Armando Albano
L’uso legittimo delle armi
Aspetti di legittimità/2
2.2 Effetti dell’applicazione della Cedu
La necessaria sussistenza di proporzionalità nell’uso dei mezzi coattivi sulla persona, permetterà quindi di ritenere possibile l’uso di lacrimogeni per costringere gli occupanti di un edificio ad uscirne, ovvero dei rapinatori ad abbandonare il luogo ove si sono barricati, ma risulterà sicuramente eccessivo e sproporzionato sparare su dei manifestanti che si siano distesi a terra per impedire il massaggio delle forze dell’ordine, essendo possibile provare a spostarli di peso.
La selezione dell’ultimo estremo step impone, comunque, che l’uso delle armi sia rivolto solo verso colui che ha posto in essere la situazione necessitante, così frapponendosi all’esecuzione del dovere d’ufficio, non potendosi mai strumentalizzare altri soggetti estranei al fine di indurre l’effettivo destinatario della coazione a proseguire nella propria condotta; appare quindi corretta quella dottrina che esclude la scriminabilità del pubblico ufficiale il quale, per indurre il soggetto che resiste all’arresto a consegnarsi, faccia uso di un mezzo coattivo contro un familiare di quest’ultimo.
Il carattere di alternatività tra le scriminanti dell’uso legittimo delle armi e della legittima difesa permetterà, ovviamente, al pubblico ufficiale di ricorrere alla seconda qualora sia costretto a difendere la propria integrità fisica, sempre rispettando la dovuta proporzione tra beni in conflitto e mezzi utilizzati, soprattutto quando la semplice coazione fisica, ex art. 53 cp, non basti più a contenere il pericolo attuale di un’offesa ingiusta, stavolta direttamente rivolta alla propria incolumità personale; è il caso del “conflitto a fuoco” tra le forze dell’ordine e i malviventi, dove l’uso delle armi, in sé legittimo, viene assorbito dallo specifico aspetto concernente la difesa personale dei medesimi pubblici ufficiali, i quali reagiscano in maniera proporzionata alla minaccia ingiusta cui sono fatti oggetto.
Se quindi in materia di graduazione nell’uso delle armi giurisprudenza e dottrina assumono una posizione sostanzialmente conforme, difformità si sono evidenziate nell’interpretazione delle conseguenze connesse agli effetti dell’applicazione della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali – Cedu – al nostro ordinamento.
Critiche sono state, infatti, sollevate in merito alle conclusioni della Corte Suprema nella pronuncia della IV Sezione penale del 6 febbraio 2003, n. 20031, nella quale è stata affermata la diretta applicabilità della Cedu attribuendole il crisma di norma di diritto comunitario, mentre più corretta sarebbe stata la sua classificazione di norma di diritto internazionale pattizio.
Altri autori hanno inoltre evidenziato forti perplessità sulla estensione interpretativa delineata nell’occasione dalla Cassazione, con riferimento all’art. 53 cp in materia di uso legittimo delle armi, poiché la chiave di lettura data dalla Corte ai principi enunciati nell’art. 2, comma 2° della Cedu condurrebbe a rendere meno rigorosi i presupposti in presenza dei quali può essere riconosciuta la legittimità dell’uso delle armi, controcorrente rispetto alla dottrina che fino ad allora si era occupata del coordinamento fra la Cedu e la scriminante in parola, la quale aveva sottolineato come corretto effetto di tale coordinamento fosse in realtà quello di restringere i margini applicativi dell’art. 53 cp, contribuendo, invece, a limare ulteriormente l’originaria vocazione autoritaria che la norma possedeva al momento dell’entrata in vigore del codice. Infatti la Cedu sembra piuttosto fissare uno standard minimo nella tutela dei diritti fondamentali, cosicché uno Stato membro del Consiglio d’Europa non potrebbe riconoscere a tali prerogative una tutela inferiore rispetto a quella formulata nel testo della Convenzione, nulla impedendo tuttavia che si possa attribuire loro un margine superiore di protezione, dimodoché se l’ordinamento italiano, mediante l’art. 53 cp, pretendesse maggiori garanzie per giustificare una limitazione del diritto alla vita, non violerebbe in alcun modo i propri obblighi convenzionali.
