19 luglio 1992
Un’altra strage di mafia insanguina la terra sicula. Di nuovo un magistrato, simbolo della lotta alla mafia, che viene barbaramente ucciso davanti all’abitazione della madre, pochi mesi dopo l’assassinio dell’amico e collega Giovanni Falcone. Via D’Amelio: pochi minuti alle cinque del pomeriggio, una tremenda esplosione scuote l’intera città di Palermo. Arrivano i primi soccorsi e lo scenario è terrificante: un inferno di fiamme, morte e distruzione che divora i corpi ormai senza vita del giudice Paolo Borsellino, procuratore aggiunto della Repubblica di Palermo, e degli agenti della scorta della Polizia di Stato, Claudio Traina, Emanuela Loi, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Eddie Walter Cosina.
Poliziamoderna ha chiesto, ai giovani studenti del liceo palermitano “ Vittorio Emanuele II”, di scrivere una riflessione sulla mafia in occasione di quel 19 luglio di 30 anni fa.
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ANTIMAFIA 2.0
di Davide Costanza, Sara Pata e Silvia Battaglia (IV H)
“La mafia è peggio della guerra”, queste sono le parole di un professore che ha assistito in prima persona alla guerra di mafia che ha insanguinato le strade di Palermo e della Sicilia negli anni ’80 e che ricorda dolorosamente quel periodo di grande terrore.
Il dolore è ancora forte nei palermitani, che ricordano affettuosamente e con gratitudine figure come i giudici Falcone, Borsellino e Francesca Morvillo e i poliziotti delle scorte, piangendoli tutt’oggi al solo ricordo di quella ferita che non si è mai rimarginata.
Molti, poi, accusano l’aspetto antidemocratico della mafia, la cui paradigmatica azione di prepotenza e morte ha reso la Sicilia un territorio di paura e omertà. E molti credono tuttora che il fenomeno mafioso continui a serpeggiare in maniera sotterranea, che si sia mimetizzato diventando, forse, ancora più pericoloso perché non facilmente riconoscibile; che si sia evoluto grazie a connivenze con tutti i settori della società e dell’economia.
La preoccupazione più grande, dunque, è proprio che questa mafia 2.0 non possa essere percepita appieno dai giovani e che lo stesso affrontarla possa trasformarsi in un semplice trending topic.
Tuttavia, è forte il sentimento della speranza sia verso i giovani, sia nei giovani stessi.
Molti, infatti, hanno dato segno di grande consapevolezza ed evidenziato importanti differenze in merito alla percezione del fenomeno mafioso tra gli anni ‘80-’90 e oggi.
È opinione di tanti, infatti, che questa generazione possa fare molto di più di quanto quelle precedenti, vittime di omertà, angoscia e, soprattutto, disinformazione, fecero a loro tempo.
Tantissimi giovani riconoscono il loro potenziale come frutto di un’istruzione superiore e più capillarmente diffusa, e si mostrano anche capaci di additare con precisione quelle “zone d’ombra” che portano alla falsa concezione che la mafia abbia “fatto anche cose buone” o che “quella vera ha un codice d’onore”.
Gli studenti sembrano, perciò, quasi del tutto concordi in merito ad un argomento nello specifico: “la nostra generazione può, e deve, mettere in campo i nuovi mezzi a disposizione”. L’avvento dei social e, in genere, l’evoluzione della tecnologia hanno portato con sé la possibilità di pubblicare in forma gratuita quasi ogni sorta di contenuto, ed i giovani, che ne sono consapevoli, sperano proprio di poter utilizzare questa forma di comunicazione in continua evoluzione per portare avanti una lotta che non si è mai fermata.
E di questo ne sono consapevoli tanto gli adulti quanto gli adolescenti.
Si teme, infatti, che l’idea del mafioso insita nella mente di tutti sia legata ad un ambiente ed una realtà troppo antica e drammatizzata, mentre ormai “la mafia si sviluppa anche negli ambienti borghesi, attraverso scommesse, criptovalute e appalti pubblici.”
Risulta dunque evidente che la gioventù palermitana, forte del supporto di chi è venuto prima, e delle idee che camminano sulle sue gambe, abbia chiari i suoi obiettivi e le sue aspirazioni. Un messaggio rassicurante che porta a riflette su come una società forgiata dal dolore, dal coraggio e dalla giustizia, per quanto utopica, sia l’obiettivo fondamentale di tutti noi.
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LA LEGGE DELLA MORALE
di Francesca Ghidini (IV G)
Noi siamo ancora qua.
