenne in prima persona e lo sciolse per motivi di ordine pubblico ad appena una settimana dalle elezioni amministrative. Il primo processo che ha riconosciuto la cosca Mancuso, ricostruendo la struttura di ‘ndrangheta con particolare riguardo alle responsabilità e ai ruoli della Locale di Limbadi, fu quello nato dalla maxi operazione “Dinasty” messa a segno dalla Squadra mobile di Vibo Valentia all’alba del terzo millennio. Non bastò a fermare l’ascesa della ‘Ndrangheta vibonese capace di assumere un ruolo di primo piano nei traffici internazionali della droga e da qui di ricavare la potenza economica per infiltrarsi nel tessuto produttivo locale prima e in quello istituzionale dopo. Ma negli ultimi anni, con un vero e proprio accerchiamento, l’azione sinergica dello Stato sta espugnando il territorio alla forza prevaricatrice della criminalità organizzata. La questura di Vibo Valentia sta recitando un ruolo fondamentale nella strategia, coordinata dalla Direzione distrettuale antimafia di Catanzaro diretta fino allo scorso mese di ottobre da Nicola Gratteri, per liberare i vibonesi dal cappio dei clan. Il questore Cristiano Tatarelli spiega il concetto di accerchiamento dello Stato alla ‘Ndrangheta. «Stiamo portando avanti un progetto che potrebbe diventare un modello d’azione nel contrasto alla criminalità organizzata, ovvero intaccare il consenso di cui gode la ‘Ndrangheta in tutte le sue forme. È un accerchiamento – spiega il questore di Vibo - perché, oltre all’attività investigativa classica con le indagini,