Il diretto riferimento, nella pronuncia della Corte, all’art. 2, comma 2° della Cedu, che prevede l’uso legittimo delle armi anche nell’ipotesi di fuga dell’autore di un delitto, quando si tratti di eseguire un arresto legale o di impedire l’evasione di una persona detenuta, porterebbe invece ad assorbire nella presenza di una di queste concrete fattispecie ogni altra questione relativa alla sussistenza o meno degli ulteriori requisiti richiesti dall’art. 53 cp, così giustificandosi a priori l’uso legittimo delle armi anche in ipotesi di fuga.
Si finirebbe, quindi, seguendo tale particolare orientamento, per prescindere dalla valutazione e dalla verifica della necessaria proporzionalità tra i beni giuridici esposti a pericolo, attribuendo primaria importanza e prevalenza al perseguimento del reato in sé ed alla necessità di eseguire l’arresto, rispetto ai beni della vita e dell’integrità fisica dei soggetti in fuga, in aperto contrasto con l’ordine di valori espressi dalla Costituzione.
Osservando con attenzione la rigorosa formulazione dell’art. 2, comma 2° della Cedu, invece, non potrebbe che ricavarsi un’interpretazione necessariamente più restrittiva dei requisiti di applicabilità dell’art. 53 cp, anche in quei casi previsti nel suo 3° comma, disciplinati da leggi speciali e che sembrerebbero autorizzare in ogni caso il ricorso alle armi.
Il testo dell’art. 2 della Cedu che rileva ai fini dell’uso legittimo delle armi, infatti, non sembra autorizzare la privazione della vita sulla base della mera presenza di semplici circostanze fattuali – garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale, eseguire un arresto legale o impedire un’evasione, reprimere una sommossa o un’insurrezione – richiedendo altresì che il ricorso alla forza, giustificante l’uccisione, sia “assolutamente necessario”, così introducendo, sia pure mediante una formula sintetica, quei requisiti di necessità e proporzione che caratterizzano il complesso bilanciamento tra interessi contrapposti, posto alla base del riconoscimento di ogni ipotesi scriminante.
Conformemente si è espressa anche la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo che, in una sua importante pronuncia, ha sottolineato come, qualora le ragioni per fermare un soggetto non siano sufficientemente gravi, l’uso di una forza letale non sarebbe proporzionato e, dunque, in tali casi, se non si possa ricorrere ad un mezzo coattivo meno lesivo delle armi da fuoco, occorrerà rinunciare all’arresto.
Si conferma, pertanto, l’esigenza, da un lato, di un’interpretazione dell’art. 53 cp aggiornata a tale tenore testuale, non potendosi non fare riferimento alla proporzione come suo autonomo implicito requisito, escludendosi quindi l’applicazione automatica dell’uso della coercizione fisica in presenza di qualsiasi forma di resistenza all’autorità e, su altro versante, di pretendere una graduale applicazione dei mezzi coercitivi utilizzati, ricordando che l’impiego delle armi può essere riconosciuto legittimo soltanto quale extrema ratio ed in presenza di condotte di attacco all’autorità particolarmente gravi e pericolose.
In realtà, nel caso di specie esaminato dalla Suprema Corte, sembrerebbero comunque ampiamente sussistere i citati requisiti di necessità e proporzione richiesti dall’art. 53 cp nella sua interpretazione costituzionalmente orientata, rendendosi pertanto indubbiamente applicabile alla fattispecie concreta la scriminante codicistica.
La sentenza in esame, tuttavia, non attribuisce a tali circostanze un rilievo primario e decisivo ai fini della decisione, consegnando loro un ruolo ultroneo e solo ad abundantiam, generando l’inevitabile critica reazione della dottrina maggioritaria, che ammette l’uso delle armi, comunque sempre ponderato e graduato, solo all’esito di un attento giudizio di bilanciamento degli interessi in conflitto, richiedendo che la fuga dell’autore del fatto delittuoso avvenga con modalità tali da mettere in serio e concreto repentaglio la pubblica incolumità.
