Valentina Pistillo

40 anni di cambiamenti

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Un lungo percorso di traguardi e prospettive, raccontato in un libro curato da Carlo Mosca, uno degli ideatori della riforma

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Trasformazione e innovazione. Questi i punti salienti di un’ importante ricorrenza: i 40 anni dalla Legge 121 del 1981, che determinò la trasformazione del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza in Polizia di Stato. Nasceva allora una polizia moderna, “smilitarizzata” e caratterizzata da una forte identità civile, votata al servizio della comunità. Una legge divenuta nel tempo un caposaldo fondamentale della nostra società e ancora oggi straordinariamente attuale: la 121 ha infatti affidato all’Istituzione una missione non solamente volta a presidio della sicurezza del Paese, «bensì proiettata verso la cura dell’ordine democratico e che concorre a rendere vera la libertà di esercizio dei diritti garantiti dalla Costituzione». Questo il commento del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nella prefazione del libro “La riforma dell’Amministrazione della pubblica sicurezza”, a cura di Carlo Mosca, consigliere di stato, prefetto e tra i principali ideatori della riforma in collaborazione con l’Ufficio relazioni esterne e cerimoniale. 

Un volto nuovo che ha ridisegnato l’intero assetto dell’Amministrazione, rendendola più moderna e dinamica, proiettata verso il futuro e capace di affrontarne nuove sfide con efficaci strategie, non solo sul piano interno ma anche a livello internazionale: dal cambio dello “status militare” all’apertura al mondo sindacale, dall’avvento degli ispettori con mansioni investigative al coordinamento tecnico-operativo delle forze di polizia, dalla creazione dei ruoli tecnici e sanitari alla parità di genere, che garantì alle donne le stesse modalità di accesso e le medesime opportunità di carriera dei colleghi uomini, e molto altro ancora. «Oggi – scrive ancora Mattarella nella prefazione – la Polizia è un corpo dello Stato che i cittadini riconoscono come amico, accessibile e aperto, un elemento di coesione. Una “empatia democratica”, guadagnata sul campo anche nei giorni durissimi di questo annus horribilis appena trascorso». È soprattutto questo “cambiamento”, il punto cardine con cui inizia il libro: «Il rinnovamento e il rinascimento culturale – spiega Mosca – hanno accreditato una nuova teoria, quella della sicurezza condivisa e partecipata, che ha rideterminato il rapporto tra comunità e forze di polizia, le quali si avvalgono della collaborazione attiva della cittadinanza, come efficace strumento di prevenzione dei reati». Altra pietra miliare di questo lungo cammino è l’evoluzione dell’identità istituzionale, «una connotazione distintiva – sostiene il prefetto – e una configurazione dell’Istituzione di appartenenza con la quale si contrae una sorta di obbligazione motivante e strategica per il singolo e per la stessa Istituzione. Il singolo, infatti, confida in quest’ultima per esprimere il suo talento al servizio dei cittadini. Ciò permette agli operatori di essere riconosciuti e identificati e, allo stesso tempo, di essere valutati da coloro i quali si aspettano, dalle Istituzioni e dai loro appartenenti, un comportamento coerente con quei tratti distintivi propri dell’identità abbracciata». Ne consegue che il possesso di una identità forte accresce negli operatori l’orgoglio di appartenenza e «sollecita alla perseverante testimonianza di servizio teso al bene comune – continua Carlo Mosca – migliorando il rapporto tra Istituzione e cittadini, generando una continua evoluzione dell’immagine istituzionale e dell’utilità dell’Istituzione come baluardo e argine a difesa dei valori della Repubblica democratica». 

