Cristiano Morabito e Annalisa Bucchieri

Gamma Interferon

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La prima approfondita indagine sulla mafia dei pascoli, diventata un nuovo modello investigativo per la Polizia di Stato, parte dal commissariato di Sant’Agata di Militello che perse in quel periodo due poliziotti d’eccezione, Rino Todaro e Tiziano Granata

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Il fenomeno delle nuove agromafie, scatenato dalla corsa ai fondi europei, ha iniziato a farsi sentire anche in zone del Centro e Nord Italia, come l’Abruzzo o l’Emilia Romagna, non legate storicamente ai clan mafiosi. Ma per capirne a fondo il meccanismo bisogna andare a ritroso, all’origine di tutto in terra sicula, dove per la prima volta è stato scoperto e affrontato proprio nella regione in cui Cosa Nostra è nata.

Quella che vogliamo raccontarvi è la storia di alcuni uomini – la squadra del commissariato di Sant’Agata di Militello nel messinese - che, con pochi mezzi a disposizione, cercando di superare ostacoli di ogni genere, subendo anche l’infamia della calunnia, sono riusciti per la prima volta in Italia a far luce sui traffici criminali legati alla filiera dei prodotti derivati da allevamenti e pascoli “irregolari” e da macellazioni abusive. Creando, tra l’altro, un modello investigativo su un campo inusuale per le competenze della Polizia di Stato

La location è quella del nordest della Sicilia, la più grande area naturale protetta dell’isola, circa 86mila ettari divisi tra le province di Messina, Enna e Catania: il Parco dei Nebrodi. Una zona ad alta vocazione agropastorale, dove i monti dell’Appennino siculo abbracciano grandi distese di pianura in cui pascolano migliaia di capi di bestiame di ogni tipo, dove non è raro, ancora oggi, incontrare il pastore che, con bastone e cane, guida le sue bestie. Una zona, dunque, che ad una prima occhiata nessuno penserebbe appetibile per un business criminale. Eppure dal 2014 qualcuno iniziò a pensarlo.

Facciamo un piccolo passo indietro: Daniele Manganaro è un giovane funzionario di polizia siciliano e proprio in Trinacria inizia la sua carriera, in provincia di Enna, al commissariato di Nicosia. «A Nicosia – racconta Daniele Manganaro – iniziai ad affrontare il problema della mafia agropastorale perché, durante indagini su estorsioni messe in atto dal clan dei catanesi nel comune di Troina avevamo scoperto alcune “cellule dormienti” nebroidee che facevano la spola tra Tortorici a Troina, i cui appartenenti risultavano avere precedenti penali per mafia e per truffe ai danni dell’Agea (l’Agenzia per le erogazioni in agricoltura, che si occupa dell’assegnazione dei fondi messi a disposizione dall’Ue, ndr)».

Questo il “primo contatto” tra Manganaro e la criminalità organizzata del luogo, un’intuizione che poi si rivelerà giusta e che il giovane funzionario non abbandonerà durante la sua permanenza sull’isola, ma che sarà la sua guida anche per gli anni successivi, quando sarà trasferito in provincia di Messina a dirigere il commissariato di Sant’Agata di Militello, ultimo comune nell’entroterra del Parco dei Nebrodi a ridosso del mare.

«A Sant’Agata – prosegue Manganaro – iniziai a indagare su alcuni fenomeni di abigeato; all’inizio io e i miei investigatori pensammo che i furti di bestiame fossero stati fatti a scopo estorsivo ma, indagando più profondamente, scoprimmo che il fine era un altro: incassare i fondi messi a disposizione dall’Agea, attraverso la creazione di pascoli fasulli con relativa documentazione aziendale ».

I criminali avevano escogitato un sistema tanto semplice, quanto redditizio: bastava certificare di possedere un tot numero di capi di bestiame in relazione agli ettari di terreno di proprietà, dichiarare di non avere precedenti per mafia e il gioco era fatto. Grazie alla connivenza di qualche “colletto bianco” all’interno dei CAA (Centri agricoli di assistenza), il falso fascicolo aziendale veniva istruito. L’ultimo atto necessario per incassare i fondi europei era quello dei controlli sanitari, ossia un veterinario avrebbe dovuto certificare che gli animali non fossero affetti da tubercolosi e brucellosi, in modo tale da poter essere macellati e poi immessi sul mercato.

Ed è proprio in questa fase che Manganaro e i suoi uomini del commissariato di Sant’Agata, grazie anche all’aiuto fondamentale di Giuseppe Antoci (il presidente dell’Ente Parco dei Nebrodi), trovarono la chiave di volta per entrare nei meccanismi delle truffe all’Agea: «Creammo una vera e propria task force – ricorda il funzionario – composta da noi poliziotti del commissariato, tra i quali Rino Todaro e Tiziano Granata, dalle guardie del Parco dei Nebrodi, dalle guardie venatorie di Pettineo e il direttore dell’Istituto zooprofilattico di Barcellona Pozzo di Gotto, grazie a quello che poi verrà denominato come il “protocollo Antoci”, iniziammo le nostre indagini in un mondo, quello dell’agromafia, del quale fino ad allora si era solo sentito parlare, ma che nessuno aveva ancora mai toccato con mano». Si partì indagando sui controlli sanitari, che veterinari compiacenti il più delle volte fingevano di attuare e che quando venivano effettuati si usava un sistema semplice da aggirare: per verificare se l’animale fosse affetto da tubercolosi, il veterinario di turno usava il metodo dell’introdermoreazione, ossia iniettava un farmaco che avrebbe dovuto creare una reazione nella cute dell’animale, facendola inspessire; poi, con un cutimetro, dopo 72 ore avrebbe dovuto verificarne lo spessore, solo che i controlli venivano svolti “a tavolino” oppure qualcuno provvedeva a cospargere il punto dell’iniezione con una pomata cortisonica, in modo tale da contenere il rigonfiamento, così che alla fine la cute risultasse di uno spessore non al di sopra di un centimetro e mezzo, oltre il quale si legge il sintomo di infezione da tubercolosi.

