Paolo Aceto e Linda Roberti

Protezione dei testimoni e dei collaboratori di giustizia

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ins 7-21

1. Prefazione 

di Vittorio Rizzi*

L’impegno e la nobiltà di chi resta nell’ombra

Il lavoro all’interno del sistema di protezione dei collaboratori di giustizia costituisce un impegno molto complesso, sia che si vestano i panni del magistrato che dell’operatore di polizia. La difficoltà non dipende tanto dalla fatica o dal dover garantire sicurezza e tutela a persone in pericolo, aspetti non distanti da analoghe situazioni di rischio, ma a quel conflitto interiore tra diritto ed etica che, più che in altri settori, vive chi deve assicurare protezione, accesso a benefici e sconti di pena in favore di soggetti che si sono macchiati di crimini efferati. Ma è proprio qui che emerge con forza il significato del giuramento di fedeltà alla legge fatto da chi svolge quelle funzioni pubbliche: la rotta da seguire dal giudice e dall’operatore delle forze di polizia, inseriti in quel sistema, deve essere, infatti, sempre e solo l’osservanza delle norme, mai la personale scala di valori e, meno che mai, il pregiudizio.

Nella lotta a quell’antistato rappresentato da terrorismo e mafia – fabbriche di morti tra cui anche tanti servitori dello Stato – i meccanismi democratici previsti dalla nostra Costituzione hanno realizzato un complesso sistema di strumenti normativi, che a partire dagli anni ‘70 si è via via evoluto e ha contribuito in modo decisivo ad assicurare giustizia alle vittime e a riaffermare la legalità su tanti territori macchiati di violenza e dolore. Questo inserto ripercorre la storia di un iter normativo, che corre parallelo alle vicende drammatiche degli anni di piombo e della guerra di mafia che hanno segnato il nostro Paese. Arrivando, attraverso citazioni significative dei giudici Falcone e Borsellino, a delineare il quadro dell’attuale sistema di protezione dei collaboratori e quello differenziato previsto per i testimoni di giustizia, data la diversa situazione di chi non ha commesso alcun reato (essendone spesso vittima) e rende allo Stato un servizio per senso civico, esponendo sé e la propria famiglia ad un concreto pericolo di vendetta.

Tra gli attori del sistema, il focus si incentra sul lavoro del Servizio centrale di protezione, responsabile del programma stabilito per ciascun soggetto dalla Commissione centrale, attuato attraverso il lavoro dei 19 Nuclei operativi di protezione (Nop) – che si occupano principalmente degli aspetti logistici e di assistenza – e il dialogo costante con i Prefetti, quali Autorità provinciali di pubblica sicurezza, e le forze di polizia per i profili più strettamente legati alla sicurezza. Nel tratteggiare i numeri della popolazione protetta e alcuni particolari della normativa – quali i documenti di copertura e il cambiamento delle generalità – quello che emerge da questa pubblicazione è il profilo dell’operatore di polizia, che va molto al di là degli standard professionali tipici della normalità degli impieghi a cui può essere adibito. Un lavoro che può essere svolto solo da chi abbia una forte motivazione e abbia ben chiaro quel dovere di osservanza delle leggi “con disciplina ed onore”, che impone di abbandonare ogni moralismo, per garantire i principi cardine della protezione e mimetizzazione della popolazione protetta che ispirano tutto il sistema. 

Agire nella più stretta legalità, rinunciando ad ogni valutazione sul merito delle condotte (che spettano solo nel momento della sentenza a chi esercita funzioni giurisdizionali), non basta ancora per svolgere un buon servizio: l’azione che non sia anche sorretta da umanità e vicinanza non potrebbe mai far funzionare un macchina complessa basata sulla collaborazione giudiziaria di chi per scelta o necessità (come è spesso per i familiari) si trova a vivere una nuova vita. È quanto emerge dal racconto del dirigente di un Nop che si confronta quotidianamente, come i suoi colleghi, con le difficoltà e il disorientamento delle persone sottoposte a tutela, spesso con i conflitti familiari dovuti alla non condivisione della scelta di collaborare, con il disagio psicologico di bambini privati di uno o entrambi i genitori o semplicemente catapultati in una nuova realtà e spogliati persino del loro nome. Non basta applicare la legge ma occorre avere capacità relazionali, competenze multidisciplinari e creatività per risolvere situazioni sempre nuove: un atto di bullismo che colpisce un minore sotto protezione o di cui questi sia autore, il maltrattamento di un convivente, una malattia grave, un’occasione formativa o professionale, sono tutte situazioni che vanno gestite con la necessità di garantire quell’anonimato (rispetto alla vera identità) che è il cardine del sistema di protezione. Rimane, così, mimetizzato e sotto silenzio anche il lavoro dell’operatore che svolge il proprio dovere, nascosto insieme a chi deve essere protetto, senza gli onori della cronaca che racconta solo le criticità che dovessero emergere. 

