Valentina Pistillo e Annalisa Bucchieri
La primavera dell’antimafia
Capaci non è finita con le stragi. Il futuro inizia da qui con gli studenti e i giovani detenuti che hanno prodotto l’olio del Giardino della memoria
Dove quel maledetto 23 maggio del 92 gli oltre 500kg di tritolo fecero saltare in aria vite umane, auto e un pezzo di autostrada che va dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, oggi sorge il Giardino della memoria dell’associazione “Quarto Savona 15”, onlus fondata da Tina Montinaro, vedova del caposcorta di Giovanni Falcone Antonio Montinaro, dal 2018 entrata a far parte dell’Amministrazione come custode della memoria dei caduti della Polizia di Stato. Il Giardino è concepito come uno spazio verde vivo e fertile dove sono stati piantati alcuni alberi di ulivo dai ragazzi dell’Agrario dell’Istituto superiore Majorana, e dai detenuti presso l’Istituto penale per minorenni “Malaspina”, nell’ambito del progetto “Laboratorio Giardino della memoria”, realizzato sotto la supervisione degli ordini professionali degli agronomi e dei carabinieri forestali della provincia di Palermo. Tina Montinaro, insieme ai ragazzi, ha dato vita all’iniziativa che ha fruttato una piccola produzione di olio, l’olio della memoria, che, imbottigliato e benedetto, ha raggiunto tutti gli angoli della Sicilia, in una cerimonia a cui ha partecipato il questore Leopoldo Laricchia: la consegna agli arcivescovi delle diocesi di Palermo e Monreale, al vescovo di Cefalù e dell’Eparca di Piana degli Albanesi, che hanno utilizzato l’olio santo nel corso dell’anno liturgico. «Con l’olio consacrato dal vescovo, che ha un valore spirituale di grande importanza – sostiene Tina Montinaro – riceverà il sacramento del battesimo anche la figlia di pochi mesi dell’architetto Fabrizio Cassibba che ha realizzato il Giardino, insieme a Valentina Careri e Michele Giletto, ridando vita a un’area che è stata teatro di un episodio tragico per il nostro Paese».
L’olio di Capaci è metafora di continuità tra i caduti del tragico attentato e i giovani, simbolo di rinascita. Poliziamoderna ha raggiunto aI Giardino i professori dell’Istituto superiore Majorana, chespiegano l’organizzazione del laboratorio: «Della parte grafica e di design dell’etichettatura dell’olio si sono occupati i ragazzi del Liceo artistico, mentre quelli dell’Agrario, insieme ai ragazzi del carcere minorile, hanno curato la raccolta, la molitura e la potatura degli ulivi. Sempre affiancati da noi insegnanti e dall’ordine degli Agronomi, con l’assistenza di Coldiretti». Intervengono Tancredi e Germana, 18 anni, del Liceo artistico: «A scuola si parla sempre della mafia e insieme ai docenti abbiamo partecipato a incontri e iniziative, come quella su Peppino Impastato. Ci hanno proposto il laboratorio dell’olio come Ptco, l’alternanza scuola lavoro, una iniziativa di legalità della nostra Terra. La percezione della mafia per noi della nuova generazione è diversa rispetto a 30 anni fa, la sentiamo meno perché è meno eclatante». Si avvicinano Marco, 16 e Sasha, di 17 anni dell’Agrario: «Abbiamo messo in campo tutto quello appreso durante gli anni scolastici, grazie ai nostri insegnanti e siamo molto entusiasti delle tante iniziative formative proposte, come quella dell’olio: abbiamo voluto assaggiarlo subito, ha un sapore deciso. Come resistergli: era appena spremuto e in più realizzato con le nostre mani». Natalia Santoro e Massimo Bertolino dell’Agrario hanno coordinato gli studenti: «Come fine ultimo di questo percorso didattico, gli studenti pianteranno le talee delle piante aromatiche che hanno iniziato a coltivare nella serra della scuola, in un progetto a tappe: il primo tratto quest’anno verrà decorato con il rosmarino, poi la bordura del viale avrà le piantine di lavanda, di salvia, origano, ecc... Gli stessi studenti si sono radunati qui al Giardino il 23 maggio, per partecipare alla manifestazione del Trentennale che ha avuto un grande impatto mediatico. Su suggerimento di Tina, alle 17.58, il momento della tragica