Cristiano Morabito

Dica 33 ...anzi, 60!

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La Sanità della Polizia di Stato taglia il traguardo dei 60 anni: dal reclutamento alla gestione delle emergenze mediche, passando per l’apertura al mondo accademico e le innovazioni tecnologiche

pp 8-9-22

Era il 1962 quando, sul sentiero tracciato da quella che all’epoca era la sanità militare, venne istituita la figura del medico della Polizia di Stato. Un ruolo nuovo per un’Amministrazione che iniziava a contare numeri importanti in termini di appartenenti e che, di lì a poco, date le esigenze dettate dal periodo storico, avrebbe iniziato ad assumere personale in numero considerevole. Non ci si poteva più, quindi, rivolgere come appoggio, per funzioni come quella del reclutamento, a strutture “esterne”, era dunque necessario che anche la polizia si dotasse di un proprio contingente interno formato da medici prima e poi, con il passare degli anni, di psicologi, infermieri, tecnici di laboratorio e di altre figure professionali. 

A sessant’anni di distanza, la Sanità della Polizia di Stato è cresciuta di pari passo con i progressi costanti della medicina e con il mutare delle esigenze dei poliziotti: una specialità, quindi, sempre in evoluzione, che oggi può essere annoverata tra le eccellenze della polizia, potendo contare su specialisti di alto livello, su strutture all’avanguardia e su un’organizzazione interna al passo con i tempi.

Di grande importanza, di conseguenza, è anche il costante interscambio con il mondo accademico, nonché la capacità dell’intera struttura sanitaria della polizia di essere sempre “pronta sul pezzo”, così come da due anni a questa parte è avvenuto a causa della pandemia da Covid-19, un vero e proprio “stress test”  durante il quale la Sanità ha dovuto affrontare l’emergenza legata ai contagi dei poliziotti e, in più, ha prestato la propria opera al servizio della popolazione durante l’intensa campagna vaccinale. Sono i numeri a confermarlo: dal febbraio del 2020 a luglio di quest’anno, i tamponi positivi effettuati sul personale della Polizia di Stato sono stati più di 45.000. Un momento difficile passato dalla nostra Amministrazione che ha visto l’intero Servizio impegnato in prima linea, ma che è servito anche a valorizzarne l’efficienza e, perché no, anche a scoprirne i lati deboli, in modo tale da regolare al meglio in corsa tutta la struttura.

Di questo e di molto altro ne abbiamo parlato con Fabrizio Ciprani, al vertice della Direzione centrale di sanità.

«Quello di questi 60 anni è stato un percorso complesso – esordisce il direttore centrale di Sanità – Non siamo un ospedale, quindi bisogna sempre adeguare l’attività a quelle che sono le esigenze sanitarie e di sostegno al nostro personale. Dalla data dell’istituzione in cui i compiti del Servizio sanitario erano prettamente di verifica dell’idoneità psicofisica e dalla selezione del personale, ci siamo infatti più riversati su compiti di supporto che consentono di essere vicini al poliziotto, nelle varie fasi della vita, in questa esperienza che dura almeno trent’anni e che presenta delle criticità all’entrata diverse da quelle dell’età di mezzo, diverse ancora da quelle del pensionamento, che tra l’altro è una tappa critica per molti. Dunque, la mission è quella di essere vicini all’operatore di polizia durante tutto l’arco della carriera, non semplicemente con una verifica della sua idoneità, ma cercando di metterlo in condizione di lavorare al meglio, sia da un punto di vista fisico che da quello psichico. 

Quali sono i punti di forza e le eventuali criticità di una struttura particolare come quella della Sanità della polizia? 
Il punto di forza reale è quello di avere alle spalle una grande Amministrazione come la Polizia di Stato, che ci consente di lavorare con le sue infrastrutture. Il Covid ha messo a dura prova tutta la sanità del nostro Paese e soprattutto alcune figure fondamentali come quella del medico di base che spesso si è trovato a lavorare “in isolamento”. Grazie alla nostra struttura, abbiamo potuto lavorare insieme, dando delle indicazioni molto precise che ci hanno messo in condizione di sopportare questo importante “stress test“, dimostrando come quello attuato possa essere un modello anche per tutta un’altra serie di sistemi sanitari che obiettivamente sono stati messi in crisi durante la fase acuta della pandemia. Un aspetto negativo è che oggi vi è una certa difficoltà a reperire medici e professionisti sanitari, carenza che non riguarda solo noi, ma un po’ tutto l’ambito sanitario nazionale. Noi siamo anche svantaggiati dal fatto che per un medico “l’appeal” maggiore è esercitato dal lavoro in ospedale dove c’è un rapporto più immediato con il paziente. Un aspetto su cui lavoriamo molto è l’aggiornamento professionale, perché non essendo questa una struttura di carattere universitario, se non ci si impegna si rischia che chi svolge questo tipo di attività perda il contatto con quelli che sono i progressi costanti nella medicina. 

