Cristiano Morabito

Una e una sola

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Immutabile nel tempo e resta con noi per tutta la vita: l’impronta digitale può svelare chi siamo, chi siamo stati e cosa abbiamo fatto

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Ci avevate mai pensato che possediamo dalla nascita, anzi anche un po’ prima, la nostra carta d’identità? No? Eppure ce l’abbiamo da sempre lì, “tra le mani” e ci accompagna per tutta la vita e, nella maggior parte dei casi anche oltre. È una (anzi dieci) immutabile, sempre con noi e non rischiamo di perderla mai… o quasi. Possiamo lavarla quanto vogliamo, maltrattarla in ogni modo, cercare di eliminarla, ma lei è sempre lì, costante e immutabile nel tempo. 

Forse, nell’ultimo decennio, ne abbiamo preso maggior consapevolezza, in quanto la utilizziamo quotidianamente per accedere a decine di servizi, ma magari non le abbiamo mai dato tanto peso e importanza quando la usiamo per sbloccare il nostro cellulare, o per accedere a un determinato servizio web appoggiandola su un lettore, o ancora quando la forniamo per rinnovare un passaporto scaduto e, i più “vecchi”, quando ai tre giorni della visita militare si sono visti passare dell’inchiostro nero sulle mani per poi appoggiarle su un foglio di carta.

Ebbene, l’impronta digitale dice tutto di noi, anzi, di una sola persona perché, sembrerà strano ma a pensarci bene è un vero e proprio miracolo di madre natura, poco più di 8 miliardi di persone sul pianeta terra sono in possesso di altrettante impronte digitali tutte uniche e irripetibili; provate a moltiplicare questo numero per quello delle vostre dita e si arriva a oltre 80.000.000.000 tutte diverse tra loro, senza contare quelle delle persone che ci hanno preceduti e di quelle che dovranno venire al mondo.

Le mani sono da sempre state un oggetto di studio dal punto di vista funzionale per l’essere umano, degli “accessori” perfetti capaci di migliaia di azioni, ma anche in grado, secondo alcuni, di rivelare la personalità o di predire il futuro; già all’alba del primo millennio in Cina, durante la dinastia Song, si studiavano i diversi tipi di “dermatoglifi” (ossia i “disegni” dei polpastrelli) e venivano individuate le prime caratteristiche (alcune delle quali ancora oggi utilizzate) come anse, vortici e archi, attraverso le quali si pensava di predire il futuro di una persona, se destinata a una grande fortuna o alla povertà, o addirittura ad arrivare a prevedere per lui l’apertura di un banco dei pegni. 

Dunque, l’impronta digitale ha sviluppato la fantasia di molti nel passato ma, facendo un salto di più di mille anni, fu un italiano, Salvatore Ottolenghi, il padre della moderna investigazione scientifica, a capire che l’impronta digitale, attraverso la classificazione dattiloscopica, fosse l’unico metodo che potesse dare come risposta l’identità certa di una persona. Fino ad allora i metodi di identificazione erano stati tutti di natura pseudoscientifica e anche di estrazione lombrosiana, quindi fondata sul riconoscimento dei tratti somatici. Fu così che ai primi del ’900, e per la precisione nel 1903, proprio Ottolenghi diede l’incarico a un giovane funzionario, Giovanni Gasti, di studiare e trovare una classificazione che fosse semplice, pratica ma allo stesso tempo sicura, quella “Classificazione Gasti”, basata sul tipo di figura presente nei polpastrelli unita alle rilevazioni antropometriche (il fotosegnalamento).

Oggi, dopo esattamente 120 anni, la metodologia è ancora quella di allora e, grazie all’evoluzione tecnologica, la classificazione Gasti è stata integrata, e se vogliamo migliorata, grazie a strumenti capaci di trovare impronte latenti dove nessuno mai avrebbe pensato potessero essere e a incrociare i dati provenienti dai database di mezzo mondo per individuare autori di reati o dare un’identità a corpi di sconosciuti.

Abbiamo passato un giorno insieme a questi investigatori che attuano quella che è una vera e propria arte mettendola al servizio delle forze di polizia; hanno sedi sparse su tutto il territorio nazionale, ma il cuore pulsante che coordina un lavoro dalle proporzioni non immaginabili, si trova a Roma, nella sede del Polo Tuscolano, incardinato nel Servizio polizia scientifica dove il primo dirigente Sabrina Castelluzzo ne dirige la II Divisione, dedicata interamente alle indagini dattiloscopiche e, a sua volta, divisa in quattro Sezioni: identità preventiva, identità giudiziaria, Afis e evidenziazione impronte latenti.