Naturalmente scomposti, abbiamo le gambe per camminare, e istintivamente camminiamo. È la scelta che deriva dalla dovuta presa coscienza di ciò che è avvenuto trent’anni fa, delle rispettive cause e conseguenze; dalla paura di perdersi nuovamente nella rete fitta e di non riconoscere “il cancro inguaribile” strategicamente dietro l’angolo, nelle piccolezze. Ma a misura d’uomo, al di là delle “singole singolarità” e delle coordinate spazio-temporali, la legge morale è li dentro tutti noi. Il cielo stellato straordinariamente sopra.
La concezione Kantiana di morale ci tende la mano salvifica al di fuori del relativismo assoluto: non è più giungla e sistematica diversità, né libero arbitrio. Non è religione né legislazione, non è soggettiva e non c’è scampo. È la way out dai sotterfugi, dal fine che giustifica i mezzi e dalla zona grigia, perché io sono responsabile quanto te nel far convergere la mia moralità nel bene comune. Un progetto titanico che ci vuole categoricamente in difficoltà di fronte ad una logica spietatamente stringente.
Ma si può smettere di cedere alla statica comodità in nome dell’imperativo universale “devo perché devo”. È legge, morale. Ed è dentro di te, connaturata al tuo essere fragile, contorto e contraddittorio.
Quindi la mia morale, che collima universalmente con la tua, scaturisce, se applicata puntualmente, nel benessere della collettività.
Chi ha la possibilità di riscoprirsi in relazione alla propria morale sei tu, seppur finitamente limitato alle tue passioni spinoziane e al tuo essere uomo. Simbolo eterno del dubbio ma potenziale testimone oculare delle stelle una volta alzata la testa.
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MANLIO SGALAMBRO E LA MAFIA
di Pietro Giuseppe Di Mitri e Lorenzo Nicolosi, (IV A)
Manlio Sgalambro è stato, senza ombra di dubbio, uno dei pensatori più originali e autonomi che la fertile Sicilia abbia generato. Discepolo e allievo ideale di Schopenhauer e Nietzsche, nonché autore di alcuni tra i più apprezzati testi di Franco Battiato e non solo, ha militato fin dall’infanzia tra le file dell’anti-mafiosità metafisica (come lui stesso amava definire la propria ricerca).
“La mafia che io perseguito è la mafia metafisica: Dio, la morte, il male. L’altra, per la verità, io ho avuto modo di guardarla da un altro punto di vista”.
Simili parole, che hanno generato ieri come oggi non poche perplessità e accesi dibattiti, si inseriscono, tuttavia, pienamente, in una visione particolarissima dell’esistenza siciliana cui il filosofo di Lentini ha mantenuto fede per tutta la sua vita. In un’intervista rilasciata a Francesco Ianello, Sgalambro, infatti, ricorda come i moralisti stroncarono sul nascere qualsiasi tentativo di impresa proprio a causa della diffusa infiltrazione mafiosa nel territorio catanese, precludendo, tuttavia, in questo modo, qualsiasi speranza di avvio di un processo di industrializzazione. Secondo l’originale interpretazione del filosofo, per sradicare il fenomeno mafioso, bisogna prima investire in quella realtà, permettere, in un certo senso, la partecipazione mafiosa alla creazione di impresa, per poi combatterla e contrastarla in un contesto ormai economicamente e socialmente innovato ed emancipato. Tutto ciò è reso possibile dall’azione di ogni singolo cittadino, che attraverso il proprio lavoro può rendersi protagonista di una rivoluzione economica capace di abolire totalmente qualsiasi “necessità” di partecipazione della mafia al processo di industria.
“La retorica non ci serve più. Se vogliamo che l’economia mafiosa sia un’esistenza temporanea, se vogliamo una Sicilia che non ha più bisogno economico della diabolica mafia, non possiamo stare a contemplarla come una statua immobile. A un intellettuale si chiede di combatterla in un altro modo. [..] Tu cancelli le ombre della mafia operando più di lei, meglio di lei, opponendo il tuo lavoro al suo. A te è stato dato questo lavoro, fallo bene, esplodi, fai vedere che cosa puoi fare anche qui”.
Il concetto stesso di mafia viene imbrigliato in una rete filosofica che lo fa diventare un concetto astratto, qualcosa che può essere sconfitto mediante la pura logica umana, la risposta imprenditoriale dei singoli, nonché il radicale cambio di mentalità cui va incontro una popolazione che vive nel benessere economico e sociale.
