Lirio Abbate*

Quei giorni delle stragi

CONDIVIDI

A 30 anni di distanza un giovane cronista dell’epoca, oggi direttore de "L’espresso", ricorda i tragici attentati di Capaci e via D’Amelio

anniv1 05-22

Gli Anni ’90 non sono stati solo quelli di Tangentopoli, del conflitto tra i Paesi dell’ex Jugoslavia o della Guerra del Golfo. Anche i fatti drammatici che proprio in quel periodo storico hanno insanguinato la Sicilia, la famosa stagione degli attentati del ’92, hanno avuto una grandissima eco, in grado di attirare giornalisti da ogni parte del mondo. Ancora oggi, a 30 anni di distanza da quei tragici avvenimenti, il direttore de L’Espresso, Lirio Abbate, si ritrova a scrivere di nuovo di mafia e a ripercorrere i primi passi mossi da giovane cronista di un quotidiano siciliano locale, quando ancora al nome di Salvatore Riina occorreva far precedere la dicitura “presunto capomafia”.

«A vent’anni mi catapultarono nella redazione della cronaca nera, quella giudiziaria e imparai il mestiere dai colleghi che mi insegnarono la scuola della “strada”: assistevo ai primi delitti, anche se all’epoca era complicato parlare di mafia sui quotidiani. I processi al palazzo di giustizia di Palermo spesso si concludevano per insufficienza di prove e gli imputati, appena assolti, mi camminavano accanto, fuori dall’aula, con aria trionfante. La storia cambiò grazie al primo maxi processo a “Cosa nostra”: centinaia di imputati per mafia, per la prima volta, venivano accusati di essere i mandanti di delitti eccellenti e tra loro anche molti boss che all’epoca erano già latitanti, come Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Luciano Liggio. Per un giovane cronista come me, esistevano però due personaggi che avevano una marcia in più e avevano dato una svolta giudiziaria alla lotta alla mafia: i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Erano gli anni del pool antimafia capitanato da Antonino Caponnetto, che, grazie a un team di magistrati straordinari aveva dato vita ad atti e istruttorie per un nuovo articolo del codice penale: il 416 bis, l’associazione mafiosa. Per chi voleva liberare la Sicilia dall’oppressione di Cosa nostra, Falcone e Borsellino erano i protagonisti, e lo sono stati per 30 anni, della storia criminale del Paese: per me divennero un “faro”, come appellava lo stesso Falcone anche Tommaso Buscetta, il primo pentito di Cosa nostra, che ne aveva intuito il grande acume investigativo. Ricordo una frase che amava ripetere Giovanni Falcone: La mafia non è affatto invincibile, è un fatto umano e come tutti i fatti ha un inizio e avrà una fine. Bisogna rendersi conto però che è un fenomeno terribilmente serio, molto grave. Si può vincere non pretendendo eroismo dai cittadini ma impegnando in questa battaglia tutte le forze migliori delle Istituzioni. Anche Paolo Borsellino in un’intervista si lamentò dell’atteggiamento dello Stato, che era quello di delegare a un solo organo, la magistratura, la lotta al fenomeno, sostenendo a gran voce che occorreva, al contrario, l’impegno di tutte le Istituzioni per combattere la mafia. I due, condividendo le indagini, avevano scoperto come questa organizzazione fosse riuscita a gestire gli interessi sovrapponendosi alle attività lecite, inquinandole e arrecando gravi danni all’economia. Ciò che oggi racconto a 30 anni di distanza, cioè cosa sia la mafia, in realtà i due magistrati l’avevano già anticipato: un’organizzazione criminale che si insinua, cambia pelle, vuole diventare invisibile e inquina l’economia e la democrazia del Paese, mettendo i propri uomini nei consigli comunali, regionali e perfino in Parlamento. Tutto cambiò quel 23 maggio del 1992, non solo la mia vita professionale ma anche il Dna di alcuni siciliani e il percorso politico del Paese. Ricordo perfettamente quel sabato che dalla redazione mi segnalarono un’esplosione in una cementeria vicino