Un impegno di prevenzione, tutela e cura che esprime, invece, il significato più nobile del lavoro di polizia.

*vice direttore generale della ps 

2. Introduzione  

Il ricorso ai contributi collaborativi rappresenta un elemento strutturale nella lotta alla criminalità organizzata. Di fronte a organizzazioni criminali sofisticate e storicamente radicate, infatti, l’azione di contrasto non può prescindere da due strumenti che permettono di penetrarle e disarticolarle dall’interno: le intercettazioni e le dichiarazioni degli ex consociati. Queste ultime, in particolare, offrono una formidabile chiave di lettura del fenomeno criminale, soprattutto se di matrice mafiosa, consentendo non solo di riscontrare episodi e fatti storici, ma offrendo una visione organica di ruoli e gerarchie, relazioni interpersonali, riferimenti simbolici, codici comportamentali, interessi finanziari e altri aspetti caratterizzanti il tessuto malavitoso da destrutturare. L’esigenza di adeguate misure di tutela e assistenza per i collaboratori di giustizia, quindi, non risponde solo a un obbligo morale per lo Stato, ma anche a un chiaro interesse per il Paese: quale fattore incentivante di un istituto efficacissimo nel contrasto alle forme di criminalità più virulente e organizzate, ma anche quale opportunità di riscatto personale e reinserimento sociale coerente con il dettato costituzionale. Ne discende la perdurante necessità di un sistema di protezione e supporto per quanti rendano dichiarazioni alla giustizia, siano essi collaboratori, sia che ci si riferisca alla diversa figura dei testimoni, per i quali emerge l’imperativo etico-sociale di sostenerli e affiancarli nell’esercizio del loro dovere civico.

Esigenza avvertita anche da tutti i principali Paesi europei, che guardano con grande interesse all’esperienza italiana, così come, nei primi anni ’90, l’Italia ebbe modo di ispirarsi a quella statunitense. Non sfugge certo che l’applicazione pratica degli strumenti di protezione approntati dalla legge evidenzi talora criticità che, pur non minando la solidità del sistema, rischiano nel caso concreto di sminuirne l’efficacia. Tuttavia, proprio l’esiguità statistica di tali episodi, in alcuni casi strumentalmente emersi alla ribalta mediatica e sempre emblematici di situazioni di malcontento e disagio, conferma la sostanziale validità del sistema, comunque in grado di gestire una popolazione protetta che, a metà dello scorso decennio, aveva raggiunto picchi di oltre 6.500 unità. Un dato, quello numerico, di cui tenere sempre conto, nell’ottica di valorizzare le collaborazioni di qualità e scongiurare derive assistenzialistiche rischiose per la tenuta di un articolato e complesso sistema che impiega rilevanti risorse pubbliche.

 

3. Il quadro normativo

Il primo esempio italiano di disciplina della collaborazione con la giustizia risale agli anni ’70 del secolo scorso, quando, per fronteggiare la piaga dei sequestri di persona a scopo di estorsione, la legge 14 ottobre 1974, n.497 modificò l’art.630 cp, prevedendo da un lato l’inasprimento generale del regime sanzionatorio, dall’altro, per chi si fosse adoperato per consentire alla vittima di riacquistare la libertà senza il pagamento del riscatto, l’applicazione delle pene (significativamente più lievi) previste per il delitto di sequestro di persona (art.605 cp). Con la “legislazione d’emergenza” degli anni 1979/1987, il sistema del “doppio binario” (inasprimento della risposta penale per gli autori dei reati e disposizioni premiali per i dissociati o collaboranti) venne esteso al contrasto del terrorismo. In questo caso, l’intento del legislatore non fu solo di offrire stimoli di dissociazione o perseguire delitti, ma anche di

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08/07/2021