Annalisa Bucchieri
Ciao a tutt*
Tra nuovi segni grafici, declinazioni e neologismi, come cambia l’italiano. Ne parliamo con la linguista Valeria della Valle
“L’italiano non è l’italiano, è il ragionare”, affermava un indimenticabile personaggio di Leonardo Sciascia. Nell’attuale scenario globale, caratterizzato dalla multiculturalità e dal crescente sviluppo di nuovi mezzi e forme di comunicazione, riflettere sulla lingua italiana significa parlare della nostra identità, della nostra società, dei nostri costumi. Un atto importante per tutti, non solo per chi, come noi di Poliziamoderna, fa un mestiere legato alle parole. Ne parliamo con la linguista Valeria Della Valle, direttrice del Vocabolario Treccani.
Quali parole nuove sono comparse ‘grazie e per colpa’ dei giornalisti negli ultimi due anni stravolti dalla pandemia?
In realtà non ci sono stati neologismi quanto piuttosto la diffusione tra un pubblico vasto di parole che fino a quel momento circolavano solo tra esperti come infodemia, la diffusione parossistica ed eccessiva di informazioni e notizie di attualità oppure resilienza. Hanno preso piede molti termini stranieri come lockdown e droplet che potevano tranquillamente essere espressi nell’italiano con confinamento o goccioline. Questi larghi usi sono stati introdotti dai social media, tv e giornali.
Quale caducità hanno parole legate all’attualità socio-politica, per esempio democratura, esodati, green pass?
Di solito rimangono legate a un periodo storico ben preciso come la Glasnost (trasparenza) di Gorbaciov che impazzava negli anni ‘80 e fu usata come concetto anche parlando di ambiti diversi dall’Urss. Tsunami fu introdotto dopo la catastrofe naturale che colpì Sri Lanka, Malesia, Indonesia e si continuò ad utilizzarlo metaforicamente riguardo a molti altri eventi non naturali negli anni a seguire. Finché il termine va di moda lo si infila sempre nel discorso, spesso in maniera inappropriata. Alla lunga però finisce per sbiadirsi.
I new media introducono molti termini inglesi. Un bene o un male?
Mentre la stampa mantiene il rispetto delle regole espressive e della deontologia giornalistica – si traducono i termini o se ne facilita la comprensione al lettore - nei media digitali vige l’anarchia. Ognuno fa un po’ come vuole, non c’è alcun controllo e invece c’è molta ignoranza. Se il giornalista fa lo sforzo di tradurre, capire e segnalare, nei social impazza il malcostume dell’uso smodato di parole inglesi con l’idea di colpire ad effetto, non rendendosi conto che l’italiano è una lingua piena di sfumature che possono rendere unico il nostro stile espressivo. Certo in molti casi è più funzionale la locuzione inglese per questioni di brevità, per esempio nelle comunicazioni dove i caratteri a disposizione sono contingentati, ma purtroppo si arriva quasi sempre ad abusarne.
tt k? c ved sta? 6 rtn? Le sigle e le sincopi utilizzate dai giovanissimi possono influenzare le trasformazioni della lingua?
Direi di no. Intanto oggi i ragazzi non utilizzano più whatsapp o FB, ma sono passati ad altro e non hanno più necessità di contrarre le parole per rispettare il numero di caratteri permessi nel messaggio. Inoltre i linguaggi giovanili sono fenomeni transitori, che durano per una generazione, la successiva userà altre forme, altri termini. Qualche tempo fa i 14enni utilizzavano bella o scialla, ora che sono trentenni non lo usano più e soprattutto non lo usano più neanche i quattordicenni di oggi. Naturalmente va benissimo utilizzare abbreviazioni e acronimi attraverso il cellulare o i social, ma non va incoraggiato nei compiti in classe.
Veniamo a un tema molto dibattuto: la declinazione al femminile delle professioni. La direttrice d’orchestra Beatrice Venezi vuole farsi chiamare direttore. Invece io volentieri vorrei farmi chiamare direttrice responsabile ma trovo difficoltà a farlo accettare.
Succede sia che scrittori affermati, come Sveva Casati Modigliani, che giovani trovino “cacofoniche (suonano male!)” parole come direttrice (geometrico!), ministra (sa tanto di minestra!), prefetta, avvocata. Non è un fatto di lingua quanto di costume, quello che si rifiuta non è tanto la parola in se stessa quanto il fatto che sia una donna a rivestire quel ruolo. Queste parole non sono brutte e sgradevoli da pronunciare bensì semplicemente poco praticate, per cui non siamo abituati al loro suono. Grammaticalmente sono corrette per cui vi invito ad usarle ogni volta che se ne presenta l’occasione.
Naturalmente potrei solo consigliare a Beatrice Venezi di non farsi condizionare dall’ambiente tradizionalista. In linea di massima non si può imporre un uso linguistico perché i cambiamenti non avvengono così. Sarà l’abitudine che inizieremo a prendere oggi a far pronunciare con naturalezza a una ragazza tra qualche anno sindaca, chirurga, amministratrice delegata e, per riferirmi al vostro ambiente, la questore.
Voi linguisti però potete intervenire?