2.3 L’interpretazione adeguatrice ai principi costituzionali
In dottrina vi è chi ha osservato come la disciplina della scriminante dell’uso legittimo delle armi, contenuta nell’art. 53 cp, rappresenti un’aporia in un sistema che dovrebbe essere teleologicamente orientato all’integrazione sociale.
In particolare, il mancato espresso riferimento, nella norma, al requisito della proporzione avrebbe l’evidente funzione di privilegiare la condotta repressiva del pubblico ufficiale, attestando la supremazia di uno Stato autoritario verso il cittadino e affermando parametri di prevenzione generale negativa.
Gli apprezzati sforzi interpretativi compiuti sia dalla dottrina che dalla giurisprudenza, tesi a ricondurre entro margini accettabili per il nostro attuale ordinamento l’applicazione di questa causa di giustificazione, si scontrerebbero comunque con la sua struttura e soprattutto con la ratio della norma, impedendone una legittimazione secondo i parametri ordinamentali dello stato sociale di diritto.
In tal senso, apparirebbe inconciliabile con una prospettiva della pena come integrazione sociale la disposizione aggiunta all’art. 53 cp dall’art. 14 della legge 22 maggio 1975 n. 152, tipica della legislazione dell’emergenza, che seppur per i gravissimi comportamenti criminosi di cui fa menzione, non può non aver avuto la funzione di anticipare l’intervento coercitivo del pubblico ufficiale anche ad un momento anteriore a quello dell’inizio dell’esecuzione di tali reati, aprendo alla possibilità di reprimere con le armi anche meri atti preparatori, trattandosi, in caso contrario, di una norma del tutto superflua.
Il fenomeno dell’interpretazione c.d. “adeguatrice” ai principi costituzionali, che conduce a un’applicazione costituzionalmente orientata, va visto, tuttavia, quale principio ormai consolidato in ambito giurisprudenziale, prima ancora che dottrinale, poiché “il giudice ordinario interpreta la legge in senso conforme alla Costituzione; egli è tenuto a rimettere la questione d’incostituzionalità alla Corte Costituzionale soltanto in caso di verificata impossibilità di un adeguamento per via interpretativa; la dichiarazione d’illegittimità costituzionale è la soluzione estrema”.
Il controllo sulla costituzionalità delle leggi, finalizzato all’adeguamento della legislazione ai valori supremi dell’ordinamento, espressi in particolare dalla carta costituzionale e dal diritto comunitario, si potrà pertanto ritenere articolato in due fasi. Una prima affidata direttamente al giudice ordinario, che sarà tenuto a scegliere, tra le possibili interpretazioni, quella conforme ai principi costituzionali, scartando tutte quelle difformi, così esercitando un controllo diretto sulla costituzionalità delle leggi, concorrente con quello della Corte Costituzionale; una seconda fase, eventuale, attribuita naturalmente alla competenza del giudice costituzionale, che si aprirà solo in caso d’impossibilità di un’interpretazione adeguatrice del giudice ordinario, apparendo significativo, in tal senso, che non risulti, finora, che per l’art. 53 cp sia mai stata formalmente eccepita l’incostituzionalità.
Quando poi la condotta del pubblico ufficiale non sia scriminata a causa di un eccesso dovuto a colpa, si configurerà invece una responsabilità ai sensi degli artt. 55 e 59 cp, così come confermato anche nella dottrina maggioritaria, che delinea un orientamento essenzialmente conforme con la giurisprudenza della Suprema Corte.
L’eccesso colposo, ex art. 55 cp, consiste nel travalicamento dei limiti oggettivi delle scriminanti comuni, rilevando come fatto “eccessivo” solo quello che si sia realizzato per colpa dell’agente.
In tal senso, si differenzia dall’eccesso doloso e da quello incolpevole nelle cause di giustificazione, poiché il primo è affrontato quale un comune caso di responsabilità dolosa, mentre il secondo come una qualsiasi ipotesi di condotta incolpevole, dove il comportamento oggettivamente eccessivo dipenda da un errore a sua volta determinato dal caso fortuito.
La dottrina prospetta, su un piano oggettivo-strutturale, la suddivisione della fattispecie in due fasi.