Nel disegno operato dalla legge 121, all’identità istituzionale, propria delle componenti ministeriali come il Corpo prefettizio, la Polizia di Stato, i Vigili del Fuoco e il personale civile dell’Amministrazione, si aggiunge un’identità comune o plurale, come sottolinea Mosca, di cui sono titolari sia le componenti citate, sia le altre forze di polizia che fanno riferimento all’Amministrazione della pubblica sicurezza. È l’identità fondata sulla missione affidata al ministero dell’Interno, cioè sulla garanzia dell’esercizio dei diritti di libertà proclamati dalla nostra Costituzione. Con questo spirito, in sostanza, il ministro dell’Interno diviene Autorità nazionale di pubblica sicurezza, riuscendo ad assicurare l’affermazione di una società più libera e democratica che si sviluppa in ragione delle possibilità di vivere la Costituzione nei suoi principi e nei diritti in essa sanciti. «La legge di riforma è ritenuta un progetto normativo complesso – commenta il ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, sul volume celebrativo della 121/81 – che se da un lato ha segnato il passaggio della Polizia di Stato a forza di polizia a ordinamento civile, dall’altro ha anticipato, quella visione del bene sicurezza, divenuta patrimonio condiviso del nostro vivere sociale. La nozione stessa di sicurezza è mutata, assumendo una portata nuova, sempre più orientata, in una prospettiva costruttiva, a divenire fattore determinante di sviluppo sociale ed economico di un Paese, e parametro sostanziale di valutazione della qualità di vita della sua comunità». 

Con la riforma, in materia di ordine e sicurezza pubblica, si afferma anche il ruolo di guida e coordinamento delle forze di Polizia da parte del capo della Polizia - Direttore generale della pubblica sicurezza. A tale proposito, il nuovo capo della Polizia Lamberto Giannini ha commentato: «Celebriamo questo 40° anniversario non solo con iniziative formali ma dando attuazione al processo riformatorio delle articolazioni centrali e territoriali del Dipartimento della ps. Una riorganizzazione che, pur conservando lo spirito di quella straordinaria legge, ne attualizza i contenuti. Per avere un Dipartimento di ps e una Polizia di Stato al passo coi tempi, in grado di rispondere alle istanze di sicurezza delle nostre comunità». 

A livello territoriale, il prefetto diviene l’Autorità provinciale e ha la responsabilità generale dell’ordine e della sicurezza pubblica, mentre il questore, non è più alle dipendenze del prefetto, e assume la veste di Autorità provinciale “tecnica” di pubblica sicurezza. Un’altra parola chiave che caratterizza la pubblicazione e la Riforma del 1981 è il servizio. Quando è riferito a un bene pubblico, il fine si deve contraddistinguere per il perseguimento del bene comune e dell’interesse generale. Per i poliziotti il servizio è il dovere professionale e morale «da adempiere con disciplina e onore», è l’assidua presenza tra la gente, è il sorvegliare il sereno andamento della vita di tutti i giorni, «esercitando il ruolo di sentinella istituzionale». È in questo ambito che si colloca la polizia di prossimità, coinvolgendo tutte le forze dislocate sul territorio, garantendo a ogni cittadino non solo la sicurezza mediante attività di repressione e di prevenzione, ma anche, come conclude Mosca, «acquisendo migliori servizi sociali, elaborando progetti di lavoro e sviluppo economico, programmando interventi a favore delle vittime di violenza di ogni tipo, risanando il degrado urbano e contenendo le aree di emarginazione». Solo così la Polizia può collocare i cittadini al centro della sua vera missione istituzionale, assicurandole i diritti civili e sociali. L’impegno dei poliziotti nel sociale, l’empatia e l’umanità e il dialogo con altri Enti sono il segno di un prezioso cammino di impegno e crescita attraverso gli anni. Poliziamoderna ha raccontato questo articolato percorso di cambiamento attraverso alcune parole cardine contenute nel libro sulla riforma e commentate da personalità delle istituzioni e non solo. Tra queste non poteva mancare il contributo di Franco Gabrielli, che ha ricevuto l’incarico di sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con delega ai servizi di sicurezza della Repubblica, il quale sottolinea la complessità del lungo iter parlamentare che portò alla riforma la quale «tocca i gangli vitali di una democrazia. Nella difficile ricerca di una convergenza necessaria, il dibattito coinvolse non solo il Parlamento e le forze politiche e sociali del Paese, ma impegnò la stessa platea dei poliziotti, l’opinione pubblica, la stampa. Questo faticoso procedere, come sottolineò il relatore della legge alla Camera, l’onorevole Oscar Mammì, contribuì a evitare quanto il terrorismo e la criminalità si proponevano, evitare cioè che si realizzasse il fine di “dissaldare”, in un Paese a democrazia piuttosto giovane, le Istituzioni dai cittadini, i poliziotti dai lavoratori». Il volume raccoglie i contributi di autorevoli figure istituzionali, del mondo ecclesiastico, della cultura e della società civile: da Gianfranco Ravasi a Giuliano Amato, da Marta Cartabia a Giovanni Salvi, da Gianni Letta a Gaetano Manfredi, da Maurizio Viroli a Michele Ainis, da Eugenio Gaudio ad Antonio Romano, da Anna Maria Giannini a Marino Bartoletti, che illustrano alcuni tra i temi più significativi per i quali questa straordinaria legge ebbe riflessi riformatori.