L’isola della mafia è una narrazione che non appassiona Sgalambro, il quale preferisce, piuttosto, ricordare al resto del Paese (e forse anche a noi stessi) che la Sicilia è terra di tragedia, ma anche di commedia; di farsa, ma anche di letteratura e poesia; di arance cresciute sotto il sole cocente, ma anche di teatro, di storia e di cinema. Sgalambro, nonostante quello che ad una superficiale lettura può sembrare un mero pensiero contro-corrente, d’avanguardia, pericoloso per certi versi (e infatti non sono mancate negli anni le polemiche, da quella con Claudio Fava, a quella con Sciascia) ci invita a prenderci cura della Sicilia, a guardarci attorno in maniera critica. Non potrebbero suonare più adeguati alcuni versi, da lui stesso composti, della celebre canzone “La Cura” di Franco Battiato:
Ti proteggerò [...] Dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo Dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Oggi più che mai quello di Sgalambro appare come un monito a restare vigili e attenti. 30 anni dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio, infatti, la mafia sembra essere diventata davvero un concetto astratto, al quale troppe volte si fa riferimento come un fenomeno legato esclusivamente al passato. In particolar modo le nuove generazioni, che non hanno vissuto gli anni delle guerre di mafia, devono essere messe in guardia dall’eccessiva semplificazione di una realtà che, contrariamente a quanto si possa pensare, si fa sempre più invadente nelle vite di ciascuno di noi. La mafia oggi non combatte più con gli attentati e le armi da fuoco. La sua arma privilegiata è diventato il silenzio. Il silenzio dell’omertà che coinvolge tutti gli strati della popolazione. Il silenzio della collusione con lo Stato. Il silenzio che avvolge la parola stessa: mafia. Silenzio che può essere infranto grazie all’azione di sensibilizzazione dell’apparato scolastico nei confronti dei giovani che grazie all’aiuto e alla partecipazione dello Stato e delle istituzioni civili, possono diventare portavoce di una rinnovata mentalità, capace di sradicare il fenomeno mafioso in tutte le sue declinazioni dalla nostra bella terra, ma non di dimenticare il nostro comune passato.
“Allora, scoprite anche questa Sicilia che lavora alla cultura, non solo cose orpellanti come le arance o il turismo. La Sicilia detesta la sua storia, la subisce come un fastidioso rumore. Il delitto così o cosà, il superboss e il pentito impiccato. Qual è la vostra Sicilia? Tomasi di Lampedusa o Provenzano?”
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IL VOLTO DELLA GIUSTIZIA
di Giuditta Caradonna (IV H)
Per Platone la giustizia era la risultante di tre virtù fondamentali: la sapienza, la fortezza e la temperanza. Il filosofo sosteneva ai suoi tempi che quando nello Stato le tre classi dei governanti, dei soldati e dei produttori sono armonicamente attive, la giustizia è attuata. Come si può intuire Platone anticipa il concetto di uno Stato armonico e giusto per cui le sue idee coincidono con le idee a noi contemporanee e cioè che deve esserci l’uguaglianza politica e civile. Lo Stato siamo “NOI” in quanto siamo individui liberi di scegliere il Bene e il Male con le conseguenze che ne derivano. Non si tratta solo di osservanza delle regole civili ma di rispetto e di amore per gli altri e per il luogo in cui viviamo. Dovremmo vivere secondo virtù, le stesse virtù cardinali di cui lo stesso Platone ci parla nella Repubblica e cioè sapienza, coraggio, temperanza e giustizia.
L’uomo è un essere dotato di libero arbitrio e come tale le azioni da lui compiute sono il prodotto di ciò che è. Per Socrate il male è frutto dell’ignoranza quindi l’individuo compie atti negativi perché non conosce il bene. Quindi il male diventa errore nel momento in cui l’uomo è lontano dalla virtù che conduce al sapere morale. A questo proposito mi viene in mente un altro grande uomo, martire della mafia, Don Pino Puglisi, ucciso un anno dopo alle stragi di Palermo del 1992, il giorno del suo compleanno. Egli si è impegnato nella propria città e in particolare in un quartiere difficile come quello di Brancaccio. Attraverso delle attività sociali e grazie alla sua opera di evangelizzazione ha cercato di togliere manovalanza alla criminalità organizzata. Non dimenticheremo mai il suo sorriso perché ci ha insegnato che il bene arriva anche laddove sembra non ci sia speranza. Uomini come lui e come Falcone e Borsellino ci aiutano ad alzare la testa e a pensare che non siamo soli. Lo Stato ci aiuta grazie agli eroi di tutti i giorni, che rischiano la vita notte e giorno, che controllano le strade e che ci aiutano quando abbiamo bisogno e cioè tutti gli uomini delle forze di polizia e di carabinieri.
Dovremmo imparare tutti a seguire le virtù prendendo esempio da figure positive che vivono in base alla legge, che come sosteneva anche Platone, non deve servire solo a comandare ma a convincere e persuadere della propria bontà e necessità. Da ciò risulta il fine delle leggi e cioè quello di promuovere nei cittadini la virtù che si identifica, come diceva anche Socrate con la felicità. Le leggi educano i cittadini a comportarsi civilmente non solo per una convivenza pacifica ma anche per un raggiungimento del proprio bene morale ed etico.