Domenico Cerbone

Fuori dal tunnel

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Nella lotta alla pandemia da Covid-19 le strade dell’Istituto Spallanzani di Roma e della Direzione centrale di sanità si sono intrecciate in una virtuosa e proficua sinergia

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Finalmente si intravede il ritorno alla nornalità grazie alla crescente campagna di vaccinazione e al ricorso a sempre più efficaci terapie. Ne abbiamo parlato con il direttore dell’Istituto nazionale malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma, Francesco Vaia, e con il direttore della Direzione centrale di sanità della Polizia di Stato, Fabrizio Ciprani che fin dall’inizio della pandemia hanno strettamente collaborato nella lotta al Covid -19.  

Prof. Vaia, per quanto riguarda la pandemia da Covid - 19, stiamo per   “riuscire a riveder le stelle” citando il sommo poeta Dante di cui ricorrono i 700 anni della morte?  
Secondo me stiamo a buon punto , nel senso che gli strumenti che abbiamo a disposizione si sono dimostrati strategicamente efficaci, in particolar modo il vaccino; via via che si procedeva con la vaccinazione delle fasce cosiddette fragili e degli ultraottantenni, abbiamo riscontrato un dato empirico inoppugnabile: un notevole decremento del contagio, della mortalità e della malattia grave, e quindi delle ospedalizzazioni. Di conseguenza, la cabina di regia ha cambiato anche gli indici in base ai quali scatteranno di volta in volta i colori per la varie regioni, colori che vanno visti non solo come deterrenza ma anche come atto di premialità per i comportamenti virtuosi dei cittadini. E la scelta di vaccinarsi contribuisce a far scattare tale premialità: se, ad esempio, mi vaccino posso, sempre con le limitazioni previste, andare allo stadio o prendere l’aereo e andare in vacanza. In questo modo, inoltre, possiamo evitare di fare il tampone alle persone vaccinate perché se anche ne trovassimo qualcuna positiva, sarebbe una percentuale così ridotta e avrebbe una carica virale così bassa da essere quasi ininfluente, con conseguente malattia asintomatica o sintomi lievi.

Con le terapie, invece, come sta andando? 
Senza dimenticare il ricorso agli antiretrovirali e alle terapie sperimentali, come gli antinfiammatori che venivano usati per altre patologie, oggi con le terapie innovative, a partire dagli anticorpi monoclonali, siamo andatidecisamente avanti. Attualmente abbiamo due famiglie di anticorpi monoclonali: i primi sono quelli che allo Spallanzani vengono somministrati per via endovenosa, in ambulatorio e senza ospedalizzazione: trascorsa un’ora dalla somministrazione i pazienti possono tranquillamente tornare a casa. I risultati sono davvero confortanti, perché il 90% delle persone sono guarite e non hanno avuto gravi conseguenze: parliamo, però, di terapie mirate, destinate a chi risulta malato da pochissimi giorni, massimo una settimana, e che presenta patologie come ipertensione, obesità, diabete e tumore. La seconda famiglia che stiamo studiando riguarda invece gli anticorpi monoclonali da somministrare per via intramuscolo, sottocutanea o per bocca, una soluzione che consentirebbe di portare la sanità di qualità e le terapie innovative direttamente a casa delle persone, assieme a una capacità diagnostica davvero performante. Abbiamo però bisogno di un nuovo operatore sanitario (medico infermiere,operatore socio-sanitario) della domiciliarità, in grado di creare un rapporto sempre più stretto tra ospedale e territorio e, di conseguenza,  di ridurre sensibilmente il numero delle ospedalizzazioni.   

Che ruolo possono giocare i cittadini in questa delicata partita contro la pandemia?  
Dopo il vaccino e le cure, la terza arma strategica è come noi ci rapportiamo alla malattia: ci vogliono coraggio, ottimismo e determinazione, ma anche rigore. Fortunatamente siamo in una fase in cui il sistema Paese sta rispondendo al meglio e l’azione di governo si sta muovendo su una linea di graduali riaperture. Tra queste è stato fondamentale permettere ai ragazzi di tornare nelle scuole perché la didattica a distanza, come provato scientificamente, ha causato molti danni alle nuove generazioni. 

