Armando Albano

L’uso legittimo delle armi

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Aspetti di legittimità

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1. La figura dell’eccesso colposo
La responsabilità colposa di chi agisce nell’adempimento del dovere facendo uso delle armi viene disciplinata nel nostro ordinamento da due distinte disposizioni, contemplate negli artt. 55 e 59 cp.

L’art. 55 cp prevede l’ipotesi dell’eccesso colposo in cui, nonostante un’iniziale configurazione di tutti i requisiti atti all’applicazione della scriminante, “si eccedono colposamente i limiti stabiliti dalla legge o dall’ordine dell’Autorità ovvero imposti dalla necessità”, applicandosi in questa evenienza “le disposizioni concernenti i delitti colposi, se il fatto è preveduto dalla legge come delitto colposo”. 

L’art. 59, comma 4° cp disciplina invece l’ipotesi della c.d. scriminante putativa o errore colposo, che si verifica quando il soggetto agente, a causa di un “errore determinato da colpa”, agisce nella convinzione dell’esistenza di una causa di giustificazione a suo favore, evenienza che determina, come già per l’art. 55 cp, una responsabilità a titolo di colpa qualora il “fatto” concretizzatosi configuri una fattispecie di reato “preveduto dalla legge come delitto colposo”.

In riferimento alla modalità di configurazione della fattispecie colposa evidenziatasi, è possibile quindi distinguere a seconda che il fatto sia avvenuto in presenza di condizioni che consentono la qualificazione in senso reale della scriminante, ai sensi dell’art. 55 cp, ovvero putativa, ai sensi dell’art. 59, comma 4° cp.

 La figura di scriminante in senso reale vede, almeno nella sua situazione iniziale, la presenza di condizioni che possono far ritenere oggettivamente legittimo l’uso delle armi, con la condotta del soggetto agente che, fino ad un certo punto del suo svolgimento, è sorretta da una causa di giustificazione realmente esistente, mentre, in un momento successivo, ne oltrepassa i previsti limiti, dando vita a una figura di eccesso definita dalla Cassazione anche come “eccesso modale”, poiché riguardante una particolare modalità della condotta tenuta, caratterizzata da errore sulle scriminanti.

La ratio della norma è da ravvisarsi nel fatto che l’ordinamento giuridico non mostrerebbe interesse a punire a titolo di dolo l’agente che inizia la sua condotta in presenza di una causa di giustificazione, per poi successivamente, in ragione di diversi motivi, travalicare i limiti imposti dalla legge. 

Se infatti la volontà del pubblico ufficiale è comunque tesa a realizzare quel fine che, nella concreta situazione, rende giustificata sua la condotta, a causa tuttavia di un errore sulla necessità dell’uso dei mezzi coattivi o sull’estensione dei limiti concreti che la situazione fattuale impone, si realizza un evento sproporzionato rispetto a quello che sarebbe invece stato sufficiente produrre.

1.1 L’errore motivo
La giurisprudenza della Corte Suprema ha delineato al riguardo due diverse modalità di eccesso colposo, ex art. 55 cp, determinato da un errore riconducibile al soggetto agente. 

Una prima ipotesi viene direttamente connessa all’erroneità della rappresentazione della fattispecie, definibile come “errore motivo”, dovuto ad un difetto di proporzione nell’analisi di bilanciamento degli interessi in conflitto, quando il pubblico ufficiale ritiene di agire nei limiti del lecito a causa di un’errata valutazione complessiva del fatto concreto. 

“L’art. 2044 c.c. rinvia sostanzialmente, per la nozione di legittima difesa, quale situazione idonea ad escludere la responsabilità civile per fatto illecito, all’art. 52 cp, che richiede, a tal fine, la sussistenza, nella fattispecie, della necessità di difendere un diritto proprio od altrui contro il pericolo attuale di un’offesa ingiusta – sempre che la difesa sia proporzionata all’offesa -. Parimenti, perché sia ravvisabile lo stato di necessità, previsto dall’art. 2045 c.c., è richiesta la sussistenza della necessità di salvare sé od altri da pericolo attuale di un danno grave alla persona. 

Nessuna di tali situazioni è ravvisabile nel fatto – fattispecie concreta - dell’agente di polizia che, sopraggiunto immediatamente dopo la commissione di una rapina in una farmacia, mentre il rapinatore si stava allontanando per sottrarsi alla cattura impugnando una pistola a scopo difensivo, abbia esploso all’indirizzo dello stesso, che si proteggeva con il corpo del farmacista, un colpo di arma da fuoco il quale abbia attinto anche un cliente. Tale ipotesi rientra piuttosto nella previsione di eccesso colposo nell’uso legittimo di armi, per avere l’agente superato per errore i limiti imposti dall’art. 53 cp, che legittima tale uso solo nel caso in cui l’agente vi sia costretto dalla necessità di vincere una resistenza all’autorità. Infatti, i requisiti della costrizione e della necessità presuppongono la proporzione tra l’interesse che l’adempimento del dovere di ufficio tende a soddisfare e l’interesse che viene offeso per rendere possibile tale adempimento. Detta proporzione va esclusa nella specie, in presenza di una situazione in cui la tutela dell’incolumità fisica della vita delle persone presenti nella farmacia – beni di cui, secondo la valutazione del giudice del merito, era prevedibile la lesione in caso di uso dell’arma – avrebbe dovuto prevalere sull’interesse alla cattura del rapinatore ed al recupero della refurtiva” (Cassazione civile, Sez. III, 24 febbraio 2000, n. 2091, ministero dell’Interno contro Bosotti e altro).

La fattispecie concreta, nel caso di specie, imponeva per il pubblico ufficiale un corretto giudizio di proporzionalità tra i beni in conflitto della incolumità fisica e della vita di persona terza da una parte, e della cattura del rapinatore dall’altra, che doveva senz’altro, a parere della Suprema Corte, vedere la prevalenza dei primi; si riteneva, pertanto, sussistente il superamento colposo dei limiti previsti dall’art. 53 cp in materia di uso legittimo delle armi, poiché il pubblico ufficiale, in modo inescusabile, aveva mancato di ravvisare tale necessaria prevalenza, rispetto all’interesse in sé considerato della cattura del malvivente e del recupero della refurtiva, in pregiudizio dei beni della incolumità fisica e della vita delle persone presenti, nonostante fosse ben prevedibile la loro lesione in caso di uso dell’arma da fuoco.  

L’apprezzamento dell’osservanza del presupposto della proporzione, da intendersi come “proporzione” anche nella scelta dei mezzi coercitivi – arma o altri mezzi di coazione fisica –, come “adeguatezza” nell’uso dei mezzi prescelti e come “inevitabilità” – extrema ratio – dell’uso dell’arma per attingere il soggetto, va effettuato ex ante, riportandosi ovviamente al momento dell’attività.

“La Corte d’Appello ha chiarito che la morte di Federico Aldrovandi - verificatasi all’alba del 25 settembre 2005, in via dell’Ippodromo, a Ferrara – era materialmente riferibile alla condotta posta in essere dagli agenti di polizia, i quali avevano ingaggiato con il ragazzo una violenta colluttazione, conclusasi con la fisica sopraffazione del giovane schiacciato a terra, in posizione prona, con le manette strette ai polsi dietro la schiena. (…)

Ebbene, il Collegio ha rilevato che la condotta aggressiva del ragazzo – della quale era espressione il calcio, andato completamente a vuoto, sferrato dall’Aldrovandi all’indirizzo degli agenti – proprio in considerazione dello stato di alterazione psichica in cui versava il giovane, avrebbe dovuto essere fronteggiata da parte dei poliziotti, se del caso anche con l’impiego dei manganelli, mediante una azione di controllo e contenimento.