Un primo momento nel quale la condotta del soggetto agente è riconducibile alle caratteristiche tipologiche e fattuali della causa di giustificazione; un secondo, invece, in cui essa, oltrepassati i limiti predeterminati della causa di giustificazione, non potrà più configurarsi come scriminata, finendo inevitabilmente nell’area del penalmente rilevante.
Su un piano soggettivo si osserva, invece, come inizialmente la Cassazione abbia accolto un’impostazione essenzialmente analoga a quella dei compilatori del codice vigente, sostenendo che l’eccesso colposo fosse sempre caratterizzato da un errore di valutazione della situazione fattuale rappresentante il presupposto della causa di giustificazione.
Questa impostazione, applicabile tanto alla scriminante in senso reale, ex art. 55 cp, quanto a quella solo putativa ex art. 59 cp, si sostanziava nella erronea percezione della fattispecie concreta, ipotesi riconducibile a quelle previste nell’art. 47 cp in materia di errore di fatto.
In tale eventualità, infatti, dal punto di vista subbiettivo, l’errore ricade sulla rappresentazione della realtà, ritenendo l’agente di agire nei limiti del lecito, così escludendosi il dolo, ma non qualsiasi forma di responsabilità, residuando pertanto quella a carattere colposo.
Nel caso specifico dell’uso legittimo delle armi, quindi, l’errore sulla rappresentazione della fattispecie concreta conduce il pubblico ufficiale a ravvisare come necessario l’uso del mezzo coattivo, laddove invece non avrebbe potuto ricorrere a tale strumento di coercizione in osservanza dei limiti imposti dal requisito della proporzione.
Questa prima forma subbiettiva di eccesso colposo, definita quale errore “motivo”, si manifesta quindi allorché l’agente valuta erroneamente la situazione, ritenendo così di rientrare nella scriminante e, pertanto, vuole l’evento più grave.
Successivamente la giurisprudenza e la dottrina, sempre in riferimento al profilo soggettivo nell’eventualità di eccesso colposo, superando questo originario orientamento, definito “monista”, che focalizzava l’attenzione solo sulla prospettiva dell’errore di rappresentazione, hanno proposto una seconda chiave di lettura per la scriminante in senso reale, suggerendo l’ulteriore ipotesi dell’errore di esecuzione, anche detto errore “inabilità”, che si distanzia in maniera sensibile dall’ambito dell’errore riconducibile al citato paradigma dell’art. 47 cp. Nell’errore sull’esecuzione, infatti, si evidenzia una divergenza tra il voluto e il realizzato poiché, nonostante una corretta valutazione della concreta situazione di fatto da parte dell’agente, a causa di una condotta caratterizzata da imprudenza, negligenza o imperizia, si verifica un evento più grave, subbiettivamente non voluto, sproporzionato rispetto a quello che sarebbe stato necessario o sufficiente cagionare, configurandosi pertanto una responsabilità di natura colposa.
2.4 Il concetto di “rischio consentito”
Alcuni autori, pur pienamente condividendola nei contenuti, affrontano tuttavia alcuni rilievi originati dall’esposta seconda prospettiva interpretativa dell’eccesso colposo.
Si sottolinea infatti come, seguendo in forma acritica l’orientamento delineato dalla Suprema Corte nell’ammettere l’uso delle armi da fuoco da parte del pubblico ufficiale anche nei confronti di chi fugge, seppur in maniera “pericolosa”, si finisca per approvare l’idea che si possa quindi cagionare e scriminare un pregiudizio anche maggiore di quello prospettato, magari nei confronti di terzi completamente estranei alla vicenda.
Introdotto così il concetto di “rischio consentito”, si giungerebbe a un’inammissibile interpretatio abrogans dell’art. 55 cp, in relazione all’art. 53 cp, evidenziandosi solo la necessità di verificare l’an dell’uso legittimo delle armi, segnatamente alla legittimità in sé del medesimo, mentre la responsabilità per eccesso colposo andrebbe a priori esclusa rispetto al quomodo dell’uso stesso, non potendosi mai configurare di fatto l’ipotesi dell’errore inabilità.