Una delle note dolenti della lotta alla pandemia è stata quella di una comunicazione poco chiara e, a volte, addirittura contraddittoria. Quali sono state le informazioni fuorvianti o le fake più pericolose messe in circolazione? 
Io non parlerei di fake news, piuttosto di cattiva informazione e talvolta di impreparazione, una sorta di incapacità a guardare avanti: la prima cattiva informazione è legata al vaccino Astrazeneca, perché si è detto che era un vaccino che comportava rischi alle persone con più di 60 anni, poi che a rischiare erano quelli sotto i 60 anni, alla fine siamo arrivati, più correttamente, alla conclusione che questo vaccino può essere dato a tutti, avendo un po’ di prudenza solo per le donne in età fertile, in particolare tra i 30 e i 40 anni, o che fanno uso di pillola anticoncezionale. Quello che mi ha lasciato perplesso in questi frangenti è che coloro che dovevano decidere, non decidevano ma si limitavano a raccomandare, e alla fine a restare disorientati sono stati proprio i cittadini. Ho sempre sostenuto che dietro i dubbi che hanno accompagnato la questione vaccini si sono combattute battaglie economiche, politiche e geo-politiche, però le autorità regolatorie europee e nazionali avrebbero dovuto interrompere questa dietrologia in modo più deciso. Prendiamo il caso della seconda dose del vaccino Pfizer. Le persone mi chiedono “ma la posso fare dopo 42 giorni ? ”: certo che si può fare, non succede nulla se si sposta il richiamo di una decina di giorni, anche perché già dopo la prima dose c’è una copertura dell’80%. Inoltre uno studio che mi è arrivato proprio in questi giorni, sostiene che dopo 42 giorni Pfizer produce ancora più anticorpi. Per cui bisogna dire ai cittadini di avere fiducia e di stare tranquilli.  Anche perché spostare di dieci giorni il richiamo di Pfizer consentirà di mettere in sicurezza, attraverso l’inoculazione della prima dose, il maggior numero possibile di persone.  

Cosa ci può dire delle varianti che stanno girando in questo periodo?
Noi dobbiamo prima di tutto combattere il virus, senza dover rincorrere le varianti che rappresentano un’evoluzione naturale del virus stesso che via via si adatta all’ambiente,  e che non ci devono spaventare.  Le varianti devono essere isolate, sequenziate e studiate e di conseguenza dobbiamo adeguare le terapie e i vaccini alle varianti stesse: questo oggi è possibile farlo anche in tempi molto brevi. Bisogna porre attenzione, ma senza paure o allarmismi.  E poi anche sulla terminologia delle varianti andrebbe fatta chiarezza. Si è parlato di varianti inglese, sudafricana, poi di quella brasiliana e ora di quella indiana… capisco che è un modo di semplificare ma così facendo si rischia di colpevolizzare, ingiustamente, interi gruppi di etnie. Sarebbe preferibile indicare scientificamente tali varianti con sigle e numeri: forse sarebbe un linguaggio più complesso, ma sicuramente meno pericolo dal punto di vista sociale. In ogni caso tutto questo terremoto provocato dalle varianti io fortunatamente ancora non l’ho visto.

Molto si è detto sulle pesanti e spesso letali conseguenze fisiche, ma dal punto di vista psicologico che impatto ha avuto la pandemia non solo su coloro che si sono ammalati, ma su tutta la popolazione?   
È indubbio che questa malattia ha creato gravi disagi psicologici alle persone che sono state ricoverate, a chi è risultato positivo e a chi è rimasto chiuso a casa per mesi; in molti casi si tratta di ripercussioni che finiremo comunque per pagare nel corso del tempo. Proprio per questo allo Spallanzani abbiamo realizzato un apposito ambulatorio di follow up post Covid e messa in piedi una apposita équipe che si occupa proprio delle sequele psicologiche: un progetto a cui tengo molto, perché si tratta migliorare la capacità di approccio dell’operatore sanitario con i pazienti e più in generale con i cittadini, non solo dal punto di vista terapeutico, ma anche psicologico.

Ultimissima domanda: ma uno stile di vita sano può aiutarci a difenderci dal virus? 
Tutte le cosiddette patologie concomitanti del Covid-19, come l’ipertensione, la grande obesità, il diabete, che sono state causa di malattie gravi e spesso mortali, sono ascrivibili quasi sempre a stili di vita insalutari. Se io conduco una vita sana, ho minori possibilità di ammalarmi e soprattutto ho maggiori capacità di aggredire la malattia. Dobbiamo imparare a volerci bene e a curare un po’ di più la nostra persona. 

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Direttore Ciprani, a distanza di poco più di un anno dall’inizio dell’emergenza Covid -19 ci può dire quali sono stati  i momenti  più duri che avete affrontato come  Direzione Centrale di Sanità?
Il momento più difficile è stato sicuramente ad inizio pandemia quando non avevamo tutte le conoscenze che ci servivano e non c’era una grandissima disponibilità di dispositivi di protezione; poi però anche durante l’autunno scorso c’è stato un altro momento piuttosto duro, con la seconda ondata di Covid-19 che ha causato un forte scoramento nella popolazione del nostro Paese e provocato numerose vittime anche tra i nostri operatori.