I giudici del gravame hanno considerato che, di converso, risultava accertato che i quattro poliziotti avevano impiegato i manganelli per colpire ripetutamente e violentemente il ragazzo, evenienza dimostrata plasticamente dalla rottura di ben due dei richiamati attrezzi, intervenuta nel corso dell’operazione di cui si tratta.

Soffermandosi sul grado di difformità tra le modalità della condotta, concretamente posta in essere dagli agenti nel fronteggiare il ragazzo, e la linea comportamentale ritenuta doverosa, il Collegio ha pure sottolineato: che i poliziotti sferrarono numerosi colpi contro l’Aldrovandi, non curanti delle invocazioni di aiuto provenienti dal giovane; che la serie di colpi proseguì anche quando il ragazzo era stato fisicamente sopraffatto, e quindi reso certamente inoffensivo; che i poliziotti chiamarono il personale del soccorso sanitario solo quando l’epilogo era ormai maturato; che il personale sanitario, una volta sopraggiunto, dovette insistere perché l’Aldrovandi, ormai esanime, ma ancora compresso a terra con il volto sul selciato, venisse liberato dalle manette e girato sul dorso. (…).

In tale contesto, come correttamente ritenuto dai giudici di merito, il prudente governo della forza, rispetto all’azione congiunta di ben quattro agenti armati di manganelli, avrebbe imposto di evitare condotte estreme – e del tutto inutili rispetto al dichiarato fine di bloccare il ragazzo – come quella di tenere schiacciato l’Aldrovandi al suolo, comprimendolo fisicamente all’altezza del tronco, anche dopo averlo ammanettato con i polsi dietro alla schiena.

 Le condotte poste in essere dagli agenti di polizia (…) evidenziano allora che non agirono affatto perché costretti dalla necessità di difendere un proprio diritto; diversamente Forlani, Segatto, Pontani e Pollastri posero in essere una violenta azione repressiva (…) errando gravemente nella valutazione dei limiti fattuali della scriminante discendente dall’adempimento dei doveri d’istituto e con riferimento alla misura della violenza contro la persona ed all’impiego dei mezzi di coazione fisica, consentiti dall’ordinamento per vincere una resistenza all’Autorità o impedire la consumazione di gravi reati. In tali termini la Corte di Appello di Bologna ha individuato il profilo di colpa ascrivibile ai prevenuti, ex art. 55 cp, che riguarda la gestione mal ponderata dei poteri conferiti agli agenti di polizia in adempimento dei doveri di istituto.

Chiarito che agli imputati si rimprovera di aver colposamente ecceduto dai limiti stabiliti dalla legge nell’esercizio del dovere e nell’uso legittimo delle armi, è dato procedere oltre nell’esame della fattispecie della cooperazione colposa ex art. 113 cp, con riferimento al reato di evento a forma libera, di cui all’art. 589 cp – omicidio colposo - che viene in rilievo nel caso di specie” (Cassazione penale, Sez. IV, 21 giugno 2012, n. 36280, Forlani e altri).

Qualora, invece, il giudizio di proporzionalità sia positivo, si applicherà senz’altro la scriminante al soggetto agente che operi nel rispetto dei limiti imposti dall’art. 53 cp, nulla potendogli essere attribuito per l’eventuale verificarsi di un evento più grave e diverso da quello preventivato, mentre se l’eccesso fosse stato, all’estremo opposto, addirittura consapevole e volontario, vi sarebbe superamento doloso dei limiti della scriminante, con rischio di addebito a titolo di dolo. 

“Il rischio di evento diverso e più grave rispetto a quello voluto dall’agente nella situazione di legittimo uso delle armi non va posto a carico del pubblico ufficiale che ha operato nell’ambito della previsione legislativa con diligenza e perizia”     (Cassazione Penale, Sez. IV, 7 giugno 2000, n. 9961, Brancatelli).

1.2 L’errore inabilità
La seconda ipotesi, in materia di eccesso colposo, è determinata da una non corretta modalità di esecuzione nell’azione preventivata, eventualità definita come “errore inabilità”, nella quale il soggetto agente, nonostante stavolta una corretta rappresentazione della realtà, supera per errore nell’esecuzione i limiti imposti dalla necessità. 

“Il giudice civile, nell’esercizio del potere di accertare, nel giudizio di risarcimento danni da fatto illecito, l’esistenza di un reato estinto, in caso di supposta esimente dell’uso legittimo delle armi, può ravvisare l’eccesso colposo non soltanto in relazione alla scelta del mezzo usato, ma altresì al modo di tale uso – nel caso di specie il giudice del merito, confermato dalla Cassazione, aveva ravvisato il delitto colposo del pubblico ufficiale che, da una vettura in corsa, aveva sparato alle gomme di una vettura in fuga, ferendo, per l’imprecisione dello sparo dovuta all’alta velocità di entrambe le auto, il fuggitivo” (Cassazione civile, Sez. III, 6 agosto 1997, n. 7274, Ministero dell’Interno contro Galdieri).

In questo caso il pubblico ufficiale, pur avendo infatti compiuto una corretta valutazione nel bilanciamento degli interessi in conflitto, potrà essere oggetto di successivo rilievo per la configurazione dell’eccesso colposo al momento dell’esecuzione dell’azione necessitata.

Naturalmente, affinché l’eccesso sia punibile è necessaria la prova che l’autore versi in colpa. 

“Non può ritenersi sussistente l’eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi quando questo è stato posto in essere, in luogo sicuro per l’incolumità di terzi, al fine di arrestare la pericolosa condotta del conducente di un’autovettura che si sia dato ad una folle corsa mettendo a repentaglio pedoni ed altre autovetture in circolazione, senza arrestarsi alle intimazioni d’alt dei militari intervenuti “ (Tribunale di Bari, 22 gennaio 2004).

La Suprema Corte, infatti, ha ribadito in alcune importanti pronunce come, qualora la forma prescelta dal pubblico ufficiale nell’uso legittimo delle armi avvenga nel rispetto del principio di proporzione, non possa a lui farsi carico dell’evento diverso e più grave prodotto, rispetto a quello preventivato.

In particolare se il soggetto agente abbia operato con perizia e diligenza, nell’ambito della previsione legislativa, la prevedibilità dell’evento più grave sarà intrinsecamente collegata alla componente di rischio insita nell’uso delle armi da fuoco, con la conseguenza che, rispettando i limiti legislativamente previsti, l’evento non voluto non potrà essere posto a carico del pubblico ufficiale in quanto il rischio conseguente all’uso “normativamente autorizzato” dell’arma, “unica in dotazione al pubblico ufficiale”, potrebbe essere scongiurato solo rinunziandovi definitivamente.  

1.3 La scriminante putativa
La figura di scriminante putativa, invece, ex art. 59, comma 4° cp, può ravvisarsi qualora il pubblico ufficiale abbia per errore ritenuto di trovarsi in una situazione di fatto che, se realmente esistente, lo avrebbe pienamente giustificato nella necessità di fare uso delle armi. 

“L’esimente putativa dell’uso legittimo delle armi può ravvisarsi quando l’agente abbia ritenuto per errore di trovarsi in una situazione di fatto tale che, ove fosse stata realmente esistente, egli sarebbe stato nella necessità di fare uso delle armi. Tale esimente non può ravvisarsi, invece, quando l’errore si risolve nella ignoranza della legge penale che non scusa. - Nel caso di specie un poliziotto aveva sparato colpi d’arma da fuoco su una persona in fuga ritenendo che la norma lo autorizzasse a fare uso dell’arma anche in una tale situazione di fatto“ (Cassazione penale, Sez. I, 30 settembre 1982, Curreri).