Chi è il sanitario della Polizia di Stato?
Come sanitari oggi non abbiamo solo i medici, tant’è che abbiamo cambiato quel simbolo sul nostro scudetto di specialità togliendo il “serpentino”, esclusivo della professione medica, ed è stato realizzato un logo che contemplasse un po’ tutte le figure sanitarie della Polizia di Stato: medici, psicologi, infermieri, veterinari (dal 2019), tecnici della prevenzione, tecnici di fisioterapia, di radiologia e di laboratorio. Tutte insieme queste figure lavorano in un sistema in cui il gioco di squadra è fondamentale per ottenere buoni risultati. È stato cambiato quello che era il modello tradizionale del medico della polizia, che prima faceva un po’ tutto: era un medico generico che cercava di essere anche psicologo, medico legale, etc.. Adesso reclutiamo specialisti e gli uffici sono stati suddivisi per competenze in aree diverse e, soprattutto grazie all’informatica e alla telemedicina, ci stiamo organizzando come una vera e propria rete sul territorio. Oggi non è più proponibile un modello in cui il medico faccia tutto: dove non è stato possibile arrivare con la nostra struttura, sono state stipulate convenzioni con specialisti esterni.

Qual è l’organizzazione sul territorio?
In Italia, oltre alle strutture presenti nella Capitale, ci sono tre centri sanitari polifunzionali (Milano, Napoli e Palermo), ma stiamo attualmente pensando ad un altro tipo di modello: fino ad oggi, sulla scorta dell’organizzazione della “medicina militare”, c’era un medico per ogni provincia e questa probabilmente è un’organizzazione superata, sia perché c’è una generale carenza di medici sia perché la medicina specialistica e l’informatica possono esserci di aiuto. Il progetto potrebbe essere quello di rafforzare le infermerie delle questure nei capoluoghi di regione e, quindi, istituire dei centri in cui si possa fare anche diagnostica e in cui ci siano gli specialisti a supporto di tutto il territorio. Credo sia anche necessario riflettere sul taglio di alcune attività, come il controllo di idoneità nei brevi periodi di malattia: quello che ci interessa è valutare patologie importanti in cui è molto delicato ricollocare le persone in servizio. Già adesso per ogni macroarea c’è un coordinatore sanitario, un dirigente superiore medico che si occupa di 2 o 3 regioni a seconda della zona, in costante contatto con la Direzione centrale di sanità.

Emergenze: non solo Covid…
Lasciando da parte l’emergenza pandemica, ci sono tante altre criticità che coinvolgono il Servizio sanitario nazionale, per problematiche importanti, come la carenza dei medici di base, i servizi ambulatoriali di diagnosi e cura, l’attività medico-legale. Certo, pensare che i circa 300 medici della polizia possano porre rimedio a questo è ottimistico, però è fondamentale l’idea che si possa intervenire ogni qualvolta ci sia una situazione di emergenza, forti di un’organizzazione che ci consente di muoverci immediatamente. Trovare il sistema per collaborare con tutti gli enti (Protezione civile, militari, altre forze di polizia e Asl) è molto importante ed è sicuramente una strada che va approfondita, perché in caso di emergenza non ci si possono permettere improvvisazioni. 

La collaborazione con il mondo accademico e con gli specialisti esterni, può essere considerata come un punto di forza?
Assolutamente sì. È fondamentale l’apertura con la sanità pubblica. A Roma, ad esempio, siamo anche rete formativa per l’università, che ci invia studenti a fare pratica per la specializzazione e per i tirocini. Quindi c’è un’osmosi, c’è interscambio, ci sono dei rapporti di convenzione ed è attualmente allo studio la possibilità di inviare nostro personale (come ad esempio gli infermieri nei pronto soccorso) a fare dei turni in ospedale, facendo in modo che anche quell’attività di contatto quotidiano con i pazienti che, inevitabilmente, non lavorando in strutture ospedaliere, potrebbe mancare, venga in qualche modo garantita. Questo è ciò che stiamo cercando di fare, nell’ottica di lavorare sempre più al fianco della sanità pubblica. È già accaduto durante la fase acuta della pandemia che siano stati inviati nostri medici in supporto ad altre strutture sanitarie e, successivamente, è stato dato un consistente contributo alla campagna vaccinale.