 

 

COORDINAMENTO, L’OTTIMIZZAZIONE DELLE RISORSE
La 121/81 ha incluso nell’amministrazione della ps anche le altre forze di polizia, ognuna con la propria autonomia ma tutte con lo stesso fine: quello del bene comune. Un passo decisivo commentato da Marino Bartoletti

L’ordinamento italiano ha sempre accolto il principio di pluralità delle forze di polizia. Si tratta sia d’una stratificazione storica, sia di una precisa scelta politica e legislativa, finalizzata a non concentrare il potere in una sola istituzione, ma a valorizzare le specialità di tutti i corpi di polizia. Accanto alle forze di polizia a competenza generale, come Polizia di Stato e Arma dei Carabinieri, si contano anche le altre due, a competenza particolare, il Corpo della Guardia di Finanza e il Corpo della Polizia Penitenziaria. La soluzione prescelta dal legislatore della 121 si fonda sulla costruzione di una macro-struttura con un unico scopo, l’amministrazione della pubblica sicurezza, inclusiva di tutte le polizie dello Stato: «nella convinzione che il successo di una strategia di lotta al crimine, al terrorismo e al traffico di stupefacenti dovesse ricercare, appunto nel coordinamento delle forze di polizia, un moltiplicatore dell’efficienza e dell’efficacia delle singole strutture, anche sotto il profilo dell’economicità dell’impiego delle risorse, nonché un insostituibile riduttore di inevitabili disfunzioni e sovrapposizioni registrate in precedenza», sostiene Carlo Mosca. 

Questa ottimizzazione delle risorse, dovuta alla riforma, ha permesso di gestire la “cosa pubblica” non più in verticale ma in modo orizzontale: «il coordinamento come espressione di relazioni tra soggetti istituzionali posti sullo stesso piano, rispettando l’autonomia di ciascuno, affrontando insieme le questioni problematiche e cercando unitamente le soluzioni per impedire inutili e dannose diseconomie». La pluralità delle forze di polizia e la gestione di tipo orizzontale hanno richiesto un ridimensionamento anche della gerarchia, che si rivela poco adeguata quando si è in presenza: «di relazioni istituzionali tra i vari soggetti che operano per la sicurezza – spiega il prefetto – laddove il riconoscimento dell’autonomia incide sulle scelte, sulle competenze funzionali e territoriali e sul ruolo rivestito da ciascuno soggetto». Per questo il coordinamento diviene l’espressione di una cultura nuova della riforma, non facile da gestire, poiché esiste una molteplicità di istanze che devono migliorare l’impegno per il fine di un indirizzo unitario, per l’interesse generale e per il bene comune. La funzione di coordinare è un delicato lavoro di composizione, affidato all’abilità delle autorità preposte, alle quali la legge riconosce questo compito. Infatti, nel coordinamento sussistono, oltre ad armonia di interessi e di istanze per la gestione delle risorse, «l’esercizio di un potere che condiziona l’azione degli organi a cui si rivolge, alimentando prassi che, tramite la posizione di superiorità del soggetto preposto, consentono di rispettare l’autonomia di coloro i quali sono coinvolti nel disegno del raggiungimento dello stesso obiettivo».