all’autostrada che collega Palermo all’aeroporto. Si pensava a un attentato della mafia ai cantieri, come era già successo. Quando ho saputo, invece, della strage il mondo mi è crollato addosso: un’azione così eclatante la mafia non l’aveva mai fatta: 573 kg di tritolo, posti in un cunicolo sotto l’autostrada dove tutti i giorni passava il giudice con la scorta, per il grande “Attentatuni”, preparato nei minimi dettagli come un’operazione militare. Noi giornalisti, arrivammo di corsa sul luogo della deflagrazione: l’asfalto era scomparso, sembrava un campo da tennis ricoperto di sassi e terriccio. Tutti piangevano. C’era un cratere enorme come se fosse caduto un meteorite, l’esplosione aveva colpito in pieno le tre auto blindate che formavano il corteo. Nella prima c’erano gli agenti di polizia Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani, mentre nella seconda viaggiavano il giudice Falcone, che era alla guida della Fiat Croma perchè gli piaceva guidare, la moglie Francesca e l’autista Giuseppe Costanza, seduto sul sedile posteriore. Appena dietro, vi era la terza blindata con a bordo i poliziotti Angelo Corbo, Paolo Capuzza e Gaspare Cervello, che rimasero feriti, ma sopravvissero all’attentato. Insieme cercarono di soccorrere subito il giudice, la moglie e l’autista. Nonostante le ferite riportate, vennero estratti dall’auto, a eccezione di Falcone, che rimase incastrato fra le lamiere e fu necessario attendere l’intervento dei Vigili del Fuoco. Paolo Capuzza, uno degli agenti sopravvissuti, ricorda così quegli attimi: Ho provato subito ad aprire lo sportello per liberare il magistrato, ma non ci sono riuscito perché era bloccato. Il giudice era ancora vivo e l’ho chiamato: “Giovanni, Giovanni”; lui si è anche voltato, ricordo il suo sguardo esanime, aveva il blocco motore nello sterno, muoveva appena la testa. Ricordo le sirene delle ambulanze e quando siamo arrivati in ospedale abbiamo visto i colleghi di Falcone in lacrime: lui e la moglie erano morti per le ferite gravissime. Una cappa di dolore ci avvolse. Solo dopo alcune ore, la prima Croma del corteo, quella che inizialmente non era stata trovata sul luogo dell’attentato, fu rinvenuta in un appezzamento di terreno vicino all’autostrada, completamente distrutta, con i corpi dei tre poliziotti morti.Ancora oggi, quando passo in quei luoghi, sento nelle narici l’odore acre dell’esplosione. Mi sovviene sempre la domanda che fece un giornalista al giudice perché, nonostante tutto, continuasse a fare quel lavoro e Falcone rispose soltanto “per spirito di servizio”. Lo stesso spirito che condivideva con Borsellino: insieme erano arrivati alla conclusione che esistesse un altro problema: il quartiere Brancaccio, a Palermo, completamente in mano ai due fratelli Graviano, Giuseppe e Filippo, i pupilli di Riina. Sono operativi, ricchi e pericolosi. Gestiscono traffici illeciti, di droga tra Palermo, la Calabria e l’estero. A Brancaccio i ragazzini non andavano a scuola perché la mafia offriva loro un lavoro illegale. Il 23 maggio scesero in strada per festeggiare e gridare: “Abbiamo vinto”. In questo quartiere venne ucciso anche un sacerdote, Don Pino Puglisi che cercava di strappare i ragazzi alla strada e alla mafia. Con queste parole, lo stesso Borsellino nel ‘91 si rivolgeva anche lui a quei giovani: Se i ragazzi che crescono e diventano adulti non troveranno più naturale dare il consenso all’organizzazione mafiosa o non riterranno che con essa si potrà convivere, sarà possibile che la mafia svanirà. Purtroppo, però, anche la generazione che ha la mia età presta e continua a prestare in misura notevole quel consenso. Questo lo ribadirà fino alla fine dei suoi giorni. Borsellino sa che la mafia ha dichiarato guerra al mondo e lui, testimone scomodo, non verrà mai ascoltato dai colleghi magistrati di Caltanissetta a cui era stata affidata l’indagine.