Dimentichiamoci quelle immagini con interi stanzoni pieni di scaffali al cui interno c’erano dei casellari pieni di quelli che, ancora oggi, si chiamano “cartellini segnaletici”, con decine di tavoli ai quali erano seduti poliziotti in camice bianco chini a raffrontare a occhio nudo, armati del solo lentino, le impronti digitali alla ricerca di una corrispondenza. Oggi è tutto molto diverso, ci sono visori computerizzati, banche dati nelle quali vengono inseriti i cartellini fotosegnaletici, “motori di ricerca” in grado di dare come risultato le possibili corrispondenze, macchinari capaci di far uscire dal nulla una porzione di impronta digitale lasciata su un oggetto, ma alla fine è sempre l’occhio umano a dare il responso finale: «La professionalità e l’acume investigativo di figure quali il dattiloscopista e il videofotosegnalatore risultano ancora oggi fondamentali – ci spiega Sabrina Castelluzzo – La difficoltà principale non è solo quella di leggere un’impronta, ma anche di riuscirla a prendere correttamente. Il dito, che sia con l’inchiostro o su uno scanner, va fatto ruotare perché un’impronta “piana” non mostra tutte le caratteristiche e, nel caso in cui ne venisse lasciata una porzione laterale sulla scena del delitto, non si potrebbe attribuire a nessuno, proprio perché mancherebbero dei particolari».

Un mestiere, dunque, molto delicato e, soprattutto, di grande responsabilità quello del dattiloscopista «perché con un’impronta si identifica una persona sospettata di aver commesso un reato e che può anche perdere la propria libertà – commenta la dirigente – Tutto questo deve essere supportato da una grande competenza perché poi l’accusa va sostenuta in giudizio e quindi è soggetta al controesame della difesa dell’imputato».

Il cartellino fotosegnaletico e l’Afis
Alla base di tutto il sistema c’è la necessità che un dato soggetto sia stato fotosegnalato e che venga compilato il cosiddetto “cartellino fotosegnaletico”. Le ragioni per cui qualcuno sia stato fotosegnalato sono molteplici, dal doverne accertare l’identità perché fermato e sprovvisto di documenti o perché arrestato per aver commesso un reato, alla necessità di dare un’identità a una persona che, per un qualsiasi motivo, non sia in quel momento in grado di fornirla, fino a chi varca i confini nazionali illegalmente o richiede asilo o semplicemente debba richiedere o rinnovare un permesso di soggiorno. Tutti motivi per cui, allo stato attuale, nel nostro Paese sono stati redatti oltre 20milioni di cartellini, con il classico metodo dell’inchiostro oppure attraverso uno scanner, riferiti a più di 11milioni di persone, questo perché può capitare che un soggetto venga fotosegnalato più volte.

Una volta effettuata la procedura, che consiste, dopo aver scattato in contemporanea una fotografia del soggetto frontalmente e sul lato destro (anche l’orecchio destro ha delle caratteristiche genetiche diverse da persona a persona), nel prendere le impronte di tutte le dita e anche dei palmi delle mani (utili all’identificazione e anche nel distinguere a quale delle due mani appartengano le dita sul cartellino) e di inserirle nella banca dati del sistema Afis (Automated fingerprint identification system). Quest’ultimo è un vero e proprio “motore di ricerca” nel quale vengono inseriti tutti i cartellini fotosegnaletici, i cui server sono collocati nel piano inferiore della struttura del Tuscolano, in una stanza isolata dal resto e totalmente autosufficiente, nella cui “control room” su un maxischermo sono evidenziati tutti i server delle strutture periferiche: «Qui gli operatori vengono contattati per problematiche del territorio. Questo è il primo livello di intervento: se c’è una postazione di segnalamento o un server di un gabinetto regionale di polizia che non funziona noi siamo pronti a entrare in azione – ci spiega il direttore tecnico capo Francesco Pino – La banca dati Afis è alimentata da tutte e tre le forze di polizia, oltre che da tutte le cooperazioni nazionali e internazionali, più Eurodac cui siamo connessi direttamente perché siamo punto di accesso nazionale e abbiamo il cosiddetto Spoc (Single point of control)».

L’impronta che non si vede
Ovviamente, affinché possa esserci un confronto con le impronte sul cartellino segnaletico, è necessario che, ad esempio sulla scena di un reato, venga rilevata dai sopralluoghisti un’altra impronta per procedere alla ricerca del cosiddetto “match”. Ma se l’impronta non fosse ben visibile, o addirittura totalmente occultata o ce ne fosse solamente una porzione o, ancora, fosse stata lasciata su un oggetto che non ne permetta il classico rilevamento “sul campo” da parte degli operatori di polizia scientifica? Ecco che, in questo caso, scende in campo la Sezione impronte latenti” 

Qui vengono inviati quei reperti che gli operatori della Scientifica sulla scena del delitto ritengono possano essere stati toccati dai presunti autori di reato: un’intuizione che, più di una volta, ha portato alla risoluzione di casi che sembravano non avere un colpevole certo.