In base all’art. 59, comma 1° cp, normalmente, la sussistenza di un errore sulle circostanze escludenti la pena non impedisce che esse vengano valutate a favore del soggetto agente, salvo che si ravvisi un comportamento suscettibile di rimprovero per imprudenza o imperizia, che determinerà una responsabilità dell’agente, in base al comma 4°, a titolo di colpa per il fatto commesso, poiché la causa di giustificazione, ritenuta da lui esistente, in realtà non si era mai configurata. 

La scriminante putativa è quindi quella dell’agente che abbia creduto per errore scusabile di trovarsi in una situazione di fatto tale che, se esistente, avrebbe costretto il medesimo a fare uso dei mezzi di coercizione ex art. 53 cp.

“Appare dunque provato che, nonostante tutta una serie di “avvisi” che dovevano indurlo a fermarsi (le intimazioni di arresto, l’esplosione di tre colpi di arma da fuoco a scopo intimidatorio, le nuove e reiterate intimazioni di arresto, il posto di controllo effettuato dal C. – il maresciallo dei Carabinieri – avanti al cancello, i primi spari sulla parte bassa della propria auto sempre accompagnati dalle intimazioni di arresto), il B. – il ladro in fuga – al fine di fuggire, cercò di investire con la vettura Subaru il maresciallo C. Ad avviso del giudicante, tale manovra non integra soltanto il delitto di resistenza a pubblico ufficiale, di cui all’art. 337 cp, ma anche il più grave delitto di tentato omicidio di cui agli artt. 56 - 575 cp (…). Dopo essersi scansato all’ultimo momento – altrimenti sarebbe stato “centrato” dalla Subaru in uscita dal cancello – C. vede il guidatore effettuare una manovra col braccio destro disteso verso il lato passeggero, come per prendere o utilizzare un’arma o qualcosa di simile; interpretando quell’azione come un’ulteriore offesa, proprio perché B. aveva appena tentato di investirlo (alias di ucciderlo), C. esplode un’ulteriore raffica di sei – sette colpi, tre dei quali mortali per B. Orbene: è stato dimostrato ex post che il B. era privo di qualunque arma e che, dunque, C. errò nel prefigurarsi una ulteriore situazione di pericolo. Tuttavia, ritiene il giudicante che il C. si sia effettivamente rappresentato l’esistenza della situazione di pericolo e che tale rappresentazione, per quanto errata, non sia imputabile ad alcuna sua colpa. (…) Contrariamente a quanto indicato nel profilo a) di contestazione, la condotta di sparo che provocò la morte è pertanto “giustificata” perché scriminata ai sensi del combinato disposto degli artt. 52, 53 e 59 cp - Nel caso di specie una pattuglia dell’Arma dei Carabinieri sorprende di notte tre ladri che si erano introdotti in una cascina isolata per rubare. Vistisi scoperti, due di essi si danno alla fuga a piedi, mentre il terzo, salito su un’autovettura in precedenza rubata, lasciata in sosta nei pressi del cancello della cascina, non si ferma all’alt intimatogli dal maresciallo capo pattuglia ma, per tutta risposta, gli dirige contro l’auto a velocità sostenuta. A questo punto il pubblico ufficiale, per non essere investito, esplode alcuni colpi a raffica con la pistola mitragliatrice Beretta PM12 in dotazione, colpendo il parabrezza dell’autovettura e successivamente, ritenendo erroneamente che l’individuo alla guida dell’auto voglia usare un’arma contro di lui, continua a sparare, uccidendolo“ (Tribunale di Pinerolo, Sentenza 20 settembre 2004, n. 474).

La giurisprudenza osserva, tuttavia, che ciò che assume rilevanza è solo l’errore ricadente sul fatto, mentre tale esimente non potrà spiegare efficacia discriminante quando l’errore cada sull’efficacia della norma, cioè si attribuisca alla scriminante limiti normativi di applicabilità più vasti di quelli stabiliti dalla legge, poiché in questa evenienza l’errore si risolverebbe nell’ignoranza della legge penale che, ai sensi dell’art. 5 cp, non scuserà il comportamento del soggetto agente. 

“In tema di uso legittimo delle armi, nel caso di resistenza posta in essere con la fuga, manca il rapporto di proporzionalità tra l’uso dell’arma ed il carattere non violento della resistenza opposta al pubblico ufficiale. In tale ipotesi il pubblico ufficiale che abbia fatto uso dell’arma non può invocare l’esimente “de qua” sotto il profilo della putatività, assumendo di aver ritenuto di agire in presenza di una causa di giustificazione, essendo incontrovertibile che l’errore sull’esistenza delle circostanze di esclusione della pena spiega efficacia discriminante quando investe i presupposti di fatto che integrano la causa di giustificazione o una norma extrapenale integratrice di un elemento normativo della fattispecie giustificatrice, e non quando si risolve in un errore di diritto, sfociante nell’erronea ed inescusabile convinzione che la situazione – nella specie un uomo in fuga – nella quale l’agente si trova ad operare rientri tra quelle cui l’ordinamento giuridico attribuisce efficacia scriminante, giacché diversamente si finirebbe con il considerare inoperante, sul terreno delle cause di giustificazione, il principio generale posto dall’art. 5 cp, secondo cui l’ignoranza – inescusabile – della legge penale non scusa – Nel caso di specie un Carabiniere, allo scopo di arrestare la fuga di un ciclomotorista che non aveva ottemperato all’invito di fermarsi, aveva esploso vari colpi d’arma da fuoco in direzione delle gomme del veicolo ed uno di tali colpi, rimbalzando, aveva attinto il conducente cagionandone la morte“ (Cassazione penale, Sez. IV, 5 giugno 1991, Rizzo).

“In tema di cause di giustificazione di cui agli art. 51 e 53 cp, la guardia giurata che, oltrepassando gli specifici compiti di istituto, spara contro passanti datisi alla fuga alla intimazione di fermarsi, non può invocare l’errore su norme extrapenali con riferimento ai limiti delle competenze istituzionali e all’uso delle armi, trattandosi di norme integrative dei precetti penali che non possono essere ignorate. Né in tal caso è ipotizzabile la ricorrenza delle condizioni di scusabilità dell’ignoranza della legge, individuate dalla sentenza n. 364 del 1988 della Corte Costituzionale, perché la normativa al riguardo non ha formato oggetto di incertezze giurisprudenziali rilevanti o di altri contrasti in sede di applicazione e d’altronde, la consapevolezza dei limiti delle proprie funzioni, e della possibilità di uso delle armi che è autorizzata a portare, costituisce il meno che possa essere richiesto a persona che ha scelto di assumere le funzioni di guardia particolare scelta – Nel caso di specie, di omicidio, la guardia giurata aveva intimato l’alt e fatto uso delle armi nei confronti di persone che transitavano a bordo di autovettura, senza che esse avessero posto in essere alcun anomalo comportamento, tale da giustificare neppure il sospetto di intenti pregiudizievoli per la sicurezza di ciò che alla vigilanza della guardia era stato affidato“ (Cassazione penale, Sez. I, 28 gennaio 1991, Caporaso e altro).

2. Fuga e uso legittimo delle armi: orientamenti giurisprudenziali
Gli orientamenti interpretativi promossi dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione in materia di uso delle armi o di altri mezzi di coazione fisica hanno determinato l’affermarsi di momenti di confronto e di critica da parte delle diverse posizioni dottrinali che ne hanno accompagnato l’evoluzione.