A luglio del 1992 per noi giovani cronisti si aprì un “master”: arrivarono a Palermo gli inviati più famosi e si servirono di ognuno di noi per fare interviste e girare la città. Gli “rubammo” il mestiere lavorando con loro. Poi, il 19 luglio ci toccò documentare un’altra maledetta giornata. Una Fiat 126 rubata, contenente 90 chilogrammi di esplosivo, saltò in via D’Amelio 21, a Palermo, sotto il palazzo dove all’epoca abitavano Maria Pia Lepanto e Rita Borsellino, rispettivamente madre e sorella del magistrato. Oltre a Borsellino, persero la vita anche 5 agenti della scorta: Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. L’unico sopravvissuto fu il poliziotto Antonino Vullo, che al momento dell’esplosione stava parcheggiando una delle auto della scorta. Ho visto la mano mozzata e la pistola di Emanuela – raccontò in un’intervista sui giornali e in televisione – aveva 25 anni, ed era la prima donna a far parte di un servizio di scorta. Io sono ancora vivo e penso che a salvarmi siano stati gli stessi colleghi da lassù. A premere il “pulsante” è stato Giuseppe Graviano, attualmente in carcere. La morte dei due magistrati fa compiere un’accelerata allo Stato: i due attentati sono come pallottole sparate nel cuore dell’Italia. Da questo momento in poi lo Stato reagirà con forza: a gennaio 1992 si conclude il maxiprocesso, iniziato nel 1986, con la Cassazione che conferma gli ergastoli ai mafiosi. Non mancano i colpi di coda della mafia con gli attentati a Roma, a Milano e Firenze, in via dei Georgofili, dove un’autobomba esplode e uccide 5 persone e poi prosegue, ma anche con il sequestro del figlio del pentito Mario Santo Di Matteo, un bimbo tenuto per due anni legato a una catena e infine strangolato e sciolto nell’acido da Giovanni Brusca. Ma le forze dell’ordine, colpo dopo colpo, stanno ormai smantellando la Cupola: nel 1993 viene arrestato Riina, poi il 27 gennaio 1994 a Milano vengono arrestati i fratelli Graviano, nel 1995 Leoluca Bagarella, nel 1996 è la volta di Brusca, colui che ha premuto materialmente il telecomando di Capaci, il 6 giugno 1997 è Pietro Aglieri, a finire dietro le sbarre, e infine nel 2006, dopo 43 anni di latitanza, viene arrestato Bernardo Provenzano, il padrino di Corleone. In tutti questi anni ho imparato che dei boss devo documentare le incongruenze, quello che loro non vorrebbero che si svelasse, non il fatto che sono mafiosi. Se scrivi di Leoluca Bagarella che è mafioso, lui ti ringrazia. Se dici che ha commesso 128 omicidi, lui, vantandosi ti corregge e dal carcere dice che sono ben 145. Quando ho iniziato a raccontare le contraddizioni nonostante fosse in regime di 41 bis, alla prima occasione ha voluto mostrare la sua ferocia e ha puntato il suo dito accusatorio nei miei confronti da un’aula di giustizia, minacce che hanno cambiato la mia vita. A 30 anni di distanza ho voluto ricostruire quei fatti con un rapporto giornalistico: Stragisti, dai fratelli Graviano a Matteo Messina Denaro, uomini e donne delle bombe di mafia e con un libro appena uscito, contenente dei documenti inediti. Ho voluto denunciare soprattutto il rischio che queste persone possano riacquistare la libertà. L’unico che è ancora latitante è Matteo Messina Denaro. Gli altri, che sono in carcere da oltre 25 anni, se venisse abrogato il 41 bis potrebbero uscire da un giorno all’altro. E si tratta degli stessi mafiosi che non hanno mai collaborato, non hanno mai ammesso le proprie responsabilità, non si sono mai piegati di fronte all’autorità giudiziaria e che hanno deliberatamente dimostrato di essere ancora a tutti gli effetti boss della mafia. Del resto il giudice Falcone sosteneva: Credo che ognuno di noi debba essere giudicato per ciò che ha fatto, contano le azioni non le parole…

*direttore de l’Espresso

12/05/2022