«Abbiamo letto – prosegue Manganaro – fascicoli sanitari in cui tutti gli animali avevano la cute di uno spessore che variava da 0,7 a 0,8 centimetri: un dato statisticamente impossibile. Per smantellare questa prassi, abbiamo analizzato nei dettagli la normativa europea, che scoprimmo prevedeva l’esame degli animali con il test attraverso il Gamma Interferon (da cui prenderà il nome l’indagine principale sulla mafia dei pascoli, ndr), un medicinale in grado di rivelare, tramite una reazione chimica a seguito di un esame del sangue, la presenza o meno di tubercolosi, affidabile al 100% a differenza del cutimetro. Prendemmo tutti i controlli fatti dai veterinari negli ultimi sei mesi e, dopo 15 giorni, siamo tornati negli allevamenti per testare il bestiame con il Gamma Interferon e i capi che erano risultati negativi ai test effettuati per finta dai veterinari, sono risultati tutti positivi». Quindi, si configurava il reato di associazione a delinquere tra allevatori e veterinari compiacenti, il primo caso in Italia finalizzato alla diffusione di malattie infettive e al percepimento illecito di finanziamenti europei. Un’azione che è proseguita nel tempo, anche grazie ad alcuni “bandi civetta” messi a punto da Giuseppe Antoci e che, ovviamente, provocò la reazione della criminalità organizzata, colpita al cuore del suo business.

«Durante le indagini accadde veramente di tutto– ricorda Daniele Manganaro – ma noi, nonostante le minacce provenienti da ogni direzione, continuammo imperterriti sequestrando allevamenti e bestiame e denunciando decine di persone: nel maggio del 2015 vennero meno i fondi per le intercettazioni e dovemmo dare un colpo di acceleratore alle indagini. Tra luglio e agosto inviai per mail i primi tre capitoli dell’informativa al procuratore Luca Melis, con il quale ci accordammo di parlare di persona del quarto. Ma a settembre, Melis subisce una “misteriosa” caduta in un bed and breakfast di Cagliari e cade in coma, con poche speranze di farcela (si risveglierà miracolosamente dopo quasi un anno, ma affetto da amnesia, ndr)». È il segnale che Manganaro e la sua squadra hanno toccato un nervo scoperto. Da quel momento le minacce si fanno sempre più forti, fino a culminare nella notte tra il 17 e il 18 maggio 2016 nell’attentato a Giuseppe Antoci: tre colpi di fucile contro la sua auto e gli uomini della sua scorta, tra i quali Manganaro, Tiziano Granata e Rino Todaro che rispondono al fuoco mettendo in fuga gli attentatori, salvando così la vita al Presidente. Da quel momento, ai danni di Daniele Manganaro, dei suoi uomini e di Giuseppe Antoci, inizia quello che i siciliani chiamano “mascariamento”, letteralmente “macchiare con il carbone un foglio bianco”: si era messa in moto la macchina del fango. Accuse, dicerie, voci, lettere anonime per instillare il dubbio che l’attentato fosse solo una messinscena, attuata per ottenere riconoscimenti e promozioni. A subirne le conseguenze furono quei leali servitori dello Stato che, per la collettività, avevano speso il proprio tempo, la propria professionalità, e, in alcuni casi, la salute: «Un giorno mi telefonano per dirmi che Rino (Todaro) era stato ricoverato in ospedale per una grave forma di leucemia fulminante. Ho fatto appena in tempo ad arrivare in ospedale per vedere per l’ultima volta Rino vivo: da lì a poche ore ci avrebbe lasciati. Poco dopo, il mio cellulare squillò di nuovo: era la mia segreteria che mi avvisava che Tiziano era stato trovato esanime in casa. Entrambi se ne erano andati per sempre, all’improvviso e a distanza di poche ore… È un colpo del quale ancora oggi non riesco farmi una ragione. Loro per me non solo sono stati due collaboratori preziosi, infatti è solo grazie a loro che siamo arrivati a scoprire il traffico dei Nebrodi, ma soprattutto li ho considerati come due fratelli: mi mancheranno per sempre». Daniele Manganaro deve di fatto abbandonare le indagini e per lui, nel frattempo trasferito al commissariato di Tarquinia, inizia un lungo iter durante il quale sarà chiamato a difendere il suo operato, la sua professionalità e, soprattutto, il suo onore: un percorso duro che terminerà il 15 gennaio 2020 con l’esecuzione della “Operazione Nebrodi” della DDA di Messina, da cui emergerà che quella notte di maggio Giuseppe Antoci scampò ad un attentato mafioso, solo grazie all’azione del funzionario e dei suoi uomini.

«È stato il periodo più difficile della mia vita – conclude Daniele Manganaro – durante il quale sono stato intercettato (6 mesi, ndr), è stata scandagliata la mia vita e quella dei miei collaboratori, ma che ha avuto sempre una costante: la presenza al mio fianco dei vertici della Polizia di Stato, che non mi hanno mai abbandonato e che, anzi, sicuramente trasferendomi a Tarquinia mi hanno anche salvato la vita».

Oggi Daniele Manganaro è un primo dirigente, vicario del questore di Cuneo, ma i Nebrodi e i suoi amici che non ci sono più sono sempre nel suo cuore e nei suoi ricordi: basta dare un’occhiata alla sua pagina Facebook, dove campeggia la sua foto insieme a Rino e Tiziano.

11/07/2023