Cristiano Morabito

Un’impronta è per sempre

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Dopo 35 anni, un ispettore della Digos riprende in mano il fascicolo di un omicidio e, grazie a un lavoro di équipe, lo risolve. Questa è la storia di un poliziotto che non ha mai mollato l’osso, neanche in pensione

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Sembrerebbe quasi la sceneggiatura di un film crime, anzi di una serie proprio dedicata a quei casi irrisolti che vengono letteralmente rispolverati dagli scaffali di un polveroso schedario da un poliziotto al quale un’archiviazione, troppo frettolosa o perché non supportata da prove inconfutabili poiché all’epoca la tecnologia non lo permetteva, non è proprio andata giù.

Nel mestiere del poliziotto ci vuole quel pizzico di curiosità, quell’intuizione basata anche su un particolare infinitesimale per far sì che le indagini prendano la piega giusta, anche dopo più di quarant’anni.

E deve essere successo proprio questo quel giorno del 2014 quando qualcuno prese in mano il fascicolo di quel delitto del 1985, ad opera di ignoti, che vide cadere il 34enne Giovanni Di Leonardo, agente scelto in servizio alla Sottosezione della polizia stradale “Roma Est” e che, solo per un caso fortuito, non provocò una seconda vittima, l’autista della Fiat Regata della Stradale.

Ma veniamo ai fatti. È la mezzanotte del 1° maggio 1985, un mercoledì come tanti altri, un turno notturno 00-07 come tanti altri sull’autostrada Roma-L’Aquila. Il ventenne autista della pattuglia, si reca nel garage della Sottosezione per prelevare l’autovettura che sarà il suo “ufficio” per le prossime sette ore, una Fiat Regata fresca fresca di autolavaggio e anche lei pronta per il servizio. Il capo-pattuglia di quel turno sarebbe dovuto essere un altro, ma Giovanni Di Leonardo al mattino vuol festeggiare il secondo compleanno della piccola Daniela e chiede al collega un cambio turno, quindi sarà lui a dirigere le operazioni quella notte. La pattuglia esce dalla caserma e imbocca l’autostrada: un servizio ordinario, semplice come tante altre volte. Di notte su quella strada non viaggiano tanti veicoli e la maggior parte degli interventi vengono fatti per soccorrere automobilisti in difficoltà; infatti, dopo poco, ecco il primo: un furgone in panne. I due “stradalini” intervengono, aiutano l’autista e poi “Proseguiamo con il solito servizio”, si sente dire alla radio. La notte è lunga e c’è bisogno di qualche caffè in più e allora tappa all’autogrill, uno scende e l’altro resta a guardia dell’autovettura, per poi dare il cambio al collega. La sosta finisce e, tra una chiacchiera e l’altra, i due colleghi tornano sulla lingua d’asfalto che unisce il Lazio all’Abruzzo. 

Poco prima dell’uscita “Castel Madama”, una delle prime dell’A24, Giovanni e il collega notano una VolksWagen Golf scura nella corsia di emergenza: cofano aperto e due individui che armeggiano sul motore, quasi avessero avuto un guasto meccanico. La Regata della Stradale mette la freccia e accosta. I poliziotti chiedono se ci sia bisogno di aiuto e i documenti ai due: uno di loro resta accanto all’auto della polizia, mentre l’altro va verso la Golf per prendere assicurazione e libretto di circolazione. Succede tutto in un lampo: invece dei documenti, l’uomo estrae una pistola e inizia a sparare verso la Regata, colpendo in pieno gli agenti. Giovanni sembra quello messo peggio, mentre l'autista viene colpito quasi di striscio perché la pallottola è deviata dalla lampo della cerniera del giubbotto di pelle. A questo punto i due poliziotti vengono ammanettati con le loro stesse manette e gettati nel fosso al lato della strada. Giovanni, agonizzante, è ritenuto ormai morto mentre il collega sembra essere destinatario del “colpo di grazia”, ma per fortuna i due malviventi se ne vanno via frettolosamente, portandosi via, oltre alle armi dei due poliziotti, anche la Regata che verrà abbandonata in una galleria poco più avanti. L'autista raccoglie le poche forze che ha, risale la scarpata e riesce a fermare una macchina. Scatta l’allarme e, poco dopo, giunge sul posto una pattuglia dei Carabinieri che raccoglierà i due poliziotti per portarli al pronto soccorso più vicino, a Tivoli: il collega si salverà, mentre per Giovanni di Leonardo non c’è più niente da fare. Saranno varie le rivendicazioni, dalle Brigate Rosse ai Nar ma, almeno per qualche decennio, non ci sarà un colpevole: solo un’impronta del palmo di una mano sconosciuta, che resterà tanto tempo in un archivio, quasi ad aspettare che qualcuno la tiri fuori dal fascicolo… e qualcuno alla fine è arrivato. 

