Cristiano Morabito

Nuove e vecchie agromafie

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Coltivazioni, allevamenti, ma anche legname, foraggi, fertilizzanti e truffe con i contributi Ue: la mafia diversifica i suoi interessi e li espande esplorando nuovi business e territori

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“Follow the money”, ossia “Segui il denaro”: per primo fu Giovanni Falcone a capire che il metodo migliore per battere la mafia era quello di ricostruirne il business, per colpirla al cuore e sconfiggerla o, quantomeno, indebolirla. Un metodo ancor oggi più che attuale, soprattutto in un periodo storico in cui la criminalità organizzata ha capito quanto sia poco conveniente lo scontro frontale con lo Stato e più redditizio il restare silente, innestandosi nel sottobosco economico del Paese.

Così la mafia ha diversificato e cambiato i suoi interessi, che riconducono sempre e comunque ad un fine univoco: fare soldi e riciclare guadagni, che sia nell’alta finanza, nel traffico di stupefacenti, nell’aggiudicazione degli appalti o anche in settori che destano meno attenzioni dal punto di vista mediatico e da quello investigativo, cime quello dell’economia agricolo-pastorale.

La criminalità mafiosa nostrana affonda le proprie origini nel lavoro dei campi, una mafia rurale che non ha mai abbandonato questo carattere e che proprio nella campagna e nei pascoli ha trovato nuova linfa. Si inizia a parlare, ormai da qualche anno, di “agromafia”, un termine che racchiude tutte le attività di tipo mafioso che abbracciano l’intera filiera agroalimentare: produzione, trasformazione e vendita dei prodotti. Si pensi che nel 2019 le attività “agromafiose” hanno prodotto un utile di oltre 24 milioni di euro, un business più che redditizio, equivalente al 10% del Pil della criminalità organizzata, e che consiste anche nell’imposizione di prezzi, condizioni di vendita dei prodotti, controllo delle filiere di raccolta e conservazione, monopolio dei trasporti su gomma, stoccaggio delle merci, controllo dei braccianti e caporalato. Ma la mafia non agisce solamente in ambito agroalimentare, bensì anche nella “specializzazione” dell’usura, nelle macellazioni clandestine, nel furto di bestiame, nel saccheggio del patrimonio boschivo (il nostro Paese è tra i principali consumatori di legname d’Europa) e truffe all’Unione europea, grazie alle quali riesce ad aggiudicarsi fondi destinati spesso all’agricoltura e all’allevamento del bestiame, da girare ai propri “affari” e a danno di coltivatori e allevatori.

Un fenomeno che, come vedremo, ha travalicato i confini delle regioni a vocazione tipicamente rurale del Sud Italia, per approdare in territori del Settentrione, riuscendo ad insinuarsi in numerose aziende. Ne abbiamo parlato con Marco Garofalo, direttore della 1^ Divisione del Servizio centrale operativo, prendendo spunto dagli accadimenti culminati nel maggio del 2016 con l’attentato al presidente del Parco dei Nebrodi, Giuseppe Antoci, vittima, insieme a uomini della Polizia di Stato, di un odioso “mascariamento”, con una vicenda giudiziaria conclusasi recentemente restituendo dignità e credibilità a chi ne era stato colpito e che ha definitivamente acceso i riflettori sul fenomeno della cosiddetta “mafia dei pascoli”.