Sì lo facciamo. In tutte le grammatiche scolastiche abbiamo inserito i termini corretti e del tutto legittimi, con esercizi per invogliare a praticarli. In tutti i vocabolari stiamo facendo la stessa cosa. Ogniqualvolta compare la nostra voce in articoli e saggi lo ribadiamo. Tuttavia nel nostro Paese sia uomini che donne mostrano ancora forti reticenze, a volte nascondendosi dietro l’alibi che lo fanno per amore della lingua madre non sapendo che l’italiano si continua a trasformare di secolo in secolo. Per fortuna, altrimenti sarebbe una lingua morta.
Plautilla Bricci, architettrice, recita così il manifesto che pubblicizza la mostra a Palazzo Barberini a Roma. Qualche passo in avanti si sta facendo…
Il termine esisteva nel Seicento, ma era di uso raro perché per molti secoli non ci furono donne dedite allo studio della disciplina. Il termine ha preso piede grazie al successo del bel libro di Melania Mazzucco, L’architettrice, dedicato a questo personaggio misconosciuto del Seicento. Visto che molti rifiutano architetta perché finisce come “tetta” allora che usassero architettrice!
Questi dilemmi si scatenano per le professioni di alto profilo?
Proprio così. Finché la donna faceva lavori considerati alla base della piramide sociale nessuno si turbava nel declinarli al femminile: la cameriera, l’operaia, la sarta, l’infermiera. Il problema è iniziato a sorgere da quando le donne rivestono ruoli considerati appannaggio esclusivo dei signori. E usare il femminile provoca quasi la sensazione di disagio di star usurpando un posto destinato a un uomo. Certo ci sono numericamente più cameriere che avvocate nel mondo occupazionale ma le cose stanno cambiando e bisogna prenderne atto.
Come possiamo però contenere il plurale maschile esteso riferito a un gruppo misto: ad esempio leggiamo spesso sui giornali “gli italiani al voto” o “gli studenti tornano in piazza”, quando sicuramente dentro le urne e a reggere bandiere e striscioni non ci sono solo uomini?
I passaggi stanno avvenendo spontaneamente e ora per esempio voi scrivete spesso sulla vostra rivista “le donne e gli uomini della Polizia di Stato” così come nei discorsi il nostro amato presidente della Repubblica Sergio Mattarella si rivolge “alle italiane e agli italiani”. In ogni caso può essere di utilità in queste occasioni un manuale di comportamento linguistico rispettoso nei confronti delle donne che Antonella Polimeni, la rettrice della Sapienza, ha voluto diffondere tra tutti i dipendenti dell’università in modo che ogniqualvolta venga scritta una mail, una circolare, un decreto una disposizione venga fatto con criteri corretti. Si chiama Scrivere con Sapienza.
Si parla con grande fervore della vocale inclusiva, la e rovesciata, lo scevà o schwa (non la posso neanche scrivere perché il segno grafico non è presente sulla mia tastiera), che viene proposta come declinazione di un termine quando ci si rivolge alle persone non binarie, ovvero che non si riconoscono nel sistema identitario maschile/femminile. Cosa ne pensa?
La prima criticità posta dalla vocale inclusiva è fonetica: è un suono difficilmente riproducibile mentre parliamo, assolutamente misconosciuto nella lingua italiana. Lo stesso vale per l’asterisco: come pronunciarlo in un discorso orale, in una conversazione? Realizzare il suono indistinto indicato dal simbolo fonetico schwa avrebbe come risultato quello di portare progressivamente al troncamento delle parole che pronunciamo, rendendole irriconoscibili – peraltro in un contesto comunicativo (il parlato) che è meno pianificato dello scritto e che non permette di tornare indietro in caso di errore o di incomprensione.
E nella comunicazione scritta quali problematiche si potrebbero incontrare introducendo lo scevà?
Troncare le desinenze in un discorso scritto creerebbe molta disgregazione della forma, della sintassi rendendo meno accessibile la comprensione a chi legge. Tra l’altro andrebbero prodotte tastiere di computer che riportano il nuovo segno grafico in maniera facilmente accessibile. Intaccando l’ortografia che abbiamo imparato da piccoli, s’intaccherebbe anche la morfologia della lingua.
In pratica la vocale inclusiva renderebbe paradossalmente più esclusiva la lingua, accessibile ai pochi che possono padroneggiare queste complessità?
Proprio così, difatti il dibattitto si è fermato ad una ristretta cerchia. La norma linguistica è frutto di un comune accordo, non di un ordine intellettuale calato dall’alto. La grammatica e la sintassi devono essere strumenti che agevolano la comprensione dei più deboli, persino degli ignoranti. Pensiamo anche alle difficoltà che potrebbero incontrare persone con disabilità cognitive o con dislessia. La scevà sgretolerebbe quelle regole basilari della grammatica che sono attualmente in possesso della maggioranza dei parlanti nel nostro Paese (che sono state apprese dai genitori e a scuola).
In definitiva meglio lasciar perdere…
Non è una posizione conservatrice, quella di noi linguisti, quanto la necessità di proteggere lo scopo primario della lingua: la comunicazione tra gli esseri umani. Con lo scevà la comprensione reciproca diventerebbe più difficile e la comprensione reciproca è il presupposto della democrazia. L’ultima volta che si è cambiata la lingua con un’imposizione ideologica è avvenuto durante il Fascismo…non si può fare niente di autorità né per moda. In definitiva dovremmo trovare una modalità migliore per rispettare i diritti di ognuno e prima di riconoscere le diversità di genere nel linguaggio attuarlo nei comportamenti.