Cristiano Morabito

Fuga dall’inferno

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L’emergenza legata alla guerra in Ucraina e l’arrivo dei profughi nel nostro Paese: il lavoro in prima linea della polizia dell’immigrazione e delle frontiere

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I numeri, nella loro freddezza sono altrettanto precisi e, purtroppo, parlano chiaro: secondo fonte Unhcr sarebbero oltre 5 milioni di persone che, dall’inizio di quella che Vladimir Putin ha definito “operazione speciale” (per favore chiamiamola col suo nome, ossia “guerra”), sono state costrette a lasciare le proprie case, la propria terra e i propri averi per scappare dal conflitto che, ormai da due mesi, sta mettendo a ferro e fuoco l’Ucraina.

Una guerra che, nel 2022, sa tanto di “guerra antica”, fatta di trincee, combattimenti casa per casa, rastrellamenti, bombardamenti su obiettivi sia militari che civili, così come accaduto nei primi due conflitti mondiali, senza l’utilizzo (ancora…) di armi particolarmente sofisticate, ma comunque tanto letali che l’esercito con le “Z” dipinte sui carri armati sta lasciando, ad ogni suo passaggio, dietro di sé morte e distruzione: Mykolaïv , Bucha, Mariupol, Kherson, Odessa e, in parte, Kiev, sono oggi l’emblema di una guerra tremenda in cui il popolo invaso cerca di contrastare il “Golia” russo, interessato a mettere le mani su una terra ricca di risorse e che gli permetterebbe di avere uno sbocco importante sul Mar Nero.

Sono dunque tantissime le persone che dall’Ucraina si sono riversate, in varie ondate, verso l’Europa, cercando salvezza, protezione ed ospitalità almeno fin quando i cannoni non cesseranno di tuonare; tra loro soprattutto donne, anziani e bambini, anche perché gli uomini in età compresa tra i 18 e i 60 anni, in età arruolabile, sono rimasti a combattere per difendere la propria terra. Un vero e proprio fiume di persone che, dopo un primo approdo nella vicina Polonia, si sono dirette verso i Paesi del vecchio Continente, con in tasca un documento e, nella maggior parte dei casi, un indirizzo al quale arrivare, dove avrebbero potuto trovare accoglienza da parenti, amici e conoscenti già residenti da tempo al di fuori dell’Ucraina.

E così è stato anche per l’Italia che, attraverso la “via principale” dei varchi di frontiera in Friuli, si è trovata a dover fronteggiare un’emergenza immigrazione improvvisa e imponente. 

La “macchina dell’immigrazione” si è immediatamente messa in moto, assestandosi e perfezionandosi strada facendo, con a capo la Direzione centrale per l’immigrazione, al cui vertice, da meno di un anno, c’è Giuseppe De Matteis.

«Quel che mi ha sorpreso da subito, pochi giorni dopo essermi insediato, è stato l’ambiente che ho trovato qui alla Direzione centrale dell’immigrazione e della polizia delle frontiere, con personale altamente qualificato (qui ci sono agenti che parlano anche cinque lingue), ma soprattutto un’apertura mentale che si rileva come essenziale per affrontare un tema variegato e difficile come quello dell’immigrazione. Una mentalità che ci ha aiutati molto e che è stata fondamentale anche per affrontare l’emergenza legata ai profughi provenienti dall’Ucraina». 

Quali sono stati i primi accorgimenti adottati all’inizio dell’emergenza?
Operando in area Schengen, non possiamo controllare a tappeto tutte le persone che arrivano da un Paese che aderisce al Trattato. Per ovviare a questo problema e controllare e identificare tutti i cittadini ucraini, siamo partiti da una constatazione: in questo momento in Ucraina vige la legge marziale, quindi i maschi adulti tra i 18 e i 60 anni non possono lasciare il Paese, infatti il flusso è stato composto in massima parte da donne, da minori e anziani. Tecnicamente, abbiamo creato una deviazione in prossimità dei valichi di frontiera con un restringimento della carreggiata, deviando chi proveniva dall’Ucraina e assistendolo in una piazzola di sosta dedicata, grazie anche alla collaborazione della Protezione civile, fornendo generi di prima necessità, acqua, cibo e anche cure sanitarie. Questo ci ha permesso di identificare compiutamente tutti gli ucraini che sono arrivati sul territorio nazionale o tramite la frontiera aerea o tramite la frontiera terrestre. Dopodiché siamo stati attenti a diramare subito due disposizioni: la prima, identificare tutti gli ucraini (ad oggi oltre 100.000, in gran parte donne e minori); la seconda, assicurarci che effettivamente i minori, accompagnati dai genitori, fossero loro figli o parenti e qui ci siamo avvalsi anche dei mediatori di lingua ucraina che si sono occupati delle interviste ai minori, confermando che effettivamente fossero figli delle persone che li accompagnavano. 