Seguendo dogmaticamente il citato orientamento giurisprudenziale, infatti, una volta soddisfatte le condizioni iniziali di configurazione e giustificazione dell’uso legittimo delle armi ex art. 53 cp, il pubblico ufficiale potrebbe paradossalmente essere sempre esonerato dalle responsabilità derivanti dal successivo verificarsi di un evento più grave di quello da lui voluto, poiché quest’ultimo sarebbe stabilmente ricollegabile al rischio insito nell’uso delle armi in sé e mai riconducibile alla violazione, da parte del soggetto agente, di un obbligo cautelare nel predetto uso. Qualunque condotta nell’ambito di codesto “rischio consentito” potrebbe pertanto rientrare nell’intrinseca pericolosità dell’azione, così configurandosi una sorta di zona franca, sganciata da ogni obbligo cautelare per il pubblico ufficiale, mentre, al contrario, proprio l’elevata pericolosità della pratica delle armi imporrebbe l’adozione di ogni cautela possibile. La lettura dell’art. 53 cp in tale veste farebbe quindi nell’evidenza riemergere, addirittura avvalorandola, la vocazione autoritaria e illiberale della scriminante dell’uso legittimo delle armi.
L’analisi complessiva dell’orientamento giurisprudenziale in esame, osservato nella sua interezza, non sembra tuttavia contenere aspetti tali da poter sostenere che Corte Suprema sia giunta a derive così estreme.
2.5 L’argine dell’extrema ratio
Gli evidenti e ripetuti richiami, infatti, all’osservanza dei principi della necessità e della legittimità dell’uso dell’arma in sé, che sottintendono i requisiti dell’extrema ratio e dell’uso del mezzo coattivo meno dannoso, nonché della liceità delle modalità di utilizzo dell’arma decise dal pubblico ufficiale, viepiù dell’agire nei limiti della proporzione tra gli interessi in conflitto, dovrebbero rappresentare un robusto argine atto ad evitare errori sulla rappresentazione, poiché se il pubblico ufficiale si è mosso nel rispetto dei limiti della necessità, della graduazione e della proporzione, difficilmente potrà aver commesso errori di valutazione, compromettendo in nuce lo stesso bilanciamento dei beni in gioco. Residuerebbe allora, per configurare l’ipotesi dell’eccesso colposo, solamente l’eventualità dell’errore inabilità nelle modalità esecutive dell’utilizzo del mezzo coattivo, per il quale la Cassazione esclude possibili responsabilità qualora il pubblico ufficiale abbia agito rispettando i requisiti della diligenza e della perizia nell’uso dell’arma. La Corte, quindi, nell’affermare “Il rischio di evento diverso e più grave rispetto a quello voluto dall’agente nella situazione di legittimo uso delle armi non va posto a carico del pubblico ufficiale che ha operato nell’ambito della previsione legislativa con diligenza e perizia” sembra piuttosto aver dato soluzione alla scelta tra la rinuncia definitiva all’utilizzo delle armi o l’accettazione del pericolo generato dall’uso in sé dell’arma.
La prima opzione, infatti, se integralmente accolta, porterebbe inevitabilmente, in determinate circostanze, il pubblico ufficiale nell’impossibilità di salvaguardare gli interessi che l’adempimento del dovere richiede di soddisfare, quali il perseguimento dei reati e soprattutto la tutela dell’incolumità e della vita delle persone, che lui è istituzionalmente deputato a difendere.
Se da un lato, infatti, si eliderebbe a priori il rischio connesso alla connaturale pericolosità dell’arma, dall’altro tuttavia si renderebbe il pubblico ufficiale, e quindi lo Stato che nella circostanza rappresenta, inaccettabilmente impotente nel fronteggiare condotte aggressive e pericolose proprio per l’incolumità dei terzi, poiché le forze dell’ordine non si troverebbero nelle condizioni di poter contrastare comportamenti che, a causa della loro particolare gravità, richiedono il necessario uso di mezzi dalle potenzialità lesive.
Davanti a questa inquietante ipotesi di evidente e pericoloso squilibrio tra le potenzialità offensive delle forze dell’ordine, castrate da una rinuncia a priori dell’uso delle armi, soprattutto da fuoco, e gli strumenti nella disponibilità di soggetti intenzionati a commettere fatti di reato, la Cassazione sceglie appunto una soluzione tesa a consentire ai pubblici ufficiali l’utilizzo per loro di tutti i mezzi coattivi in dotazione, purché nel necessario bilanciamento e proporzione tra l’interesse all’adempimento del dovere e l’interesse che si rischia di ledere per rendere possibile tale adempimento.