esplosione di 30 anni fa, sono stati letti i nomi delle vittime: i ragazzi hanno indossato una maschera, disegnata da loro e montata su un’astina, con il volto degli agenti di polizia morti a Capaci e hanno esclamato “Presente!”». «Vivere il Giardino della memoria – continuano i docenti – significa avere un ricordo costante delle vittime della mafia. Quello dell’olio non è stato solo un laboratorio pratico ma anche un modo per fare educazione civica e alla legalità. Quest’anno abbiamo lavorato con La casa di Paolo e Addiopizzo insieme alla collega di educazione civica». Il referente del Liceo artistico, Calogero Campo, sottolinea: «I miei studenti hanno realizzato anche un Qr code, associato a ogni albero di ulivo: inquadrandolo con il cellulare, è possibile leggere la biografia di ogni vittima di mafia a Palermo». «Papa Francesco, percorrendo l’autostrada A29 in direzione dell’aeroporto – aggiungono Germana e Tancredi – si è fermato all’altezza della stele commemorativa a Capaci. Per vederlo, molte persone si sono radunate nel Giardino e noi studenti abbiamo scelto una foto dell’evento per l’immagine dell’etichetta da mettere sulla bottiglia dell’olio, optando per uno sfondo azzurro, colore che ha una duplice valenza: è il colore della Madonna ma ricorda anche quello della Polizia di Stato, di cui facevano parte le vittime». Commenta Paolo Venturella, docente dell’Artistico: «Il lavoro con i ragazzi si è sempre svolto in un clima sereno e di collaborazione, grazie al buon rapporto che hanno con tutti i docenti. Abbiamo realizzato anche un progetto social, con alcune foto del laboratorio dell’olio in “still life” ». «L’utenza di questo enorme istituto professionale – conclude Natalia Santoro – è particolare: gli studenti che lo frequentano hanno spesso un disagio socio-economico e culturale. Talvolta anche logistico, perché molti provengono dai paesi dell’hinterland, privo di servizi, dove l’unico mezzo di trasporto è quello dei pullman con enormi difficoltà per gli spostamenti e per gli orari limitati dei trasporti, a causa delle strade tortuose e il traffico congestionato in entrata a Palermo. Lavorando in un contesto del genere non ci può limitare a svolgere la lezione, ma si deve proporre anche una didattica alternativa: non siamo solo docenti, quindi, ma diventiamo all’occorrenza anche mamme e sorelle. I ragazzi però danno soddisfazione, sono sensibili e volenterosi, cercano di applicarsi al meglio per crearsi anche un futuro, in una terra ostile dove manca il lavoro». Disagiati e provenienti da contesti a rischio sono anche i giovanissimi detenuti, presso l’Istituto penale per minorenni “Malaspina” di Palermo, di cui Poliziamoderna ha varcato la soglia. Alcuni di loro hanno partecipato al laboratorio del Giardino della memoria. Ci ricevono le educatrici del carcere, incardinato nel Dipartimento di giustizia minorile e comunità, Myriam Barrale, e Laura Costa, che precedentemente ha collaborato con l’associazione Libera. Funzione importante la loro: «Abbiamo l’impegno della rieducazione, che noi amiamo definire meglio come “educazione”, visto che parliamo di minori: hanno commesso reati fino ai 18 anni meno 1 giorno. Per la maggior parte i detenuti appartengono a un tessuto socio-culturale che è quello palermitano ma c’è anche un’utenza straniera. Provengono da quartieri a rischio devianza,come Zen 1 e Zen 2, Brancaccio, Kalsa, Zisa, Sperone e Noce, realtà spersonalizzate e degradate, anche dal punto di vista urbanistico. Lo Stato qui, purtroppo, non viene percepito come presente per cui, negli spazi rimasti liberi, si infilano criminalità e cultura mafiosa. Alcuni di questi ragazzi sono stati già coivolti in iniziative di legalità, come l’evento all’aula bunker dell’Ucciardone, per i 30 anni della Dia, a Palermo. Subito dopo il lockdown, il “vulcano” Tina Montinaro, come amiamo chiamarla, fece una proposta con la sua associazione: quella di portare al Giardino di Capaci alcuni dei ragazzi detenuti i quali, in base all’ordinamento penitenziario potevano uscire con