La “mafia dei pascoli”
«È solo un settore molto più ampio dell’agromafia e la denominazione di “mafia dei pascoli” è ovviamente convenzionale – spiega Marco Garofalo – perché abbraccia fenomenologie che si legano sia a un concetto di mafia rurale più tradizionale, connesso al controllo di un territorio su cui insistono allevamenti, capi di bestiame più o meno allo stato brado, produzione lattiero-casearia, sia ad un concetto di mafia più moderna legata al business economico che ne consegue. Quindi, c’è un indotto economico non indifferente che esula dalla sola gestione del territorio e dal controllo di quest’ultimo dove far pascolare il bestiame, che ha rappresentato negli anni addietro anche la motivazione di faide piuttosto violente, conclusesi a volte con scontri armati, con omicidi e vendette, prima di tutto in Sardegna e poi anche in altri territori, tra cui quello siciliano e calabrese; ma non sottovalutiamo anche la zona dell’agro del Gargano dove è presente una criminalità organizzata particolarmente arcaica nelle sue origini, ma anche decisamente feroce, legata spesso anche a fenomeni connessi al controllo del territorio rurale. Quindi in realtà quando parliamo di mafia dei pascoli dobbiamo trasportare questo concetto giustamente generico a un concetto tecnico-giuridico che attiene al controllo del territorio da parte della criminalità mafiosa. Soprattutto se il territorio è a scarsa densità abitativa e dove sono presenti attività connesse al bestiame, ossia allevamento e trasformazione del latte: tutte attività di natura economica. Questo per sottolineare che la mafia tendenzialmente, come dice anche l’articolo 416 bis, si concentra sulla gestione delle risorse economiche offerte dal territorio che lei controlla; e quella del controllo della territorialità per finalità di sfruttamento agro-pastorale è una finalità tradizionale che in molti territori è documentata da decine di indagini». 

Non solo mafia siciliana 
«È trasversale a tutte le organizzazioni mafiose operanti sul nostro territorio – prosegue Garofalo – perché tutte, comprese anche quelle che non hanno una connotazione mafiosa pura come il banditismo sardo, hanno come fondamento la necessità di controllare il territorio per accaparrarsi aree che possono produrre profitti ed è lo stesso meccanismo che attiva le guerre per le piazze di spaccio nelle periferie, laddove il controllo di una piazza determina un aumento o un decremento dell’introito. Dove c’è un territorio di natura diversa con le risorse che questo territorio possiede, allora possono scatenarsi. Potremmo parlare, per esempio, della cosiddetta “faida dei boschi” che negli anni si è protratta nell’agro e nelle zone montuose delle serre vibonesi, dove conglomerati mafiosi di varia natura si sono scontrati per il controllo della produzione e gestione del taglio del legname, anche questo un settore fortemente remunerativo. Non dimentichiamoci che l’Italia è tra i maggiori consumatori di legno in Europa. Oggi abbiamo una visione economico-finanziaria delle nostre mafie, almeno secondo l’attuale situazione investigativa, però non dobbiamo dimenticare che queste fenomenologie non solo sono radicate, tutt’altro che “di nicchia”, ma sono immanenti e remunerative perché, come spesso accade, dove c’è il profitto c’è anche l’interesse mafioso. Se questa ricerca del profitto, poi, si sposa con la tradizionale capacità di controllo di quei territori, il gioco è fatto. L’importante è che ci sia un guadagno, quel ritorno di economia sommersa illegale che costituisce uno dei fenomeni di maggior “appeal” mafioso sul territorio perché, attraverso il profitto, si riesce a “dare lavoro” sul territorio, ad alimentare un circuito di compiacenza e collusione per persone che, in certe zone economicamente depresse, non hanno molte altre alternative dal punto di vista lavorativo».

Fondi europei: la truffa fa gola
«Questo è l’aspetto “più moderno” e attuale dell’evoluzione mafiosa, poiché la criminalità organizzata è in grado di capire il modo con cui incrementare i propri profitti in modo esponenziale – continua il dirigente dello Sco – Ad esempio, per quanto riguarda il legname si possono ottenere finanziamenti per il suo smaltimento, lo stesso dicasi per le coltivazioni, per l’allevamento e in genere per tutto il settore agricolo, per cui l’Unione europea produce contributi, ma anche per le energie alternative. È un mondo sul quale l’Unione si focalizza per cercare di risollevare dal punto di vista strutturale le aree economiche considerate depresse, ma sono dei finanziamenti “a pioggia” che non sempre vengono canalizzati in modo corretto; e laddove c’è un percettore che in qualche modo fa parte di un sistema mafioso, allora è chiaro che tutto il sistema, attraverso false fatturazioni, false documentazioni, intestazioni fittizie e soggetti compiacenti, mette in moto un meccanismo di grande guadagno».

