Cristiano Morabito
Reporter in trincea
Primo giornalista arrivato a Mykolaïv, Daniele Piervincenzi ci racconta la sua esperienza al fronte
Quasi due mesi passati in Ucraina per raccontare la guerra e ora, dopo una breve pausa, di nuovo a Mykolaïv a documentare quanto sta accadendo. Abbiamo raggiunto Daniele Piervincenzi con una videochiamata durante uno dei pochi momenti di riposo in albergo, per farci capire come, tra media tradizionali e nuove forme di comunicazione, sia cambiata la professione del reporter di guerra sul campo.
«Sono arrivato a Mykolaïv alla fine di febbraio, mentre imperversava una vera e propria bufera di neve che rendeva quasi proibitivo il viaggio. Mi ero attrezzato con una macchina adeguata alle intemperie, ma ci ho messo tantissimo per poi rendermi conto che tornare indietro sarebbe stato impossibile, perché la strada era diventata impraticabile. Così, da primo giornalista giunto sul posto, è iniziata la mia prima settimana a Mykolaïv, con i russi che iniziavano a colpire i quartieri civili, soprattutto quelli ad alta densità abitativa, per preparare l’assedio che si sarebbe completato la settimana successiva. Mykolaïv ha vissuto le prime due settimane e mezzo di guerra in cui ci si aspettava cadesse da un giorno all’altro. Poi, dopo le cluster bomb lanciate sui quartieri della città per spaventare e far sparire la popolazione locale (passata in poco tempo da 500mila a poco più di 100mila) c’è stato un momento spartiacque: un missile ipersonico, fino ad allora mai usato dai russi, ha colpito una caserma dei fucilieri di Marina alle sei di mattina. Erano in 500 lì dentro… Sono arrivato sul posto poco più di un’ora dopo, insieme a un fotoreporter italiano e a un inglese della CNN: abbiamo indossato i giubbotti antiproiettile con la scritta “Press” e, senza che nessuno ci fermasse, siamo entrati e arrivati fino al cratere dell’esplosione. Ho contato personalmente 45 morti a una prima occhiata, cifra diramata successivamente dai canali ufficiali ucraini e rimasta tale fino alle 21 di quel giorno, ma mancavano ancora tutti quelli rimasti sotto le macerie… ed erano molti, molti di più; ci sono voluti due giorni per tirarli fuori quasi tutti. Questa è stata la svolta, perché ha ingenerato un sentimento di rivalsa nell’esercito ucraino tanto da iniziare la controffensiva, sostenuta anche dalle informazioni dell’intelligence occidentale rivelatisi preziosissime. Qui non sono arrivate le armi europee, devono sbrigarsela con quel che hanno a disposizione; non è raro, infatti, vedere soldati ucraini smontare pezzo per pezzo i carri armati russi rimasti sul campo, per recuperare munizioni, armi, carburante e pezzi di ricambio. Sembra una guerra di altri tempi, di posizione e non più di movimento, che per gli ucraini, esperti in tecniche di guerriglia “mordi e scappa”, qui a Mykolaïv si sta rivelando la giusta strategia per sorprendere l’esercito avversario, tanto da riuscire a ricacciare indietro tre battaglioni russi, liberando di fatto la città, che ha ricominciato parzialmente ad avere una vita normale. Hanno anche riaperto alcuni negozi. All’inizio, di aperto, c’era solo l’obitorio».
Come si racconta una guerra?