C’è stata però una grande dimostrazione di efficacia, perché siete riusciti a garantire il normale svolgimento delle attività e al tempo stesso e salvaguardare la salute dei nostri operatori. Come avete fatto convivere queste due fondamentali esigenze?
Raggiungere questo equilibrio tra l’essercisempre, che è il nostro motto, e proteggerci dal virus, è stato molto complesso perché, contrariamente ad altre attività, noi siamo stati costantemente sul campo, anche nei momenti più difficili, come quando, ad esempio, c’è stata la rivolta nelle carceri. Due aspetti però ci hanno consentito di avere dei buoni risultati: il primo è stato quello di aver fatto da subito dei protocolli operativi, cioè di aver detto in maniera chiara e tempestiva come comportarsi in ogni situazione di interazione e di rischio, l’altro aspetto è legato al fatto che il nostro personale ha seguito scrupolosamente le nostre raccomandazioni, fidandosi di noi.  

Visto che la pandemia non ha risparmiato nessuna zona del nostro Paese, quanto è stato importante poter contare su un  Servizio sanitario, come quello della Polizia di Stato,  in grado di presiedere capillarmente tutto il territorio nazionale?
Poter intervenire in modo capillare e tempestivo sul territorio ci ha aiutato tantissimo, prima di tutto perché il nostro personale sanitario, inteso nel suo complesso, è stato davvero presente sul posto, pronto a dare spiegazioni ai cittadini e a intervenire, e poi perché essere presenti in quelle zone, come il Veneto, la Lombardia o l’Emilia Romagna, dove la pandemia si è manifestata in forma più aggressiva e inizialmente violenta ci ha permesso, per quanto riguarda le altre regioni, di aggiustare in qualche modo il tiro e di farci trovare già pronti.

Dal presidio delle zone rosse del nord d’Italia dello scorso anno alla campagna vaccinale: l’impegno della Polizia di Stato cambia volto ma non certo intensità grazie alle strutture e ai mezzi messi a disposizione nello sforzo collettivo di vaccinare il maggior numero di operatori ma anche di cittadini…
Già in fase pre-vaccinale abbiamo condotto un’indagine di sieroprevalenza su 12mila operatori i cui risultati, in collaborazione con lo Spallanzani e l’Università Sapienza di Roma, saranno pubblicati su The Lancet Microbe, una delle maggiori riviste scientifiche internazionali. Poi con l’arrivo dei vaccini, abbiamo realizzato un censimento interno per valutare quanti operatori volevano sottoporsi al vaccino: hanno risposto positivamente oltre 76mila operatori, che oggi sono stati praticamente tutti vaccinati con la prima dose, mentre stiamo andando avanti con i richiami. Inoltre in alcune realtà ci siamo messi a disposizione delle Asl e degli hub per la vaccinazione della popolazione: qui a Roma, presso la sede della polizia stradale di via Magnasco, abbiamo aperto un centro di vaccinazione gestito esclusivamente dalla Polizia di Stato dedicato alle persone fragili e agli ultraottantenni, che proprio nei giorni scorsi ha tagliato il traguardo dei 20mila vaccinati, mentre analoghe iniziative di collaborazione sono state organizzate a Venezia, Milano, Palermo, Reggio Calabria, Padova e Pescara. Nel frattempo stiamo mettendo a punto un progetto con la Asl RM2 per un centro vaccinale aperto alla Confindustria e molto probabilmente parteciperemo alla campagna di vaccinazione dei più giovani. Un progetto che ritengo davvero importante in vista delle serate estive e delle riaperture delle discoteche.

In questo lunghissimo anno chissà quante storie drammatiche avrete da raccontare, ce n’è una invece più “leggera” che vuole condividere con noi?  
Quando a Roma abbiamo aperto un centro vaccinale per la popolazione c’è stato qualcuno, tra le persone appena vaccinate, che ha detto «ma allora la Polizia non serve solo ad acchiappare i ladri»:  istintivamente mi è venuto da sorridere perché dal tono usato sembrava ci fosse in ballo qualche vecchio conto con la giustizia. Comunque ad aiutarci ad affrontare la fatica di questo anno lunghissimo sono state le tante manifestazioni e gli attestati di vicinanza, sia da parte dei nostri vertici e della nostra base ma anche da parte dei cittadini. Molte persone, dopo averci conosciuto nel corso dell’inoculazione della prima dose a via Magnasco, dove siamo arrivati a fare oltre 400 vaccinazioni al giorno, quando venivano a fare il richiamo spesso arrivavano con un pacchetto di dolcetti per gli operatori. Piccoli gesti che però  ci hanno davvero ripagati per il lavoro svolto, considerando che nei frangenti più duri e drammatici della pandemia i nostri operatori hanno svolto un’importante attività assistenziale nei confronti della popolazione, facendo accertamenti e analisi a domicilio, ma anche portando e montando le bombole d’ossigeno: un impegno svolto nel pieno rispetto delle norme sulla profilassi, al punto che nessun operatore sanitario della Direzione, pur essendosi speso senza riserve, è risultato contagiato. 

09/06/2021