Come si è avuto modo di vedere, l’originario e più risalente orientamento delineatosi per le situazioni necessitanti si poneva in linea con quella parte della dottrina che auspicava la coincidenza delle ipotesi giustificanti l’uso delle armi con le fattispecie di reato previste negli artt. 336 e 337 cp.

In merito, anche riprendendo una pronuncia della Suprema Corte che affermava come “L’atto del divincolarsi posto in essere da un soggetto fermato dalla polizia giudiziaria configura violenza ai fini della sussistenza del reato di cui all’art. 337 cp e non mera resistenza passiva, quando non costituisce una sorta di reazione spontanea ed istintiva alla costrizione operata da pubblico ufficiale, ma un vero e proprio impiego di forza diretto a neutralizzare l’azione del pubblico ufficiale ed a sottrarsi alla presa, guadagnando la fuga”, si sosteneva, infatti, che nel concetto di resistenza passiva andassero certamente annoverate situazioni di inerzia o di esigua e pacifica opposizione all’esecuzione degli atti della forza pubblica, per le quali l’uso di qualsiasi mezzo di coazione apparirebbe sproporzionato.   

Questa radicale posizione determinava la conseguente esclusione dell’uso legittimo delle armi o di altri strumenti di coazione fisica anche in quella particolare ipotesi di mera resistenza passiva che è la fuga, così ammettendo, in questa eventualità, come l’unica azione consentita al pubblico ufficiale contro chi, rinunciando ad un confronto diretto, preferisce darsi alla fuga, sia il c.d. “placcaggio”, configurandosi penalmente, al pari dell’inerzia o della passività in senso stretto, la sola fattispecie contravvenzionale della “Inosservanza dei provvedimenti dell’Autorità”, prevista dall’art. 650 cp, norma questa avente carattere essenzialmente sussidiario.

Ne conseguirebbe che, in caso di disobbedienza all’ordine di fermarsi e di successiva fuga, apparirebbe consentita tutta una gamma di mezzi di coazione i quali, senza recare danni irreversibili alla persona, siano idonei ad impedire o, quanto meno, ad ostacolare la fuga, mentre il ricorso alle armi da fuoco potrà ritenersi ammissibile solo a scopo persuasivo e intimidatorio, ovvero come strumento di coazione indiretta, avente quale obbiettivo la cosa animata o inanimata utilizzata per la fuga.     

Il successivo affermarsi dell’orientamento giurisprudenziale che dava rilevanza implicita, per l’art. 53 cp, al requisito della proporzione tra beni, condiviso dalla dottrina maggioritaria, portò ad ammettere la legittimità nell’uso delle armi quando il pregiudizio arrecato a diritti inviolabili della persona avvenisse in presenza di un doveroso preventivo bilanciamento degli interessi in conflitto, non considerandosi scriminata la condotta del pubblico ufficiale che avesse agito esclusivamente allo scopo di adempiere al dovere d’ufficio, poiché l’interesse al perseguimento dei reati in sé considerato non poteva mai prevalere, in linea di principio, su beni di primaria importanza quali la vita umana.

La giurisprudenza del nuovo millennio della Suprema Corte, in materia di fuga, modifica radicalmente, così, l’originaria prospettiva interpretativa, abbandonando la ricerca della necessaria qualificazione giuridica delle situazioni necessitanti l’uso degli strumenti coattivi, focalizzando invece l’attenzione sulla condotta complessiva tenuta dal fuggitivo che, se considerata pericolosa e mettente a repentaglio beni di fondamentale importanza, quali la vita di passanti, giustifica l’uso delle armi nei pubblici ufficiali.

In tale prospettiva, il criterio rilevante a conferire legittimità all’utilizzo dei mezzi coattivi si attesta nella necessaria proporzione tra i beni in conflitto, quale principio immanente alla scriminante prevista dall’art. 53 cp. Inoltre, partendo dal disposto del secondo comma dell’art. 40 cp che, in tema di “Rapporto di causalità”, prevede come “Non impedire un evento, che si ha l’obbligo giuridico di impedire, equivale a cagionarlo”, viene allora valutato come legittimo l’uso delle armi qualora esso sia reso necessario per impedire, anche prima dell’inizio dell’azione tipica, un delitto commissivo mediante omissione, tenendo conto che tutti i gravissimi delitti introdotti nel primo comma dell’art. 53 cp dall’art. 14 della L. 22 maggio 1975, n. 152, ivi compreso quello di strage, sono commissibili mediante omissione.

L’evoluzione interpretativa della Cassazione ha poi progressivamente affermato il principio della graduazione nell’uso dei mezzi coattivi, pienamente condiviso dalla dottrina, come ulteriore aspetto valutativo della legittimità nell’uso delle armi, sempre conferente il giudizio di proporzione, per il quale l’uso della forza deve essere opportunamente graduato in base alle esigenze del caso concreto.

L’uso di un medesimo strumento coattivo può produrre, infatti, effetti differenti in base alle sue modalità di utilizzo, che possono determinare conseguenze lesive letali anche nel caso di uso di un mezzo di coazione di minore potenzialità offensiva.

2.1 La graduazione nell’uso delle armi
Nell’ottica di tale necessaria graduazione, si comprende il favore con cui la dottrina e la giurisprudenza accolgono l’uso delle armi da fuoco a scopo intimidatorio o persuasivo, quale primo opportuno step da praticare, in osservanza al principio che impone la forma di utilizzo meno lesiva dell’arma, per poi il pubblico ufficiale verificare e valutare, nel caso concreto, se tale contenuta modalità di utilizzo appaia insufficiente a garantire l’adempimento del proprio dovere d’ufficio. Se infatti la scelta dell’utilizzo delle armi o di un altro mezzo coattivo appartiene alla discrezionalità amministrativa del pubblico ufficiale, essa dovrà avvenire nel rispetto del principio di proporzionalità dell’azione, inteso quale espressione della sequenza “triadica” dei suoi elementi costitutivi dell’idoneità, della necessarietà e dell’adeguatezza, che conduca a calibrare il potere amministrativo, di cui l’uso delle armi è manifestazione, in funzione del minor sacrificio possibile degli interessi compressi da tale utilizzo, ove si giunge mediante un giudizio di conformità dell’azione amministrativa alla “regola del mezzo più mite” in tema di necessarietà. È pertanto da ritenersi pienamente legittimo il comportamento del pubblico ufficiale che, per sedare una rissa e respingere una violenza attuata nei suoi confronti da alcuni dei co-rissanti, esploda dei colpi di pistola in aria a scopo intimidatorio, in quanto tale condotta sarà giustificata dalla necessità di tutelare l’Autorità e l’incolumità di coloro che esercitano una funzione pubblica. Nel ricordare alcuni autori come l’utilizzo delle armi non sottenda esclusivamente un uso diretto alle persone, il successivo step di un ideale protocollo operativo caratterizzante la concreta condotta del pubblico ufficiale potrà quindi essere l’uso dell’arma diretto verso la cosa inanimata o animata utilizzata per la fuga dall’autore della condotta antigiuridica, potendosi rivolgere i mezzi di coercizione anche verso beni materiali impiegati per frapporre la violenza ovvero opporre la resistenza all’adempimento del dovere d’ufficio del pubblico ufficiale. Si potrà pertanto considerare legittimo l’abbattimento di una porta finalizzato all’effettuazione di un arresto, oppure la soppressione di animali utilizzati per ostacolare l’adempimento dell’obbligo a cui è tenuto il pubblico ufficiale, precisando comunque che il destinatario finale, effettivo e reale dell’utilizzo delle armi contro beni materiali ovvero cose inanimate o animate dovrà essere sempre la persona fisica che concretamente preclude l’adempimento del dovere. Qualora l’impiego delle armi contro beni materiali non sortisca lo sperato effetto dell’adempimento del dovere d’ufficio, la dottrina si interroga sull’ipotesi estrema dell’uso dei mezzi di coercizione direttamente all’indirizzo della persona. Alcuni autori escludono in maniera tassativa questa eventualità, soprattutto qualora si debba arrestare la corsa del fuggitivo, poiché la persona non potrebbe mai essere diretto obiettivo dell’uso delle armi, recando pregiudizio all’integrità fisica della medesima.  La giurisprudenza, invece, pur ripetutamente ricordando che l’uso delle armi debba costituire extrema ratio, per il carattere di sacralità rivestito dalla vita umana, che consiglia sempre al pubblico ufficiale il perseguimento della scelta meno dannosa per i beni coinvolti, ammette la possibilità di rivolgere l’arma al corpo del fuggitivo qualora il conflitto di interessi, concretamente in atto, riguardi la protezione di beni di valore assoluto, considerati di grado superiore nella scala d’importanza del nostro ordinamento costituzionale, come può accadere quando la “fuga pericolosa” dei malviventi metta a repentaglio l’incolumità di terzi estranei alla vicenda.