Facciamo un salto in avanti di quasi trent’anni. A Roma, nella sua villa su via della Camilluccia, uno dei quartieri della “Roma bene”, il 3 luglio del 2014 viene ritrovato cadavere Silvio Fanella, il broker legato all’imprenditore Gennaro Mockbel. Un poliziotto, Roberto Marini, sostituto commissario in servizio da trent’anni alla seconda sezione della Digos (quella che si occupa quasi prevalentemente di eversione nera) della questura di Roma, e a cinque anni dalla pensione, scartabellando tra gli atti posa gli occhi su un appunto del 2004 in cui veniva fatta una comparazione di impronte da parte della Scientifica. «Uscì fuori una serie di nomi – racconta Roberto – che però all’epoca non ebbero riscontro. Però sentivo che c’era qualcosa che non quadrava». Ed eccola lì quella intuizione, quel lampo, quel particolare infinitesimale di cui parlavamo prima e che fa scattare la molla all’investigatore: «Andai dal mio dirigente di allora, Diego Parente (attuale direttore centrale della polizia di prevenzione, ndr), al quale espressi le mie perplessità su quel delitto di tanti anni fa e che, secondo me, poteva essere legato a quella vicenda del 2014. Lui ci pensò su un po’ e mi disse: “Ok, riapriamo il caso”. Riunii subito la mia squadra e ci mettemmo al lavoro, analizzando in lungo e in largo ogni minimo particolare che all’epoca poteva essere sfuggito agli investigatori o che la tecnologia di allora non aveva permesso di indagare a fondo».

E fu appunto la tecnologia del nuovo millennio a dare il supporto decisivo all’indagine: «Chiesi alla Scientifica di inserire nell’Afis (Automated fingerprint identification system, la banca dati delle impronte digitali che all’epoca dei fatti ancora non esisteva, ndr) quell’impronta palmare che era stata rilevata sul deflettore posteriore della Regata in servizio quella notte del 1985 – continua il poliziotto oggi in pensione da 4 anni – Dopo due giorni mi chiamarono per dirmi che c’era stato un “match” positivo: era di un soggetto denunciato in passato insieme a Gennaro Mockbel, quando nel 1992 venne arrestato Antonio D’Inzillo (lo spietato killer dei Nar che tra le sue vittime eccellenti contava anche “Renatino” De Pedis, uno dei boss della Banda della Magliana, ndr)».

La tecnologia è sicuramente un mezzo fondamentale per le investigazioni, ma l’occhio dell’uomo lo è altrettanto: «Dopo il “passaggio” positivo all’Afis, la Scientifica procedette al riscontro manuale perché, soprattutto su impronte così vecchie, il computer potrebbe avere un minimo margine di errore. E noi volevamo risolverlo con certezza quel caso!». Ebbene, arrivò la conferma anche dal riscontro manuale: ben 51 punti in comune… e se si conta che la certezza per la giurisprudenza si ha quando si ha una corrispondenza già di 16 punti, allora possiamo tranquillamente dire che Roberto era finalmente “arrivato a dama”!