Non è un mistero che l’età media dei poliziotti negli ultimi anni si sia notevolmente innalzata. Dal punto di vista sanitario, questo fattore può comportare problematiche maggiori?
Sicuramente, perché come sappiamo bene con l’avanzare dell’età aumenta il rischio di ammalarsi; molte malattie dovute all’invecchiamento fisiologico vengono oggi affrontate adeguatamente, anche se è indubbio che a 50 anni non si sia più come a 30. Ci sono tante patologie che comportano la necessità di assumere dei farmaci regolarmente. Il lavoro che dobbiamo svolgere è quello di cercare di rendere il più possibile compatibile il servizio con le condizioni psicofisiche del singolo. Ciò consente, peraltro, un indubbio guadagno dell’Amminiztrazione in termini esperienziali. Questo si può fare, anche perché la stessa attività di polizia è cambiata e non è più prettamente solo “di strada”, quindi c’è la possibilità di ricollocarsi. Il nostro scopo è quello di recuperare anche le persone afflitte da patologie gravi, quando ve ne siano le condizioni, come nel caso di patologie neoplastiche in remissione, che un tempo venivano congedate. Peraltro, da un punto di vista medico è ormai assodato come il lavoro, in certi casi, rappresenti una vera e propria terapia. Cerchiamo quindi di approcciare il poliziotto senza fargli sentire la paura di perdere il posto di lavoro, aiutandolo invece a reinserirsi, collocandolo in un’attività confacente alle sue problematiche. Ci sono ancora colleghi che, per paura di essere messi a riposo, preferiscono prendersi le ferie per affrontare un intervento chirurgico, così come succede che ci siano persone che assumono l’insulina, perché affette da diabete, senza dirlo e quindi vivono doppiamente male, sia per la patologia in sé che per il timore che venga scoperta. 

Nell’ottica della prevenzione, sarebbe importante lanciare un messaggio a tutti i poliziotti
Certamente e anche nell’ottica della gestione del disagio. Abbiamo ancora tante difficoltà per un rapporto fiduciario con il poliziotto. Quello che stiamo cercando di dire da anni è che è vero che noi ci aspettiamo che il poliziotto debba essere sempre efficiente fisicamente ed equilibrato, però questo deve partire dalla consapevolezza della propria vulnerabilità, che è il primo passo verso un percorso che lo farà essere più forte. Se si rimuove la consapevolezza della vulnerabilità e si pensa di essere invincibili e non ci si confronta mai, alla fine inevitabilmente si crolla. Stiamo cercando di far questo anche attraverso un servizio di psicologia di nuova istituzione; durante il periodo più difficile della pandemia, è stato creato lo sportello virtuale “Insieme possiamo”, in cui si poteva contattare 12 ore al giorno uno psicologo, anche in forma anonima. Abbiamo ricevuto oltre 600 contatti e l’esperienza continua ancora oggi, con poliziotti che si rivolgono allo psicologo anche per problematiche di carattere diverso da quelle legate all’isolamento da pandemia. L’aspetto psicologico è per noi molto importante, anche perché ogni volta che andiamo a scandagliare una storia di suicidio c’è sempre una mancata comunicazione non solo con il medico o con lo psicologo, ma anche con i colleghi; e spesso anche i consigli che vengono dati dai questi ultimi si allontanano da una corretta gestione del problema. Consigliare “non dire niente a nessuno, parlane solo con me” è forse il peggior suggerimento che si possa dare. Abbiamo la necessità fondamentale di intercettare questo disagio, non per escludere, ma per sostenere ed accompagnare la persona nel percorso di recupero dello stato di pieno benessere. 

Una struttura efficiente, anche grazie a macchinari di diagnostica all’avanguardia 
Sono in arrivo una Tac e una risonanza “total body” e, grazie ad altri fondi che sono stati stanziati, avremo una serie di apparecchiature che potranno essere usate anche per la diagnostica; ci sarà la possibilità, nei centri sanitari polifunzionali (Milano, Napoli, Palermo e Roma), di effettuare elettrocardiogrammi sotto sforzo, spirometrie, audiometrie e tutta una serie di test utili per anche per l’attività di prevenzione.

Un’eccellenza?
Sicuramente il laboratorio di tossicologia, dove sono stati fatti numerosi test di conferma sulle droghe e messa a punto una metodica nuova sui test salivari; a breve verrà aperto un altro laboratorio di tossicologia a Bologna, sovvenzionato dal Dipartimento delle politiche antidroga, e ci consentirà di dirottare tutti i test del centro nord.

30/08/2022