l’articolo 21, che prevede l’attività formativa e lavorativa all’esterno, per fare volontariato, si fossero occupati del Giardino due giorni a settimana. Inizialmente – affermano le due pedagogiste – dubitavamo che i ragazzi potessero aderire all’iniziativa. Per i giovani che crescono in quartieri dove la polizia è concepita come il nemico, perché arresta o stacca la luce che è stata agganciata abusivamente, nell’immaginario collettivo, farsi vedere accanto a uno con la divisa è molto complesso. Noi lavoriamo a stretto contatto con i colleghi della polizia penitenziaria che all’interno del carcere è in borghese: l’impatto è diverso, sono persone con cui loro vivono a stretto contatto per 24 ore e, di fatto, a parte quando mettono loro le manette per fare le traduzioni e controllarli di sera se stanno dormendo, sono sempre lì accanto, e se i detenuti hanno un attacco di ansia, hanno bisogno di acqua o di parlare un po’, sono presenti: rappresentano in qualche modo gli adulti di riferimento. Un giorno è arrivata Tina con i poliziotti e abbiamo pensato subito che i detenuti boicottassero l’attività di giardinaggio che lei voleva proporre loro. Invece, li ha persuasi, dicendo: “So che voi se, da una parte potreste rappresentare chi mi ha dato grande dolore, essendo ipoteticamente figli o nipoti di criminali, siete però senza colpa rispetto a quel tragico evento. Sarebbe bello condividere la mia esperienza tragica con la vostra, che è comunque di dolore, visto che vivete reclusi, poiché quantomeno avete percorso un’esperienza di vita complessa e con molti problemi”. Tina ha fatto scattare in loro la curiosità e il giudice ha autorizzato tre ragazzi maggiorenni, che si erano dimostrati disponibili, responsabili di reati contro il patrimonio, come rapine, furti e spaccio, con la posizione giuridica definitiva, che si avviavano a percorsi verso l’esterno. È più difficoltoso organizzare le attività per i minorenni che hanno la custodia cautelare, perché hanno più restrizioni. La loro permanenza qui al “Malaspina” dura da qualche mese a 6 anni. Era un pomeriggio di due anni fa – riprendono il racconto le educatrici – l’aria era torrida, ad accoglierli al Giardino c’erano due poliziotti in divisa, ma li avevamo già tranquillizzati. Tina si è presentata e hanno cominciato a interagire raccontando le loro esperienze e origini. Alcuni tra questi – aggiunge Myriam Barrale – hanno fatto dei percorsi di apprendistato lavorativi, come quello per lavorare all’interno del biscottificio del “Malaspina”, con il progetto “ Cotti in fragranza”, iniziato nel 2016, che distribuisce on line i prodotti e in alcuni supermercati. Molti sono attratti dalla possibilità di poter uscire, questo è l’escamotage che usiamo per coinvolgerli, indirizzandoli poi verso proposte didattiche ed educative. Nell’ambito del progetto Ora tu cuntu (Ora te lo racconto), in occasione del 23 maggio, abbiamo invitato Fabio Lo Bono, autore di un fumetto sui 57 giorni che sono passati tra la morte di Falcone e quella di Borsellino. Per il laboratorio dell’olio di Capaci ha partecipato un altro detenuto diciottenne: purtroppo i ragazzi non hanno sempre dei percorsi lineari. Prima si impegnano per riscattarsi, poi si comportano in modo disastroso vanificando il percorso fatto, perdendo preziose opportunità o i permessi premio e si deve ricominciare tutto da capo. Spesso sono smarriti, come è capitato a uno di loro che si è sentito male, dopo esser rientrato dalla visita al Giardino. Aveva respirato a pieni polmoni “troppa libertà”, ci ha riferito, raccontandoci degli alberi con i nomi delle vittime innocenti della mafia. Tutti quelli che andavano a lavorare sodo nel parco rimanevano colpiti dall’esperienza e al ritorno passavano sempre a salutarci. Per loro rappresentiamo delle figure di riferimento, a seconda delle circostanze, anche se spesso dobbiamo adottare più polso: tutto questo concorre a compensare quelle mancanze, quei bisogni, quasi primari che hanno, di accudimento, spesso assenti nelle loro famiglie. L’approccio