Ci sono stati momenti difficili?
Abbiamo avuto dei momenti di crisi perché, soprattutto all’inizio, alcune associazioni di volontariato hanno organizzato dei pullman per andare in Ucraina a prelevare alcuni orfani, che erano già tali prima dello scoppio della guerra, il che ha creato non pochi problemi di gestione, perché secondo la normativa vigente in Italia un minore deve essere accompagnato o da un genitore o da un tutore, che però sia tale secondo la legge italiana. In molti casi, per sbloccare l’impasse, è stato fondamentale l’apporto del giudice del Tribunale per i minorenni che ha nominato in alcuni casi un tutore, molto spesso un responsabile dell’associazione. 

Tuttavia, un’immigrazione diversa dal solito e che ha previsto la collaborazione tra varie Istituzioni…
Per quanto riguarda il flusso, è molto diverso da quello proveniente dal Nordafrica, dove essenzialmente sono maschi adulti che vengono in Italia per trovare più che altro una sistemazione, anche di tipo lavorativo. Nel caso dei profughi ucraini, abbiamo avuto a che fare con donne che inviavano qui da noi i propri figli per affidarli a connazionali già residenti in Italia che attualmente sono 248.000. Da subito, proprio per ovviare a questo, abbiamo avviato, attraverso questure e prefetture un’interlocuzione: l’Unione europea ha attualizzato per gli ucraini una direttiva degli inizi degli Anni 2000, che prevedeva la protezione temporanea, ossia un “corridoio” per far sì che potessero chiedere una protezione con una scadenza, in attesa di definizione della situazione. E poi c’è stato il grande impegno dell’accoglienza, che è stato curato dal Dipartimento delle libertà civili del ministero dell’Interno e che ha organizzato una vera e propria rete, mettendo insieme sia le prefetture sia i comuni. In questo modo è stato gestito il primo impatto, perché a circa un mese e mezzo dall’inizio dell’invasione russa, abbiamo avuto un numero di migranti già superiore rispetto a quello dello scorso anno riguardante il flusso irregolare (nel 2021 circa 77.000 persone, arrivate essenzialmente dalla rotta del Mediterraneo centrale e orientale, mentre dopo soli due mesi del 2022 sono stati ben 84.000 solo gli ucraini arrivati in Italia). 

In un primo momento sono giunte persone che avevano già parenti o riferimenti in Italia; chi invece arriva senza avere un punto di riferimento, come viene gestito?
Vengono destinati alla rete d’accoglienza per avere anche le dovute informazioni. Abbiamo preparato un volantino (redatto in inglese, ucraino e italiano) che contiene informazioni su assistenza, logistica, assistenza sanitaria e regolarizzazione della loro posizione ed è stato concordato con Protezione Civile, Dipartimento Libertà Civili e Aziende Sanitarie. Sin dall’inizio abbiamo focalizzato l’attenzione su un aspetto fondamentale, ossia la comunicazione, per fare sì che ogni cittadino che arrivasse sul nostro territorio avesse un solo tipo di informazione concordata tra i vari ministeri, perché altrimenti ci sarebbe stata una frammentazione della comunicazione a livello territoriale che avrebbe generato disorientamento. Un sistema che ha funzionato molto bene, tanto che poi tutti i cittadini ucraini arrivati qui da noi sanno esattamente cosa fare.

Ci sono stati casi di annunci di false offerte di lavoro sui social e sulle piattaforme di messaggistica come Telegram. C’è un allarme criminalità organizzata?
Assolutamente sì e su questo fenomeno abbiamo puntato il nostro sguardo in modo molto attento fin dal primo giorno. La criminalità organizzata è sempre attenta a studiare nuove “forme di investimento” e abbiamo già delle segnalazioni in tal senso. Presto avremo un problema: per ora tutti gli ucraini che sono arrivati avevano un passaporto elettronico, quindi con dati biometrici e fotografie, a breve avremo persone che si presentano senza documenti e magari accompagnando dei bambini, dei minori o delle donne. Dovremo stare attenti sin da ora a cercare interlocuzioni con le autorità ucraine, soprattutto per poter identificare chi arriverà. Se il flusso dovesse aumentare perché la situazione in Ucraina dovesse degenerare, allora dovremo essere pronti e attenti e vigilare su possibili fenomeni come quello del traffico di esseri umani, soprattutto minori.

Arrivano anche persone provenienti dall’Ucraina ma di altre nazionalità?
Ancora no. All’inizio abbiamo gestito flussi anche di oltre 4.000 persone al giorno, oggi è notevolmente sceso e si è ridotto ad un terzo. Chi arriva ora ha bisogno anche di assistenza logistica, cosa che prima non avveniva perché chi arrivava sapeva già dove e da chi andare. È stato lanciato un allarme sulla tratta dei minori, ma ad oggi è importante dire che non abbiamo alcun riscontro in merito. Attualmente registriamo poco più di 400 minori ucraini non accompagnati. 