Giuseppe Antoci: un fastidio per Cosa Nostra
«Non c’è dubbio che il “protocollo Antoci” abbia applicato in maniera più attenta e dedicata a questo settore quella che era la prerogativa di tutte le attività di prevenzione in materia di antimafia e che venivano adottate precedentemente per altri settori economici e merceologici – prosegue Marco Garofalo – È stata fondamentale l’intuizione di capire che, al di là del tipo di attività svolta, quel che conta è come intervenire sul controllo, facendo sì che possa essere oggetto di monitoraggio non solo la grande azienda, ma anche la singola persona giuridica che in qualche modo accede a dei fondi agevolati. Da questo punto di vista il protocollo ha dato sicuramente una notevole spinta alla creazione di strumenti, che poi sono stati perfezionati nel nuovo Codice antimafia, con l’estensione a più ampio raggio dello strumento dell’informativa antimafia, consentendo di entrare all’interno di un sistema che era tradizionalmente incancrenito e che a livello di monitoraggio e di prevenzione non permetteva alle amministrazioni locali di gestire al meglio questo fenomeno; oggi sono tutti in condizione di poter alzare la barricata anche in settori che prima erano stati trascurati e, quindi, profondamente infiltrati come quello dell’agroalimentare».

Da Sud a Nord
«L’analisi economico-criminale da parte delle mafie segue quella dell’evoluzione di un prodotto e la sua trasformazione; nel nord Italia, dove esiste un sistema economico imperniato sull’allevamento e sui prodotti del bestiame quasi tutto in stalla, sostanzialmente non è possibile un controllo del territorio stringente che consenta alla criminalità organizzata di poter interferire – sottolinea Garofalo – Invece, sono stati colti segnali nell’interesse sulla vendita e rivendita di prodotti derivanti dalla produzione lattiero-casearia e agricola, così come sulla gestione del trasporto su gomma dei prodotti dal Sud verso il Nord. Tecnicamente in questo caso non si può parlare di agromafia vera e propria, ma di un indotto mafioso che vive e prolifera su un sistema che comanda la distribuzione. Senza dubbio al nord l’interesse mafioso è presente, ma emerge più a macchia di leopardo perché si tratta di un mercato ad elevata concorrenza, per cui le mafie intelligentemente non mettono in atto il metodo dell’aggressione frontale, bensì tendono ad infiltrarsi: si “professionalizzano”, così come accade ad esempio nel settore degli appalti».

L’interesse delle mafie straniere 
«Attualmente non c’è un interesse diretto – spiega il dirigente – nel senso che le mafie straniere già presenti nel nostro territorio hanno la prerogativa di essere specializzate in settori merceologici, o in contesti criminali, dove hanno la possibilità di lavorare in proprio o in joint venture anche con le nostre mafie, senza problemi di conflittualità. Non è ancora documentato che ci sia un interesse specifico nel settore, perché non c’è un controllo del territorio né tantomeno prodotti alimentari che queste comunità e organizzazioni mafiose possano gestire in termini di monopolio. 
Si tratta però di criminalità particolarmente efferate, militarmente preparate e soprattutto “affamate”; questo le può rendere molto più aggressive e pericolose, per cui si può dire che allo stato attuale siano ancora in una prima fase evolutiva, vedremo poi se tenderanno a rendersi più imprenditoriali e meno militari. In questo ritengo che la criminalità albanese sia nettamente più avanti rispetto alle altre».

Su cosa sono concentrate le indagini
«Sul seguire come le varie filiere merceologiche legate alla gestione delle aree rurali possano attirare l’interesse della criminalità organizzata, dai mangimi, i fertilizzanti e il foraggio che potrebbero essere imposti a un determinato gruppo di allevatori o su un determinato territorio, mettendo il bavaglio a imprese sane che hanno difficoltà ad andare avanti, fino ad arrivare alla gestione dei braccianti, al lavoro nero e al caporalato. Sono tutti fenomeni tra loro strettamente interconnessi e che possono creare un indotto mafioso importante e da non da sottovalutare – conclude Marco Garofalo – È un fenomeno che può apparire di nicchia, ma che in quei territori, ad ampia estensione rurale e vocazione agricola, può creare importanti problemi di gestione economico finanziaria».

11/07/2023