2.2 Effetti dell’applicazione della Cedu
La necessaria sussistenza di proporzionalità nell’uso dei mezzi coattivi sulla persona, permetterà quindi di ritenere possibile l’uso di lacrimogeni per costringere gli occupanti di un edificio ad uscirne, ovvero dei rapinatori ad abbandonare il luogo ove si sono barricati, ma risulterà sicuramente eccessivo e sproporzionato sparare su dei manifestanti che si siano distesi a terra per impedire il massaggio delle forze dell’ordine, essendo possibile provare a spostarli di peso. 

La selezione dell’ultimo estremo step impone, comunque, che l’uso delle armi sia rivolto solo verso colui che ha posto in essere la situazione necessitante, così frapponendosi all’esecuzione del dovere d’ufficio, non potendosi mai strumentalizzare altri soggetti estranei al fine di indurre l’effettivo destinatario della coazione a proseguire nella propria condotta; appare quindi corretta quella dottrina che esclude la scriminabilità del pubblico ufficiale il quale, per indurre il soggetto che resiste all’arresto a consegnarsi, faccia uso di un mezzo coattivo contro un familiare di quest’ultimo.

Il carattere di alternatività tra le scriminanti dell’uso legittimo delle armi e della legittima difesa permetterà, ovviamente, al pubblico ufficiale di ricorrere alla seconda qualora sia costretto a difendere la propria integrità fisica, sempre rispettando la dovuta proporzione tra beni in conflitto e mezzi utilizzati, soprattutto quando la semplice coazione fisica, ex art. 53 cp, non basti più a contenere il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, stavolta direttamente rivolta alla propria incolumità personale; è il caso del “conflitto a fuoco” tra le forze dell’ordine e i malviventi, dove l’uso delle armi, in sé legittimo, viene assorbito dallo specifico aspetto concernente la difesa personale dei medesimi pubblici ufficiali, i quali reagiscano in maniera proporzionata alla minaccia ingiusta cui sono fatti oggetto. 

Se quindi in materia di graduazione nell’uso delle armi giurisprudenza e dottrina assumono una posizione sostanzialmente conforme, difformità si sono evidenziate nell’interpretazione delle conseguenze connesse agli effetti dell’applicazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – Cedu – al nostro ordinamento.

Critiche sono state, infatti, sollevate in merito alle conclusioni della Corte Suprema nella pronuncia della IV Sezione penale del 6 febbraio 2003, n. 20031, nella quale è stata affermata la diretta applicabilità della Cedu attribuendole il crisma di norma di diritto comunitario, mentre più corretta sarebbe stata la sua classificazione di norma di diritto internazionale pattizio.

Altri autori hanno inoltre evidenziato forti perplessità sulla estensione interpretativa delineata nell’occasione dalla Cassazione, con riferimento all’art. 53 cp in materia di uso legittimo delle armi, poiché la chiave di lettura data dalla Corte ai principi enunciati nell’art. 2, comma 2° della Cedu condurrebbe a rendere meno rigorosi i presupposti in presenza dei quali può essere riconosciuta la legittimità dell’uso delle armi, controcorrente rispetto alla dottrina che fino ad allora si era occupata del coordinamento fra la Cedu e la scriminante in parola, la quale aveva sottolineato come corretto effetto di tale coordinamento fosse in realtà quello di restringere i margini applicativi dell’art. 53 cp, contribuendo, invece, a limare ulteriormente l’originaria vocazione autoritaria che la norma possedeva al momento dell’entrata in vigore del codice. Infatti la Cedu sembra piuttosto fissare uno standard minimo nella tutela dei diritti fondamentali, cosicché uno Stato membro del Consiglio d’Europa non potrebbe riconoscere a tali prerogative una tutela inferiore rispetto a quella formulata nel testo della Convenzione, nulla impedendo tuttavia che si possa attribuire loro un margine superiore di protezione, dimodoché se l’ordinamento italiano, mediante l’art. 53 cp, pretendesse maggiori garanzie per giustificare una limitazione del diritto alla vita, non violerebbe in alcun modo i propri obblighi convenzionali.  

Il diretto riferimento, nella pronuncia della Corte, all’art. 2, comma 2° della Cedu, che prevede l’uso legittimo delle armi anche nell’ipotesi di fuga dell’autore di un delitto, quando si tratti di eseguire un arresto legale o di impedire l’evasione di una persona detenuta, porterebbe invece ad assorbire nella presenza di una di queste concrete fattispecie ogni altra questione relativa alla sussistenza o meno degli ulteriori requisiti richiesti dall’art. 53 cp, così giustificandosi a priori l’uso legittimo delle armi anche in ipotesi di fuga.

Si finirebbe, quindi, seguendo tale particolare orientamento, per prescindere dalla valutazione e dalla verifica della necessaria proporzionalità tra i beni giuridici esposti a pericolo, attribuendo primaria importanza e prevalenza al perseguimento del reato in sé ed alla necessità di eseguire l’arresto, rispetto ai beni della vita e dell’integrità fisica dei soggetti in fuga, in aperto contrasto con l’ordine di valori espressi dalla Costituzione.

Osservando con attenzione la rigorosa formulazione dell’art. 2, comma 2° della Cedu, invece, non potrebbe che ricavarsi un’interpretazione necessariamente più restrittiva dei requisiti di applicabilità dell’art. 53 cp, anche in quei casi previsti nel suo 3° comma, disciplinati da leggi speciali e che sembrerebbero autorizzare in ogni caso il ricorso alle armi.

Il testo dell’art. 2 della Cedu che rileva ai fini dell’uso legittimo delle armi, infatti, non sembra autorizzare la privazione della vita sulla base della mera presenza di semplici circostanze fattuali – garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale, eseguire un arresto legale o impedire un’evasione, reprimere una sommossa o un’insurrezione – richiedendo altresì che il ricorso alla forza, giustificante l’uccisione, sia “assolutamente necessario”, così introducendo, sia pure mediante una formula sintetica, quei requisiti di necessità e proporzione che caratterizzano il complesso bilanciamento tra interessi contrapposti, posto alla base del riconoscimento di ogni ipotesi scriminante.