Innanzitutto, quando i reperti vengono inviati alla Sezione per effettuare le analisi di rito, devono essere divisi in due categorie: porosi, ossia in grado di assorbire particelle di sudore (carta, cartone e legno grezzo), e non porosi, che non assorbono il secreto, come i metalli, la plastica e il vetro. Se appartenenti a quest’ultima categoria, all’atto del rilevamento sulla scena del delitto andranno inseriti in una scatola e fissati al suo interno con una fascetta di plastica, proprio per evitare che lo sfregamento possa alterarli o che l’inserimento nella classica bustina di plastica (usata invece per i materiali porosi) attraverso le varie manipolazioni nel trasporto possa cancellare l’eventuale impronta presente. «All’interno del laboratorio innanzitutto documentiamo fotograficamente il plico – spiega Marco Fioretta, ispettore responsabile dell’area – Tutta questa catena di custodia del reperto viene memorizzata nel sistema Elabor. Ogni passo che fa un plico o un reperto viene cristallizzato, infatti a ogni cambio di custodia viene redatto un verbale».

Una volta conclusa questa prima fase, i laboratori della Sezione si mettono in azione e si inizia ad analizzare i reperti, alla ricerca delle impronte. Per esaltare, evidenziare le impronte sugli oggetti porosi viene utilizzato un reagente, la ninidrina (una soluzione preparata in laboratorio composta da acido acetico, acetato di etile, etanolo e Hfe); il reperto viene immerso in una bacinella con il reagente e poi, successivamente, viene messo ad asciugare sotto una cappa. Una volta asciutto, viene inserito in una camera climatica che serve ad accelerare la reazione della ninidrina. Nel caso di un reperto non poroso (ad esempio un coltello) viene utilizzato un altro macchinario: per gli oggetti lisci e levigati viene usato un altro reagente, il cianatilato (praticamente il principio della colla Attak) che, una volta evaporato, attraverso una reazione chimica si fissa sulle componenti grasse dell’esudato, i lipidi, e dà vita a un’impronta di colore bianco. 

Nel caso in cui, invece, l’impronta da evidenziare fosse stata lasciata su un oggetto di forma cilindrica, come un bossolo o una cartuccia, allora entra in azione il Recover, uno strumento di ultima generazione e ancora in fase di sperimentazione, che usa come principio quello della corrosione provocata dal sudore, la cui componente acida corrode il metallo. 

Dopo aver evidenziato le impronte all’acquisizione fotografica con il sistema DCS5, una specie di Photoshop particolarmente evoluto che, oltre ad acquisire e rendere il più nitida possibile l’immagine dell’impronta papillare, registra e valida in automatico ogni passaggio, seguendo la normativa ISO17025, è pronto il  cartellino fotosegnaletico per essere analizzato dalla sezione giudiziaria che ne cercherà le corrispondenze con quelli presenti in banca dati Afis.

Mani, piedi e minutiae
Il laboratorio di identità giudiziaria si occupa dell’analisi dei frammenti per tentare di stabilire se sono utilizzabili per un confronto. Una volta stabilita l’utilizzabilità, si passa al confronto per arrivare a identificare la persona che può aver lasciato un’impronta, o una parte di essa, che può essere digitale, palmare o anche plantare; infatti, l’impronta del piede nudo può essere messa a confronto e ha la stessa validità identificativa, avendo le stesse proprietà di quelle digitali.

«La ricerca delle caratteristiche delle impronte – ci illustra Francesco Greco, direttore tecnico capo responsabile della Sezione identità giudiziaria – è un’attività che nella fase di analisi già mostra la presenza di caratteri generali e caratteri particolari. Nel caso delle impronte digitali i caratteri generali sono legati alla morfologia dell’impronta digitale, cioè alla possibilità che tutte le nostre impronte digitali siano riconducibili a un numero molto ristretto di categorie predeterminate. E questa proprietà ci consente di poter classificare le impronte in base a quattro categorie: adelta, bidelta, monodelta e composita. In questo modo – prosegue Greco – posso dire che se trovo una traccia di tipo bidelta e il sospettato di quel delitto ha solo adelta è impossibile che sia stato lui l’autore del reato e lo posso già escludere; se però ha una bidelta devo andare a rilevare le “minutiae” e devo controllare che ne abbia un certo numero e che siano disposte nella medesima sequenza».