Soggetti, luoghi e modi del coordinamento hanno trovato, nei 40 anni della riforma, un loro consolidamento, hanno superato anche i pregiudizi tipici di ogni fase di cambiamento e hanno condiviso quel tipo di cultura che consente a ciascun soggetto di essere titolare delle proprie scelte, nei limiti e nelle condizioni previste da un’autorità individuata dalla legge dotata di quei poteri unificanti di primazia, contestualmente rispettosi delle autonomie di ciascuno.

«Non è difficile trovare anche nello sport gli esempi più virtuosi di coordinamento che poi altro non è se non il gioco di squadra (termine semplice ma purtroppo a volte abusato). D’altra parte, furono i 4 moschettieri a lanciare il motto “tutti per uno, uno per tutti”. E vinsero sempre: anche quando i nemici erano più numerosi, anche quando qualcuno cercò di dividerli, anche quando, anzi soprattutto, capirono che nell’interesse collettivo e nella forza dell’insieme il possente e un po’ ruvido Porthos valeva quanto il raffinato Aramis, e il tormentato ma fedelissimo Athos era complementare alla leadership di D’Artagnan. Mi capita spesso di dirlo in pubblico, proprio partendo dallo sport, dalla metafora più bella che viene dalla disciplina di sacrificio per eccellenza, il ciclismo: per vincere una gara bisogna pedalare con il piede destro e con il piede sinistro. Poi, certo, ci vuole qualcuno che tenga saldo il manubrio e sappia dove andare».
Marino Bartoletti, giornalista e scrittore

 

 

SINDACATI, AUTONOMIA E IMPARZIALITÀ
Continua il processo di democratizzazione della 121/81. La nascita delle organizzazioni a tutela dei poliziotti commentata da Michele Ainis

Nel corso degli Anni ‘70 sull’onda della crescente sindacalizzazione della società italiana, i movimenti democratici rivendicativi di spazi di libertà finirono per coinvolgere anche le forze dell’ordine e, in particolare modo, la Polizia per la quale si richiedeva oltre alla smilitarizzazione, anche il riconoscimento delle rappresentanze sindacali. Sotto questo punto di vista la legge 121 ha rappresentato un ulteriore tassello nel processo di democratizzazione dell’Italia: fino a quel momento, infatti, il sindacato restava escluso del tutto dalla struttura militare della pubblica sicurezza. «L’importante riconoscimento della libertà sindacale per il personale della Polizia di Stato – afferma Carlo Mosca – si fonda sulla pluralità di organizzazioni sindacali dirette e rappresentate da personale di polizia in servizio o in quiescenza, organizzazioni che tutelano gli interessi degli operatori di polizia senza interferire nella direzione dei servizi o nei compiti operativi». Nella legge del 1981, l’imparzialità, elemento imprescindibile che deve contraddistinguere l’Istituzione di polizia e i suoi appartenenti, è stata sottolineata «nel suo significato istituzionale dalla previsione legislativa – sostiene ancora il prefetto – secondo cui i sindacati di polizia, all’articolo 83, comma 2, della 121/81, non possono aderire, affiliarsi o avere relazioni di carattere organizzativo con altre associazioni sindacali, quasi a voler pretendere una sorta di autonomia su cui si è molto discusso, visti i collegamenti che si sono creati tra le numerose organizzazioni e le centrali sindacali confederali e autonome». 