Conformemente si è espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che, in una sua importante pronuncia, ha sottolineato come, qualora le ragioni per fermare un soggetto non siano sufficientemente gravi, l’uso di una forza letale non sarebbe proporzionato e, dunque, in tali casi, se non si possa ricorrere ad un mezzo coattivo meno lesivo delle armi da fuoco, occorrerà rinunciare all’arresto.  

Si conferma, pertanto, l’esigenza, da un lato, di un’interpretazione dell’art. 53 cp aggiornata a tale tenore testuale, non potendosi non fare riferimento alla proporzione come suo autonomo implicito requisito, escludendosi quindi l’applicazione automatica dell’uso della coercizione fisica in presenza di qualsiasi forma di resistenza all’autorità e, su altro versante, di pretendere una graduale applicazione dei mezzi coercitivi utilizzati, ricordando che l’impiego delle armi può essere riconosciuto legittimo soltanto quale extrema ratio ed in presenza di condotte di attacco all’autorità particolarmente gravi e pericolose.

In realtà, nel caso di specie esaminato dalla Suprema Corte, sembrerebbero comunque ampiamente sussistere i citati requisiti di necessità e proporzione richiesti dall’art. 53 cp nella sua interpretazione costituzionalmente orientata, rendendosi pertanto indubbiamente applicabile alla fattispecie concreta la scriminante codicistica. 

La sentenza in esame, tuttavia, non attribuisce a tali circostanze un rilievo primario e decisivo ai fini della decisione, consegnando loro un ruolo ultroneo e solo ad abundantiam, generando l’inevitabile critica reazione della dottrina maggioritaria, che ammette l’uso delle armi, comunque sempre ponderato e graduato, solo all’esito di un attento giudizio di bilanciamento degli interessi in conflitto, richiedendo che la fuga dell’autore del fatto delittuoso avvenga con modalità tali da mettere in serio e concreto repentaglio la pubblica incolumità.

2.3 L’interpretazione adeguatrice ai principi costituzionali
In dottrina vi è chi ha osservato come la disciplina della scriminante dell’uso legittimo delle armi, contenuta nell’art. 53 cp, rappresenti un’aporia in un sistema che dovrebbe essere teleologicamente orientato all’integrazione sociale.

In particolare, il mancato espresso riferimento, nella norma, al requisito della proporzione avrebbe l’evidente funzione di privilegiare la condotta repressiva del pubblico ufficiale, attestando la supremazia di uno Stato autoritario verso il cittadino e affermando parametri di prevenzione generale negativa.

Gli apprezzati sforzi interpretativi compiuti sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, tesi a ricondurre entro margini accettabili per il nostro attuale ordinamento l’applicazione di questa causa di giustificazione, si scontrerebbero comunque con la sua struttura e soprattutto con la ratio della norma, impedendone una legittimazione secondo i parametri ordinamentali dello stato sociale di diritto.

In tal senso, apparirebbe inconciliabile con una prospettiva della pena come integrazione sociale la disposizione aggiunta all’art. 53 cp dall’art. 14 della legge 22 maggio 1975 n. 152, tipica della legislazione dell’emergenza, che seppur per i gravissimi comportamenti criminosi di cui fa menzione, non può non aver avuto la funzione di anticipare l’intervento coercitivo del pubblico ufficiale anche ad un momento anteriore a quello dell’inizio dell’esecuzione di tali reati, aprendo alla possibilità di reprimere con le armi anche meri atti preparatori, trattandosi, in caso contrario, di una norma del tutto superflua.

Il fenomeno dell’interpretazione c.d. “adeguatrice” ai principi costituzionali, che conduce a un’applicazione costituzionalmente orientata, va visto, tuttavia, quale principio ormai consolidato in ambito giurisprudenziale, prima ancora che dottrinale, poiché “il giudice ordinario interpreta la legge in senso conforme alla Costituzione; egli è tenuto a rimettere la questione d’incostituzionalità alla Corte Costituzionale soltanto in caso di verificata impossibilità di un adeguamento per via interpretativa; la dichiarazione d’illegittimità costituzionale è la soluzione estrema”.

Il controllo sulla costituzionalità delle leggi, finalizzato all’adeguamento della legislazione ai valori supremi dell’ordinamento, espressi in particolare dalla carta costituzionale e dal diritto comunitario, si potrà pertanto ritenere articolato in due fasi. Una prima affidata direttamente al giudice ordinario, che sarà tenuto a scegliere, tra le possibili interpretazioni, quella conforme ai principi costituzionali, scartando tutte quelle difformi, così esercitando un controllo diretto sulla costituzionalità delle leggi, concorrente con quello della Corte Costituzionale; una seconda fase, eventuale, attribuita naturalmente alla competenza del giudice costituzionale, che si aprirà solo in caso d’impossibilità di un’interpretazione adeguatrice del giudice ordinario, apparendo significativo, in tal senso, che non risulti, finora, che per l’art. 53 cp sia mai stata formalmente eccepita l’incostituzionalità.        

Quando poi la condotta del pubblico ufficiale non sia scriminata a causa di un eccesso dovuto a colpa, si configurerà invece una responsabilità ai sensi degli artt. 55 e 59 cp, così come confermato anche nella dottrina maggioritaria, che delinea un orientamento essenzialmente conforme con la giurisprudenza della Suprema Corte.

L’eccesso colposo, ex art. 55 cp, consiste nel travalicamento dei limiti oggettivi delle scriminanti comuni, rilevando come fatto “eccessivo” solo quello che si sia realizzato per colpa dell’agente.

In tal senso, si differenzia dall’eccesso doloso e da quello incolpevole nelle cause di giustificazione, poiché il primo è affrontato quale un comune caso di responsabilità dolosa, mentre il secondo come una qualsiasi ipotesi di condotta incolpevole, dove il comportamento oggettivamente eccessivo dipenda da un errore a sua volta determinato dal caso fortuito.  

La dottrina prospetta, su un piano oggettivo-strutturale, la suddivisione della fattispecie in due fasi.

Un primo momento nel quale la condotta del soggetto agente è riconducibile alle caratteristiche tipologiche e fattuali della causa di giustificazione; un secondo, invece, in cui essa, oltrepassati i limiti predeterminati della causa di giustificazione, non potrà più configurarsi come scriminata, finendo inevitabilmente nell’area del penalmente rilevante.

Su un piano soggettivo si osserva, invece, come inizialmente la Cassazione abbia accolto un’impostazione essenzialmente analoga a quella dei compilatori del codice vigente, sostenendo che l’eccesso colposo fosse sempre caratterizzato da un errore di valutazione della situazione fattuale rappresentante il presupposto della causa di giustificazione. 

Questa impostazione, applicabile tanto alla scriminante in senso reale, ex art. 55 cp, quanto a quella solo putativa ex art. 59 cp, si sostanziava nella erronea percezione della fattispecie concreta, ipotesi riconducibile a quelle previste nell’art. 47 cp in materia di errore di fatto.

In tale eventualità, infatti, dal punto di vista subbiettivo, l’errore ricade sulla rappresentazione della realtà, ritenendo l’agente di agire nei limiti del lecito, così escludendosi il dolo, ma non qualsiasi forma di responsabilità, residuando pertanto quella a carattere colposo.

Nel caso specifico dell’uso legittimo delle armi, quindi, l’errore sulla rappresentazione della fattispecie concreta conduce il pubblico ufficiale a ravvisare come necessario l’uso del mezzo coattivo, laddove invece non avrebbe potuto ricorrere a tale strumento di coercizione in osservanza dei limiti imposti dal requisito della proporzione.