C’è stato un impiego straordinario di personale dovuto all’emergenza? 
Assolutamente sì. Per fare un esempio, alla questura di Roma solitamente in un anno arrivano 140.000 richieste di permesso di soggiorno; in questi giorni devono far fronte ad una richiesta quotidiana di circa 450. Quindi, il carico di lavoro è esponenzialmente aumentato ed eravamo già in emergenza perché il Covid ci ha impedito di intervistare gli aventi diritto. Ma il primo impatto vero e proprio è stato subito da chi è in prima linea, ossia da chi lavora in frontiera; però siamo “attrezzati” per l’emergenza: abbiamo semplicemente in qualche caso messo dei turni in più di vigilanza, aggregato del personale da frontiere meno impegnate, essenzialmente nel Meridione, e l’abbiamo inviato a supportare quelle che, in questo momento, stanno subendo il carico di lavoro più importante. Il meccanismo vincente è stato quello di deviare il flusso degli ucraini verso delle piazzole così da controllare tutti, senza intasare il traffico ordinario. Ci ha aiutato molto il fatto che i primi arrivati avessero tutti il passaporto in regola, che è stato controllato agevolmente dal personale di frontiera direttamente dai telefonini, con un’app dedicata che legge il codice a barre presente sui documenti e grazie alla quale in tempo reale riusciamo ad ottenere tutti i dati che ci servono.

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VOCI DI FRONTIERA

Trieste, Gorizia e Tarvisio sono i tre principali punti di ingresso al nostro Paese, dove si sono riversati più di 100.000 profughi ucraini. Le testimonianze dei poliziotti impegnati sul campo.

Trieste “Fernetti”
Dopo trent’anni in polizia si pensa di aver visto qualsiasi cosa e invece poi succede qualcosa che ti fa subito ricredere. In una situazione del genere, sarebbe facile essere arrabbiati con chi sta distruggendo il tuo Paese, ma quel che più mi ha colpito negli occhi e nelle poche parole scambiate con alcune delle oltre 1.500 persone che giornalmente, all’inizio del conflitto, hanno attraversato questa linea di confine per mettersi in salvo e raggiungere in Italia un parente o un amico che li potesse ospitare, è stata la profonda dignità e fierezza, nonché il desiderio di ritornare presto in patria. E poi loro, i bambini: tanti, tantissimi da soli o in compagnia di mamme o parenti, ma tutti con un papà rimasto a combattere per il proprio Paese e che non avranno la sicurezza di rivedere quando potranno tornare in patria. Nonostante la situazione in alcuni momenti fosse anche un po’ caotica, c’era comunque silenzio, un silenzio che, però, faceva un gran rumore…
Robert Zenic – Vice ispettore

Gorizia "Casarossa”
Il lavoro in frontiera permette di entrare in contatto con altre culture, di scoprire usanze, di conoscere le storie della gente. Mai come stavolta ho avuto l’occasione di toccare con mano la paura e lo smarrimento delle persone. Il nostro lavoro è quasi sempre lo stesso, scandito dalla routine quotidiana di un posto di confine, ma la guerra in Ucraina ha cambiato di molto i nostri canoni. Una nonna abbracciata al suo nipotino che ha appena perso entrambi i genitori in Ucraina; le manine di un gruppo di orfani che ci salutano felici e arrivati in pulmino, grazie ad un avvocato di Vercelli che fa la spola con l’Est per mettere in salvo bambini rimasti senza casa, perché l’orfanotrofio in cui erano ora è solo un cumulo di macerie; Colia, un bambino 13 anni, che da Mariupol da solo è scappato a piedi in Polonia per poi venire qui da noi, con quello sguardo “perso” che non potrò mai dimenticare. Queste sono le nostre “storie di confine”.
Antonella Ussai – Assistente capo coordinatore

Tarvisio “Malborghetto-Valbruna”

Vedere la fotografia di una casa che brucia e capire che quell’immagine non è in un telegiornale o è stata scaricata da Internet, ma è stata scattata da chi ti sta porgendo il suo telefonino per guardarla, non accade tutti i giorni. Ma qui da noi è capitato spesso, ultimamente, da quando negli ultimi due mesi tante persone sono scappate dalle loro case per trovare rifugio lontano dalla guerra. Un popolo orgoglioso, quello ucraino: raramente ho visto persone piangere in questi giorni, anche se con loro avevano portato ben poche cose, probabilmente le uniche che sono riuscite a salvare dalle loro case che hanno dovuto lasciare in fretta e furia; come quella coppia di anziani che, dopo aver passato la procedura di identificazione, ci disse: “Noi non sappiamo cosa fare e dove andare: non abbiamo più nulla”. Frasi che toccano cuore e anima e ci hanno fatto attivare subito per trovargli un posto in cui dormire e un tetto sopra la testa.
Marco Paruzzi – Vice sovrintendente

12/05/2022