Quando si osserva l’impronta di un polpastrello, lungo il percorso lineare di una cresta, è possibile individuare alcune accidentalità con interruzioni, biforcazioni, punti, occhielli, isolotti, ganci, ecc…; sono caratteristiche particolari, che possono anche combinarsi tra loro e che rendono uniche e irripetibili le impronte digitali di ognuno di noi e prendono proprio il nome di “minutiae”, sulle quali si basa tutto l’apparato dell’identificazione dattiloscopica, i cui principi fondamentali sono individualità, immutabilità e classificabilità delle impronte digitali:

  • individualità, perché hanno caratteristiche che sono uniche e univoche per ogni individuo;
  • immutabilità, perché restano inalterate nel corso dell’intera vita di una persona, dal terzo mese di vita intrauterina in cui si vengono a formare queste creste papillari nel bambino che gratta nell’utero materno, fino alla morte. Un’immutabilità che, ovviamente, può essere modificata da cicatrici molto profonde che attraversano tutti gli strati dell’epidermide, ma che a loro volta diventano segni distintivi dell’impronta;
  • classificabilità: è il principio più importante legato a quello della morfologia generale e consente di creare degli archivi dattiloscopici perché appunto è possibile ricondurre tutte queste impronte così diverse in realtà a poche categorie. 

Qui entra in gioco la fondamentale figura del dattiloscopista armato di mouse che, su uno schermo retroilluminato, è chiamato a confrontare l’impronta rilevata con quelle suggerite dall’Afis e scartare quelle non corrispondenti, alla ricerca del “match” cercando di individuare a occhio nudo le “minutiae rivelatrici” da segnare; se vengono trovate almeno 16 corrispondenze tra le due impronte, allora, secondo il nostro ordinamento giudiziario (uno dei più rigorosi in assoluto in materia) si può confermare l’identità e avremo scovato il colpevole. Un lavoro di precisione e responsabilità, come detto all’inizio, che non può essere fatto, come si potrebbe facilmente immaginare, sovrapponendo le due impronte tipo come si fa quando si ricalca un disegno con la carta velina, ma facendo un accertamento “fianco a fianco”. Questo perché la geometria del dito innanzitutto non è una geometria piana ma curva e poi si tratta di una superficie elastica quindi, nel momento in cui viene appoggiato su una superficie (a maggior ragione se si parla di un frammento di impronta) su una scena del crimine, il dito può essere messo in vari modi, anche lateralmente o di sfuggita, e può creare delle discrepanze sui contorni. Un lavoro che, grazie all’evolversi della tecnologia sia nel rilevamento che nell’analisi, ha permesso di rintracciare colpevoli che, altrimenti, non sarebbero stati assicurati alla giustizia. E qui alla Scientifica ricordano un caso su tutti, quello di Salvatore Biondo, identificato come la persona che la notte in cui furono sistemati i bidoncini con la carica esplosiva nel tunnel sotto l’autostrada di Capaci fece luce con una torcia, i cui frammenti vennero trovati tra le macerie dell’esplosione; all’interno della torcia c’era ancora una batteria che fu portata alla Sezione impronte latenti che riuscì a trovare un’impronta, all’epoca non utilizzabile perché l’Afis nel 1992 ancora non era stato istituito. Anni dopo grazie alla tecnologia e alle immagini digitali si riuscì a dare un nome a quell’impronta; oggi Salvatore Biondo sta contando l’ergastolo con il regime del 41bis nel carcere milanese di Opera.

Ma si può cancellare o alterare le proprie impronte digitali? «L’aspetto davvero affascinante delle nostre impronte digitali – risponde Sabrina Castelluzzo – è che possiamo maltrattarle in qualsiasi modo, cercare di alterarle magari con della colla o provare a cancellarle bruciandoci i polpastrelli ma, a meno che il danno non arrivi oltre lo strato del derma (il che significherebbe letteralmente scarnificarsi un dito, ndr) o che non ci si amputi le mani, le nostre impronte papillari si rigenerano di continuo, fino a tornare allo stato originario, quello di quando siamo nati. Ricordo il caso di un cittadino canadese – conclude il dirigente della Seconda divisione – che arrivò in Italia con le impronte alterate e ottenne il permesso di soggiorno per svolgere il lavoro di badante; al momento del rinnovo, due anni dopo, pensando che l’avrebbe fatta franca come la prima volta, come da prassi venne sottoposto di nuovo al fotosegnalamento e risultò essere ricercato per l’omicidio della moglie nel suo Paese». ϖ

06/11/2023