Questa prima forma subbiettiva di eccesso colposo, definita quale errore “motivo”, si manifesta quindi allorché l’agente valuta erroneamente la situazione, ritenendo così di rientrare nella scriminante e, pertanto, vuole l’evento più grave.  

Successivamente la giurisprudenza e la dottrina, sempre in riferimento al profilo soggettivo nell’eventualità di eccesso colposo, superando questo originario orientamento, definito “monista”, che focalizzava l’attenzione solo sulla prospettiva dell’errore di rappresentazione, hanno proposto una seconda chiave di lettura per la scriminante in senso reale, suggerendo l’ulteriore ipotesi dell’errore di esecuzione, anche detto errore “inabilità”, che si distanzia in maniera sensibile dall’ambito dell’errore riconducibile al citato paradigma dell’art. 47 cp. Nell’errore sull’esecuzione, infatti, si evidenzia una divergenza tra il voluto e il realizzato poiché, nonostante una corretta valutazione della concreta situazione di fatto da parte dell’agente, a causa di una condotta caratterizzata da imprudenza, negligenza o imperizia, si verifica un evento più grave, subbiettivamente non voluto, sproporzionato rispetto a quello che sarebbe stato necessario o sufficiente cagionare, configurandosi pertanto una responsabilità di natura colposa.

2.4 Il concetto di “rischio consentito”
Alcuni autori, pur pienamente condividendola nei contenuti, affrontano tuttavia alcuni rilievi originati dall’esposta seconda prospettiva interpretativa dell’eccesso colposo.

Si sottolinea infatti come, seguendo in forma acritica l’orientamento delineato dalla Suprema Corte nell’ammettere l’uso delle armi da fuoco da parte del pubblico ufficiale anche nei confronti di chi fugge, seppur in maniera “pericolosa”, si finisca per approvare l’idea che si possa quindi cagionare e scriminare un pregiudizio anche maggiore di quello prospettato, magari nei confronti di terzi completamente estranei alla vicenda.

Introdotto così il concetto di “rischio consentito”, si giungerebbe a un’inammissibile interpretatio abrogans dell’art. 55 cp, in relazione all’art. 53 cp, evidenziandosi solo la necessità di verificare l’an dell’uso legittimo delle armi, segnatamente alla legittimità in sé del medesimo, mentre la responsabilità per eccesso colposo andrebbe a priori esclusa rispetto al quomodo dell’uso stesso, non potendosi mai configurare di fatto l’ipotesi dell’errore inabilità. 

Seguendo dogmaticamente il citato orientamento giurisprudenziale, infatti, una volta soddisfatte le condizioni iniziali di configurazione e giustificazione dell’uso legittimo delle armi ex art. 53 cp, il pubblico ufficiale potrebbe paradossalmente essere sempre esonerato dalle responsabilità derivanti dal successivo verificarsi di un evento più grave di quello da lui voluto, poiché quest’ultimo sarebbe stabilmente ricollegabile al rischio insito nell’uso delle armi in sé e mai riconducibile alla violazione, da parte del soggetto agente, di un obbligo cautelare nel predetto uso. Qualunque condotta nell’ambito di codesto “rischio consentito” potrebbe pertanto rientrare nell’intrinseca pericolosità dell’azione, così configurandosi una sorta di zona franca, sganciata da ogni obbligo cautelare per il pubblico ufficiale, mentre, al contrario, proprio l’elevata pericolosità della pratica delle armi imporrebbe l’adozione di ogni cautela possibile. La lettura dell’art. 53 cp in tale veste farebbe quindi nell’evidenza riemergere, addirittura avvalorandola, la vocazione autoritaria e illiberale della scriminante dell’uso legittimo delle armi.

L’analisi complessiva dell’orientamento giurisprudenziale in esame, osservato nella sua interezza, non sembra tuttavia contenere aspetti tali da poter sostenere che Corte Suprema sia giunta a derive così estreme. 

2.5 L’argine dell’extrema ratio
Gli evidenti e ripetuti richiami, infatti, all’osservanza dei principi della necessità e della legittimità dell’uso dell’arma in sé, che sottintendono i requisiti dell’extrema ratio e dell’uso del mezzo coattivo meno dannoso, nonché della liceità delle modalità di utilizzo dell’arma decise dal pubblico ufficiale, viepiù dell’agire nei limiti della proporzione tra gli interessi in conflitto, dovrebbero rappresentare un robusto argine atto ad evitare errori sulla rappresentazione, poiché se il pubblico ufficiale si è mosso nel rispetto dei limiti della necessità, della graduazione e della proporzione, difficilmente potrà aver commesso errori di valutazione, compromettendo in nuce lo stesso bilanciamento dei beni in gioco. Residuerebbe allora, per configurare l’ipotesi dell’eccesso colposo, solamente l’eventualità dell’errore inabilità nelle modalità esecutive dell’utilizzo del mezzo coattivo, per il quale la Cassazione esclude possibili responsabilità qualora il pubblico ufficiale abbia agito rispettando i requisiti della diligenza e della perizia nell’uso dell’arma. La Corte, quindi, nell’affermare “Il rischio di evento diverso e più grave rispetto a quello voluto dall’agente nella situazione di legittimo uso delle armi non va posto a carico del pubblico ufficiale che ha operato nell’ambito della previsione legislativa con diligenza e perizia” sembra piuttosto aver dato soluzione alla scelta tra la rinuncia definitiva all’utilizzo delle armi o l’accettazione del pericolo generato dall’uso in sé dell’arma.

La prima opzione, infatti, se integralmente accolta, porterebbe inevitabilmente, in determinate circostanze, il pubblico ufficiale nell’impossibilità di salvaguardare gli interessi che l’adempimento del dovere richiede di soddisfare, quali il perseguimento dei reati e soprattutto la tutela dell’incolumità e della vita delle persone, che lui è istituzionalmente deputato a difendere.

Se da un lato, infatti, si eliderebbe a priori il rischio connesso alla connaturale pericolosità dell’arma, dall’altro tuttavia si renderebbe il pubblico ufficiale, e quindi lo Stato che nella circostanza rappresenta, inaccettabilmente impotente nel fronteggiare condotte aggressive e pericolose proprio per l’incolumità dei terzi, poiché le forze dell’ordine non si troverebbero nelle condizioni di poter contrastare comportamenti che, a causa della loro particolare gravità, richiedono il necessario uso di mezzi dalle potenzialità lesive.

Davanti a questa inquietante ipotesi di evidente e pericoloso squilibrio tra le potenzialità offensive delle forze dell’ordine, castrate da una rinuncia a priori dell’uso delle armi, soprattutto da fuoco, e gli strumenti nella disponibilità di soggetti intenzionati a commettere fatti di reato, la Cassazione sceglie appunto una soluzione tesa a consentire ai pubblici ufficiali l’utilizzo per loro di tutti i mezzi coattivi in dotazione, purché nel necessario bilanciamento e proporzione tra l’interesse all’adempimento del dovere e l’interesse che si rischia di ledere per rendere possibile tale adempimento. 

Si sostiene, pertanto, che per garantire la necessaria tutela della sicurezza e dell’incolumità delle persone, in mancanza di altri strumenti idonei e meno lesivi, sempre comunque al di fuori di responsabilità colpose per negligenza o imperizia del pubblico ufficiale, la comunità deve inevitabilmente accettare il rischio della possibile lesione della medesima incolumità dei cittadini, terzi esterni alla fattispecie, attraverso il verificarsi di un “evento diverso e più grave” di quello voluto dal soggetto agente.