«A quel punto – prosegue Marini nel suo racconto – riaprimmo ufficialmente il caso e iniziammo a battere due piste: la prima, la più importante, era quella di escludere che quella impronta fosse stata lasciata in un momento diverso da quello in cui si verificarono i fatti dell’85; la seconda fu quella di iniziare il monitoraggio di tutti i contatti della persona che avevamo individuato. Quest’ultima, avvalendoci anche delle intercettazioni telefoniche, non diede i risultati sperati, anche perché a 30 anni di distanza nessuno parlava più di quella vicenda; ma era comunque una strada da tentare. Quindi battemmo soprattutto la prima strada, con una serie di attività incentrate su due punti principali: il primo fu che la volante veniva usata esclusivamente per il servizio in autostrada, quindi non era la classica auto della polizia alla quale qualcuno si sarebbe potuto appoggiare casualmente e sempre guardata a vista da un membro dell’equipaggio. Un altro elemento rilevante emerse quando rintracciammo i registri dell’epoca in cui erano minuziosamente annotati tutti i movimenti delle autovetture e degli equipaggi; quella macchina, nel mese precedente, aveva svolto servizio esclusivamente sulla Roma-L’Aquila, quasi sempre in orari notturni, e non era mai stata portata in officina per riparazioni. Ma l’elemento più importante fu che la Regata veniva puntualmente lavata al termine di ogni turno, così come previsto da un’ordinanza del comandante della Sottosezione, tant’è vero che, andando a rileggere il faldone redatto sul caso dalla Scientifica nel 1985, si leggeva che sull’autovettura era stata rilevata solo una “leggera traccia di smog sulle superfici orizzontali”, il che, tradotto in parole semplici, significa che la Volante era rimasta un po’ più del previsto in una galleria… e lì, infatti, era stata abbandonata dai malviventi in fuga. Un elemento determinante in sede processuale, il cardine sul quale è stata fondata tutta l’indagine: quell’impronta non poteva essere stata lasciata da nessun altro, se non dagli assassini, in quella notte maledetta». 

Una volta ricevuti tutti i risultati necessari all’individuazione dell’indiziato, la “macchina dell’investigazione” ingranò la quarta e il cerchio intorno a uno degli assassini cominciò a stringersi: «Iniziammo con le indagini a 360°, eravamo a un passo dalla risoluzione del caso, dovevamo assolutamente arrivare a quell’uomo e non potevamo permetterci il minimo errore – prosegue Roberto – Dovevamo tener conto di tutto, affinché in sede processuale l’accusa fosse inattaccabile e non venisse fornito alla difesa il benché minimo appiglio. La squadra si arricchì dei colleghi della Postale che svolsero le indagini telematiche; non so quante notti di sonno abbiamo perso tutti quanti nel ricontrollare ogni dettaglio, ma alla fine lo abbiamo preso. Era il 2015, venne rintracciato grazie a una sua impronta rilevata nel 1989 e, grazie anche alle prove che abbiamo portato in tribunale, rinviato a giudizio».

La sentenza di primo grado arrivò nel dicembre del 2019 e quella che in Cassazione ha confermato l’ergastolo nel 2022 per Fabrizio Dante (questo il nome dell’assassino), con Roberto in pensione da quattro anni, ma non per questo ha mollato: «Ho seguito tutte le udienze, continuando di tanto in tanto ad andare nel mio ufficio in questura a dare supporto ai miei colleghi, anche perché rimane aperta un’altra questione…».

Infatti, il commando sulla A24 si pensa non fosse composto solamente da due persone: « Il grande interrogativo rimasto – continua l’ex sostituto commissario – è il perché quella notte in autostrada fossero lì: probabilmente aspettavano qualcosa da qualcuno oppure dovevano lasciare qualcosa a qualcuno e sono stati sorpresi dall’arrivo della Stradale».

E poi, non dimentichiamoci quella Golf scura, della quale l'autista della pattuglia, sebbene ferito, era riuscito ad annotare un parziale della targa: «Ne venne ritrovata una simile in tutto e per tutto poco più di un mese dopo dai fatti accaduti sull’A24 a Palermo – osserva Marini – in un garage di proprietà di due fratelli, all’interno del quale venne trovato molto materiale di propaganda neofascista, tra cui alcune copie della rivista clandestina “Quex” e tutto l’occorrente per modificare armi… e il proiettile che ferì il collega sopravvissuto proveniva proprio da un’arma alla quale era stato cambiato il percussore. Purtroppo, non abbiamo potuto provare con certezza che fosse la stessa autovettura, ma i sospetti restano… e abbastanza forti!».

Coincidenze? Beh, per dirla con Agatha Christie: “Una coincidenza è una coincidenza, due coincidenze sono due coincidenze, tre coincidenze sono una prova!”. «Tempo al tempo – conclude Roberto – tanto adesso sono in pensione e, appunto, di tempo da dedicare a questa vicenda ne ho quanto voglio…».