antimafia vero è quello che usiamo tutti i giorni – sostiene Laura Costa – con i ragazzi che hanno una subcultura ormai sovrapposta a quella della legalità: per loro è un aiuto alle famiglie. Non è semplice scardinare questa convinzione, destrutturare i rapporti anche con padri e parenti criminali». «Seguo un ragazzo che è rimasto colpito dalla frase di Impastato “ La mafia è una montagna di merda” – racconta Myriam Barrale – voleva organizzare incontri per sensibilizzare gli altri detenuti, un atteggiamento positivo e apprezzabile, ma quando poi lo inducevo a ragionare sulle sue azioni quotidiane, che si discostavano dalla normalità, come i piccoli comportamenti di sopraffazione nei confronti degli altri detenuti, che si possono ricondurre tranquillamente a un atteggiamento di tipo mafioso, prevaricatore nei confronti del più debole, rimaneva spiazzato. Non è semplice sensibilizzarli contro la mafia, occorre lavorare con loro gradualmente. Per farli ragionare spieghiamo loro cosa sia la mafia qui in Sicilia. È il favore sottobanco, è l’aggirare le regole, il prevaricare il più debole. Poiché, da noi, la cultura mafiosa è naturalmente interiorizzata: agiamo spesso così,nel nostro quotidiano, con comportamenti che possono essere definiti “mafiosi”, anche se poi comunemente la mafia è intesa come quella stragista, delle bombe del 1992, un tema che non li interessa poi più di tanto. Passiamo poi ad analizzare con loro quale sia la percezione attuale del fenomeno, quanto oggi si sia infiltrato nella società, nell’economia, nell’ambiente e nello smaltimento dei rifiuti, distruggendo la qualità della nostra vita e di conseguenza quella del loro futuro. Secondo la loro opinione la mafia non tocca donne e bambini e in carcere discutono del codice d’onore interno all’organizzazione. Quando invece cominciamo a scavare, sul piano emotivo, riusciamo a individuare la chiave che apre la loro anima come, per esempio, il racconto sulla scomparsa del figlio del pentito Santino Di Matteo, Giuseppe, sciolto nell’acido. Questo episodio fa cambiare loro atteggiamento perché, nella piccola vittima riconoscono un fratello o un amico. Altro episodio che li ha colpiti è stata la visione straziante dei resti dell’auto accartocciata nella teca del Giardino. Tina ricorda sempre che non ha potuto piangere il cadavere di suo marito, perché di lui non era rimasto più nulla e il racconto desta molta emozione. Un altro metodo, suggerito dalla mia collega Laura, è quello di leggere ai ragazzi gli atti dei processi e i racconti di come le vittime siano state martoriate negli attentati, con dettagli da brivido che feriscono nel profondo.Sono proprio questi particolari che evidenziano come esseri umani facciano del male ad altri esseri, unicamente per un potere effimero, visto che i mafiosi poi vengono arrestati e passano un’intera esistenza in carcere, in isolamento, in regime di 41 bis, senza mezzi, soldi e senza più potere». «Quando poi parliamo loro delle vittime come uomini che stavano facendo il loro dovere e non come se fossero eroi, ma principalmente come padri, figli, mariti che stavano lavorando con la stessa dignità di chi fa qualsiasi mestiere, solo in questo modo, insieme a Tina, riusciamo a far breccia nei ragazzi». «Il nostro è un impegno continuo – concludono – li incontriamo giornalmente in colloqui anche individuali, seguiamo il loro percorso sia dal punto di vista educativo che della rivisitazione critica: sui loro reati subentriamo anche noi educatrici, dovendo riferire il comportamento all’Autorità giudiziaria.
Cerchiamo anche di favorire l’ equilibrio tra di loro, spiegando di mitigare il loro atteggiamento, di non compiere sopraffazioni, prepotenze e disparità con gli altri detenuti. Ribadiamo che il loro lavoro è come quello degli altri: si timbra il cartellino, non ci si sottrae dagli impegni e si collabora con i colleghi, senza distinzione di razza e cultura. Sembrano esempi banali, ma efficaci dal momento che questi ragazzi non hanno mai avuto un modello familiare da seguire».