Per certi aspetti è come una guerra di ottant’anni fa: capita di entrare in bunker nei quali viene bruciata la legna per scaldarsi e un boiler dell’acqua sempre calda per preparare il the o dove i soldati, tra una turnazione e l’altra sulla linea di tiro, vanno a riscaldarsi le mani per poi tornare in trincea, cosa che per noi “uomini moderni e tecnologici” sembra essere uscita dalle pagine di un libro di storia. All’inizio era una guerra di logoramento, adesso si è trasformata in una guerra di movimento e, chi la racconta, deve essere in grado di capire quando questo movimento stia per concretizzarsi per non perdere momenti importanti. È quel che ho cercato di fare finora per dare un resoconto quotidiano di quel che mi accade sotto agli occhi, perché riportare solamente alcune fonti può risultare “scivoloso”: le informazioni sono frammentate e non si sa mai di chi fidarsi. A quel punto, ho fatto quel che mi hanno insegnato quando ho iniziato questo mestiere, la mia regola aurea: riportare quello che ho visto, raccontare quel che ho vissuto. In questa guerra non è possibile fare previsioni, se non a brevissimo termine. Si racconta usando i media tradizionali, quelli che ci hanno accompagnato per tutta la carriera, ma ci sono anche i nuovi media, le forme digitali dei social e di comunicazione alternativa, che qui da strumento divulgativo sono diventati anche strumenti di propaganda. Un modo di comunicare diverso, forse più difficile da decifrare per chi ha la nostra età, ma per le nuove generazioni questa guerra è stata raccontata più via social che non attraverso il racconto del giornalista al fronte, con il pericolo di recepire una comunicazione di parte o propagandistica…
C’è chi ha dei dubbi su quello che sta accadendo o che addirittura pensa sia tutta un’invenzione dei media.
Con queste persone mi confronto quasi quotidianamente perché mi arrivano messaggi di ogni genere, che potremmo ricondurre a tre categorie: i “troll” filorussi, sicuramente il livello più basso; poi ci sono quelli che, attraverso un processo psicologico che stento a comprendere, rifiutano l’orrore della guerra al punto da doverne giustificare l’allontanamento, ritenendo che sia addirittura un set cinematografico. In quest’ultimo caso, la frase tipica è “Quello che mi stanno facendo vedere è una realtà artefatta che serve per gli scopi dei potenti”: persone fragili che, pur di tenere a distanza l’orrore dalle loro menti, processano le informazioni in questo modo. Infine, ci sono coloro che negano in maniera strumentale, perché hanno degli interessi o hanno una visione ideologica che purtroppo non coincide con questa realtà. Noi che abbiamo vissuto le guerre attraverso libri, film o i racconti dei nostri nonni, non possiamo comprendere cosa sia provare una guerra sulla propria pelle, se non stando sul campo o credendo a chi la racconta.
Hai visto tanta gente andar via, lasciare le proprie case, lasciare tutto…
Ho visto di peggio: ho visto donne partire senza i mariti, ho visto figli salutare il padre che andava a combattere, senza sapere se lo avrebbe più rivisto, cose che, pensando da genitore, ti strappano letteralmente via il cuore. Ci ho messo giorni a metabolizzarlo e se ci penso ancora oggi mi destabilizza, perché uno degli effetti della guerra è stato quello di separare le famiglie ed è un dolore insanabile e, a lungo andare, tutto questo non farà altro che radicalizzare il confronto Russia-Ucraina che potrebbe proseguire per generazioni, perché in questa situazione sta crescendo il senso patriottico e nazionalista anche in chi prima qui poteva considerarsi filorusso.
Se dovessi scattare un’istantanea di questa tua esperienza.
Nel momento peggiore in cui mi sono trovato nel posto più sbagliato, un ragazzo, che avrà avuto sì e no vent’anni, ma che già aveva combattuto sul fronte del Donbass, mi ha aiutato e tranquillizzato dicendomi: “Non ti preoccupare, vieni con me; ti preparo una zuppa calda e aspettiamo che finisca il bombardamento…”. Qui, in questi luoghi, una semplice stretta di mano sancisce qualcosa di importante e profondo. A quel che ho ricevuto qui, da questa gente, nel mio piccolo tento di restituire una verità dovuta in questa piccola porzione di territorio al fronte, a due passi dal Mar Nero.