Si sostiene, pertanto, che per garantire la necessaria tutela della sicurezza e dell’incolumità delle persone, in mancanza di altri strumenti idonei e meno lesivi, sempre comunque al di fuori di responsabilità colpose per negligenza o imperizia del pubblico ufficiale, la comunità deve inevitabilmente accettare il rischio della possibile lesione della medesima incolumità dei cittadini, terzi esterni alla fattispecie, attraverso il verificarsi di un “evento diverso e più grave” di quello voluto dal soggetto agente.
2.6 L’ambito applicativo della scriminante putativa
Analizzate le possibili antinomie interpretative caratterizzanti la scriminante in senso reale, si osserva invece, in riferimento all’ambito applicativo della scriminante putativa, una sostanziale conformità tra giurisprudenza e dottrina, non emergendo particolari difficoltà per entrambe ad attribuire rilevanza al putativo.
In tal caso, infatti, l’errore non inficia l’esimente, come nel classico caso di cronaca in cui il delinquente usi una pistola giocattolo, che appaia in tutto e per tutto vera, e proprio per tale illusoria apparenza sia ferito o ucciso anche se, in concreto, non armato; in simili ipotesi l’uso delle armi resta pienamente legittimo, configurandosi la scusabilità dell’errore indotto dall’azione del delinquente, dunque da attribuirsi al solo rischio consapevolmente corso da quest’ultimo, mentre la percezione del pericolo viene lasciata al solo apprezzamento dell’operatore di polizia che abbia a trovarsi in simili circostanze.
Ne consegue, quindi, che le scriminanti comuni, tra cui l’uso legittimo delle armi ex art. 53 cp, non elidono solo un elemento del reato, ma rendono il fatto lecito fin dall’origine, poiché tale fatto, quando conforme al tipo descritto dalla norma penale, sarà considerato ab initio come lecito.
La disciplina in esame manifesta, peraltro, evidenti analogie con quella preveduta dal comma 1° dell’art. 47 cp, in materia di errore di fatto, poiché come l’erronea supposizione che manchino uno o più elementi costitutivi di un reato produce, quando è dovuta a colpa, una responsabilità per delitto colposo, lo stesso così accade anche in caso di erronea credenza che sussistano situazioni scriminanti.
Alla luce di quanto elaborato al riguardo dalla Suprema Corte, anche per la scriminante in senso putativo è possibile osservare una duplice configurazione della concreta fattispecie.
Una prima fase in cui la condotta del soggetto agente sarà scriminata in quanto rientrante nella previsione della prima parte del comma 4° dell’art. 59 cp, dimodoché se l’errore del soggetto agente era scusabile, cioè inevitabile, si avrà la completa giustificazione del fatto.
Una seconda fase nella quale, invece, a causa di errore determinato da colpa, il soggetto sarà esposto a responsabilità penale di natura colposa determinata dal superamento dei limiti imposti dalla scriminante medesima quando, ai sensi stavolta della seconda parte del comma 4° dell’art. 59 cp, l’errore sulle circostanze di esclusione della pena sia determinato da sua colpa e il fatto commesso sia previsto dalla legge come delitto colposo. In tale eventualità, infatti, l’errore sarebbe stato eludibile, poiché l’agente, avvalendosi dei suoi normali poteri di attenzione, avrebbe potuto accorgersi del reale stato delle cose.
La ratio della norma sarebbe da ricondurre alla circostanza che l’ordinamento, nella prima ipotesi, non ha interesse a punire colui che tiene una condotta conforme alla norma giuridica, anche qualora egli presupponga di compiere un illecito penale, a nulla rilevando l’eventuale intenzionalità dell’agente, mentre nella seconda ipotesi non vi sarebbe interesse a punire colui che commette un reato in presenza di una circostanza scriminante, salvo che l’errore sulla medesima sia determinato da colpa del soggetto stesso, che sarà in tal caso punibile qualora la legge preveda il fatto come delitto colposo.