Il poliziotto che quella notte era alla guida della "Regata" della Stradale è ancora in polizia, mentre a Giovanni Di Leonardo, Medaglia d’oro al merito civile, è stata intitolata la caserma della Sottosezione della polizia stradale “Roma Est”, mentre sua figlia è entrata in polizia, grazie alle assunzioni riservate ai figli delle vittime del dovere.

Roberto Marini, che abbiamo incontrato in redazione poche settimane fa per farci raccontare questa storia, è sempre “al lavoro” per cercare di assicurare alla giustizia gli altri due: lui è un poliziotto di quelli che non mollano mai l’osso. Questo è un avviso!

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Caleidoscopio di emozioni

di Diego Parente*

Nel 1985 il mondo si stava aprendo ad una nuova fase: iniziava l’era di Gorbaciov e tutti speravano – sembra quasi paradossale oggi – in un’epoca di pace. In Italia, però, si continuava a sparare. Nel 1985 abbiamo il sequestro dell’Achille Lauro, ma anche l’omicidio Tarantelli, solo per fare un esempio, ad opera delle Brigate Rosse. Ed è in questo contesto che si inserisce l’agguato dell’autostrada Roma-L’Aquila in cui perse la vita l’agente scelto Giovanni Di Leonardo e rimase gravemente ferito  l’agente che quella notte guidava la pattuglia della Stradale. L’inchiesta che ha portato alla condanna e quindi all’arresto di Fabrizio Dante può essere considerata un paradigma investigativo, perché include tutte le possibili declinazioni dell’attività di indagine.  

Il dossier è stato infatti rivitalizzato nel 2014 da una nuova comparazione delle impronte papillari repertate già nel 1985 sull’autovettura di servizio dell’agente ucciso – ma all’epoca non associate a nessuno – alla luce delle innovazioni introdotte con l’evoluzione del sistema informativo nazionale AFIS. È stato quindi possibile accertare che i frammenti di impronte palmari repertati nel fascicolo di sopralluogo e presenti sul deflettore della portiera posteriore destra della Fiat Regata – corrispondente al lato occupato da Giovanni Di Leonardo, ucciso con un colpo esploso a bruciapelo – corrispondevano in modo incontrovertibile a quelle di Fabrizio Dante, certificando il suo ruolo attivo nell’episodio criminoso.

Ugualmente importanti sono state le indagini tradizionali – analisi del carteggio in atti, delle testimonianze e dei verbali ancora custoditi dai vari uffici di polizia – che, fra le altre cose, hanno consentito di escludere che il rilascio di tali impronte potesse fare riferimento a tempi diversi rispetto a quello in cui è maturato l’agguato.

Talvolta, lo possiamo dire, la tanto criticata “burocrazia” si rivela un’efficace arma investigativa…

E infine l’inchiesta ha vissuto anche di momenti di intensa operatività nelle concitate fasi della cattura di Dante a seguito della condanna definitiva, resa possibile dalle investigazioni condotte  “sul campo” e dalla proficua collaborazione con la polizia slovena.

Ma questa indagine è stata anche un caleidoscopio di emozioni che si sono succedute senza soluzione di continuità, passando attraverso i vari gradi del giudizio penale che hanno testimoniato la solidità dell’impianto accusatorio scaturito dalle investigazioni.

Oggi, però, a mente fredda, se mi si chiede qual è il mio stato d’animo, rispondo che è quello di chi prova un rassicurante senso di giustizia per aver contribuito a chiudere un cerchio dopo 37 anni: quella giustizia che, con tenacia e determinazione, andava riconosciuta ai familiari dell’agente scelto Giovanni Di Leonardo, barbaramente ucciso, e all’agente sopravvissuto all'agguato, che è stato segnato da quella tragica esperienza e che comunque per anni ha continuato ad indossare con orgoglio la nostra divisa.

Un senso di giustizia per un episodio – uno dei tanti – che ha caratterizzato gli anni più bui della nostra storia repubblicana, contrassegnati da omicidi, stragi, feriti, attentati. Anni di terrorismo rosso e nero, che hanno prodotto più di 370 morti e circa 1.000 feriti e che hanno visto come protagonisti e come vittime tanti nostri colleghi, proprio come Giovanni Di Leonardo.

*direttore centrale della polizia di prevenzione

06/12/2022