2.6 L’ambito applicativo della scriminante putativa
Analizzate le possibili antinomie interpretative caratterizzanti la scriminante in senso reale, si osserva invece, in riferimento all’ambito applicativo della scriminante putativa, una sostanziale conformità tra giurisprudenza e dottrina, non emergendo particolari difficoltà per entrambe ad attribuire rilevanza al putativo.

In tal caso, infatti, l’errore non inficia l’esimente, come nel classico caso di cronaca in cui il delinquente usi una pistola giocattolo, che appaia in tutto e per tutto vera, e proprio per tale illusoria apparenza sia ferito o ucciso anche se, in concreto, non armato; in simili ipotesi l’uso delle armi resta pienamente legittimo, configurandosi la scusabilità dell’errore indotto dall’azione del delinquente, dunque da attribuirsi al solo rischio consapevolmente corso da quest’ultimo, mentre la percezione del pericolo viene lasciata al solo apprezzamento dell’operatore di polizia che abbia a trovarsi in simili circostanze.

Ne consegue, quindi, che le scriminanti comuni, tra cui l’uso legittimo delle armi ex art. 53 cp, non elidono solo un elemento del reato, ma rendono il fatto lecito fin dall’origine, poiché tale fatto, quando conforme al tipo descritto dalla norma penale, sarà considerato ab initio come lecito.  La disciplina in esame manifesta, peraltro, evidenti analogie con quella preveduta dal comma 1° dell’art. 47 cp, in materia di errore di fatto, poiché come l’erronea supposizione che manchino uno o più elementi costitutivi di un reato produce, quando è dovuta a colpa, una responsabilità per delitto colposo, lo stesso così accade anche in caso di erronea credenza che sussistano situazioni scriminanti. 

Alla luce di quanto elaborato al riguardo dalla Suprema Corte, anche per la scriminante in senso putativo è possibile osservare una duplice configurazione della concreta fattispecie.

Una prima fase in cui la condotta del soggetto agente sarà scriminata in quanto rientrante nella previsione della prima parte del comma 4° dell’art. 59 cp, dimodoché se l’errore del soggetto agente era scusabile, cioè inevitabile, si avrà la completa giustificazione del fatto. Una seconda fase nella quale, invece, a causa di errore determinato da colpa, il soggetto sarà esposto a responsabilità penale di natura colposa determinata dal superamento dei limiti imposti dalla scriminante medesima quando, ai sensi stavolta della seconda parte del comma 4° dell’art. 59 cp, l’errore sulle circostanze di esclusione della pena sia determinato da sua colpa e il fatto commesso sia previsto dalla legge come delitto colposo. In tale eventualità, infatti, l’errore sarebbe stato eludibile, poiché l’agente, avvalendosi dei suoi normali poteri di attenzione, avrebbe potuto accorgersi del reale stato delle cose. 

La ratio della norma sarebbe da ricondurre alla circostanza che l’ordinamento, nella prima ipotesi, non ha interesse a punire colui che tiene una condotta conforme alla norma giuridica, anche qualora egli presupponga di compiere un illecito penale, a nulla rilevando l’eventuale intenzionalità dell’agente, mentre nella seconda ipotesi non vi sarebbe interesse a punire colui che commette un reato in presenza di una circostanza scriminante, salvo che l’errore sulla medesima sia determinato da colpa del soggetto stesso, che sarà in tal caso punibile qualora la legge preveda il fatto come delitto colposo. Nel caso concreto sono infatti presenti tutti gli estremi di due norme antinomiche, quella che incrimina il fatto e l’antitetica che ne facoltizza o ne impone la realizzazione, profilandosi un conflitto tra norme che, tuttavia, è solo apparente, in quanto l’unità dell’ordinamento lo risolve attribuendo prevalenza alla norma che facoltizza o impone la realizzazione del fatto, che sarà pertanto lecito e, dunque, non punibile, per difetto del secondo estremo del reato, cioè l’antigiuridicità del fatto. 

2.7 L’aberratio ictus nell’uso legittimo delle armi
Dubbi invece sussistono sull’applicazione, in materia di uso legittimo delle armi, della disciplina in tema di aberratio ictus, ai sensi dell’art. 82 cp, qualora il pubblico ufficiale, nel porre in essere la condotta scriminata, per un errore nell’uso dell’arma, ad esempio per sbaglio di mira o perché la medesima sia difettosa, ovvero per altra ragione, quale lo spostamento improvviso dell’aggressore, cagioni offesa a una persona differente da quella che aveva posto in essere la resistenza o la violenza.

In tale eventualità l’offesa ideata dall’agente sarebbe fondata su una causa di giustificazione, mentre l’offesa concretamente realizzata, riguardando persona diversa dall’aggressore, apparirebbe non coperta dalla scriminante, come nel caso affrontato nella sentenza n. 6719 del 22 maggio 2014, dalla Sezione IV della Suprema Corte, nel quale colui che subisce l’offesa era persona estranea al teatro criminoso nonché diversa dai rapinatori in fuga, che per puro caso transitava con il proprio autoveicolo nelle vicinanze del luogo ove si era verificata la rapina. Tale sentenza non risolve la questione in base all’art. 82 cp, bensì facendo completo affidamento nell’art. 53 cp, in particolare espressamente richiamando nel dispositivo un importante precedente giurisprudenziale il quale, partendo dalla premessa che risultino soddisfatti dal pubblico ufficiale determinati requisiti e condizioni, afferma come il rischio del verificarsi di un evento più grave rispetto a quello perseguito non possa essere posto a suo carico, concludendo la Corte che “non è possibile operare distinzioni secondo che l’evento più grave venga a colpire gli stessi autori dell’illecito o anche terzi coinvolti nel teatro del sinistro, questi ultimi, peraltro, difficilmente distinguibili dai primi in ragione dell’accertata dinamica dell’intera azione”.

Al riguardo, la disputa dottrinale sull’applicabilità o meno, in casi del genere, della disciplina dell’art. 82 cp viene quindi risolta nell’affermare che, per valutare la punibilità del soggetto agente, basta riferirsi ai principi generali in tema di scriminanti, non occorrendo richiamare la disciplina in materia di aberratio, poiché l’agente che offende la persona ideata e, oltre questa, un terzo, non risponde tanto dell’azione ideata, per assenza di antigiuridicità, tanto dell’azione concretamente realizzata, per assenza di dolo. La presenza di una scriminante, infatti, rompe l’omogeneità di rilevanza penale richiesta dal 2° comma dell’art. 82 cp, impedendo l’applicazione della sua disciplina, trattandosi questa di norma che presuppone l’assenza di cause di giustificazione. La vicenda sarà pertanto regolata alla stregua dell’art. 55 cp anche qualora l’eccesso colposo riguardi un soggetto estraneo, altrimenti si rischierebbe il paradosso di pretendere diligenza e perizia nell’uso delle armi solo verso l’aggressore. Al contrario, il pubblico ufficiale è sempre tenuto ad agire rispettando i requisiti della proporzionalità e della necessità alla luce delle concrete circostanze del caso, cosicché il rischio della verificazione di un evento lesivo sproporzionato e diverso da quello programmato, in assenza dell’osservanza delle citate regole cautelari, sarà posto comunque a suo carico. Diversamente, qualora l’offesa cagionata al terzo estraneo sia dovuta ad un evento fortuito, troverà applicazione l’art. 45 cp, con la condotta del soggetto agente che non sarà punibile per l’evidente impossibilità di prevedere l’evento non voluto.

14/01/2022