Nel caso concreto sono infatti presenti tutti gli estremi di due norme antinomiche, quella che incrimina il fatto e l’antitetica che ne facoltizza o ne impone la realizzazione, profilandosi un conflitto tra norme che, tuttavia, è solo apparente, in quanto l’unità dell’ordinamento lo risolve attribuendo prevalenza alla norma che facoltizza o impone la realizzazione del fatto, che sarà pertanto lecito e, dunque, non punibile, per difetto del secondo estremo del reato, cioè l’antigiuridicità del fatto.
2.7 L’aberratio ictus nell’uso legittimo delle armi
Dubbi invece sussistono sull’applicazione, in materia di uso legittimo delle armi, della disciplina in tema di aberratio ictus, ai sensi dell’art. 82 cp, qualora il pubblico ufficiale, nel porre in essere la condotta scriminata, per un errore nell’uso dell’arma, ad esempio per sbaglio di mira o perché la medesima sia difettosa, ovvero per altra ragione, quale lo spostamento improvviso dell’aggressore, cagioni offesa a una persona differente da quella che aveva posto in essere la resistenza o la violenza.
In tale eventualità l’offesa ideata dall’agente sarebbe fondata su una causa di giustificazione, mentre l’offesa concretamente realizzata, riguardando persona diversa dall’aggressore, apparirebbe non coperta dalla scriminante, come nel caso affrontato nella sentenza n. 6719 del 22 maggio 2014, dalla Sezione IV della Suprema Corte, nel quale colui che subisce l’offesa era persona estranea al teatro criminoso nonché diversa dai rapinatori in fuga, che per puro caso transitava con il proprio autoveicolo nelle vicinanze del luogo ove si era verificata la rapina.
Tale sentenza non risolve la questione in base all’art. 82 cp, bensì facendo completo affidamento nell’art. 53 cp, in particolare espressamente richiamando nel dispositivo un importante precedente giurisprudenziale il quale, partendo dalla premessa che risultino soddisfatti dal pubblico ufficiale determinati requisiti e condizioni, afferma come il rischio del verificarsi di un evento più grave rispetto a quello perseguito non possa essere posto a suo carico, concludendo la Corte che “non è possibile operare distinzioni secondo che l’evento più grave venga a colpire gli stessi autori dell’illecito o anche terzi coinvolti nel teatro del sinistro, questi ultimi, peraltro, difficilmente distinguibili dai primi in ragione dell’accertata dinamica dell’intera azione”.
Al riguardo, la disputa dottrinale sull’applicabilità o meno, in casi del genere, della disciplina dell’art. 82 cp viene quindi risolta nell’affermare che, per valutare la punibilità del soggetto agente, basta riferirsi ai principi generali in tema di scriminanti, non occorrendo richiamare la disciplina in materia di aberratio, poiché l’agente che offende la persona ideata e, oltre questa, un terzo, non risponde tanto dell’azione ideata, per assenza di antigiuridicità, tanto dell’azione concretamente realizzata, per assenza di dolo.
La presenza di una scriminante, infatti, rompe l’omogeneità di rilevanza penale richiesta dal 2° comma dell’art. 82 cp, impedendo l’applicazione della sua disciplina, trattandosi questa di norma che presuppone l’assenza di cause di giustificazione.
La vicenda sarà pertanto regolata alla stregua dell’art. 55 cp anche qualora l’eccesso colposo riguardi un soggetto estraneo, altrimenti si rischierebbe il paradosso di pretendere diligenza e perizia nell’uso delle armi solo verso l’aggressore.
Al contrario il pubblico ufficiale è sempre tenuto ad agire rispettando i requisiti della proporzionalità e della necessità alla luce delle concrete circostanze del caso, cosicché il rischio della verificazione di un evento lesivo sproporzionato e diverso da quello programmato, in assenza dell’osservanza delle citate regole cautelari, sarà posto comunque a suo carico.
Diversamente, qualora l’offesa cagionata al terzo estraneo sia dovuta ad un evento fortuito, troverà applicazione l’art. 45 cp, con la condotta del soggetto agente che non sarà punibile per l’evidente impossibilità di prevedere l’evento non voluto.