Questo al fine di evitare una politicizzazione dello strumento sindacale e perché è necessario che in ciascun appartenente si sviluppi il senso di responsabilità relativo alle delicate funzioni espletate, da cui deriva l’indispensabile imparzialità già citata: «Secondo la ratio del legislatore della 121 – continua Mosca – l’autonomia e l’indipendenza sindacale non evidenziano il distacco dalla società e dalle organizzazioni presenti in quest’ultima, quanto risultano espressione di garanzia per i cittadini, da una posizione al di sopra delle parti, pur nel rispetto delle loro convinzioni politiche». Da questo scaturisce che le organizzazioni sindacali della polizia non possono essere rappresentate da estranei alla pubblica sicurezza. Inoltre, il modello sindacale scelto dalla legge n. 121/81 non è originale o diverso, ma risente comunque delle caratteristiche comuni alle strutture sindacali del pubblico impiego di cui ricalca anche l’attività che regola i rapporti di lavoro: il trattamento economico, l’orario di servizio, le ferie, i permessi, i congedi, le aspettative, il lavoro straordinario, le missioni e i trasferimenti, nonché i criteri per la formazione e l’aggiornamento professionale e tutti gli altri strumenti necessari per assicurare il miglior funzionamento dell’intera struttura di polizia. Il 15 dicembre del 1983 fu firmato il primo contratto nazionale di lavoro tra il ministro dell’Interno Oscar Luigi Scalfaro e i rappresentanti dei due principali sindacati di polizia, il Siulp (Sindacato italiano unitario lavoratori polizia ) e il Sap (Sindacato autonomo di polizia). Tornando alla Riforma, conclude il prefetto Carlo Mosca, «per quanto riguarda lo svolgimento dei diritti sindacali, il legislatore del 1981 fa proprio il convincimento che le funzioni essenziali, per l’esistenza stessa della Repubblica democratica, debbano essere sempre assicurate e che la missione del ministero dell’Interno di garantire l’esercizio dei diritti civili e sociali dei cittadini, previsti dalla Costituzione, non debba subire mai alcuna interruzione». Per questo esiste il divieto per i poliziotti di scioperare e di porre in essere azioni tali che, effettuate durante il servizio, possano pregiudicare la tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica o le attività di polizia giudiziaria. 

«Lo Stato, diceva Max Weber, ha il monopolio della forza legittima. Ma in democrazia deve usare la forza per garantire le libertà dei cittadini, non certo per opprimerli. È questo il lascito del costituzionalismo, inaugurato dalle Carte rivoluzionarie di fine Settecento. Da qui, allora, una domanda: come può la macchina statale proteggere i diritti, se non li riconosce al proprio interno? La risposta si trova scritta nella legge 1 aprile 1981, n. 121, che ha avviato il processo di democratizzazione della Polizia di Stato. Attuando, sia pure con trent’anni di ritardo, un principio costituzionale. “L’organizzazione sindacale è libera”, dichiara infatti l’articolo 39 della Carta repubblicana. Ma in precedenza i sindacati, nel cuore pulsante dello Stato, non erano liberi, bensì vietati. Ora non più: l’articolo 82 di questa legge enuncia i diritti sindacali delle Forze di polizia».
Michele Ainis, componente Autorità garante concorrenza e mercato 

 

 

DONNE, LA SVOLTA DELLA LEGGE 121
Una delle più importanti tappe della riforma che sancì l’eguaglianza con i colleghi uomini, commentata da Marta Cartabia

Una data storica quella che vide 62 anni fa la comparsa delle presenze “rosa” in polizia: era il 1° marzo 1961 quando entrarono in servizio le prime ispettrici appartenenti alla carriera direttiva del nuovo Corpo di polizia femminile, istituito con legge n. 1083 del 7 dicembre del 1959, creato su indicazione dell’allora capo della Polizia Giovanni Carcaterra. Quattro mesi dopo furono affiancate dalle assistenti di polizia, appartenenti alla carriera di concetto dello stesso Corpo. Le poliziotte, assegnate a uffici come quello di Polizia femminile, la Sezione minori o le Squadre buoncostume delle questure, avevano incarichi specifici che riguardavano il contrasto dei reati nei confronti di donne e bambini, reati contro la moralità pubblica e a sfondo sessuale. Spesso le prime poliziotte venivano impiegate anche per la tutela del lavoro minorile e femminile, le indagini e gli atti di polizia giudiziaria che riguardavano le stesse categorie di persone, nei confronti delle quali svolgevano compiti di vigilanza e di assistenza per i provvedimenti di polizia (se i minori erano in stato di abbandono morale e sociale, come il contrasto all’evasione scolastica.) Non si può dimenticare l’impiego massiccio della polizia femminile in occasione di calamità naturali: ispettrici e assistenti per la prima volta intervennero per il terremoto nella valle del Belice (1968), di Tuscania (1971), di Ancona (1972) e in quelli, disastrosi per numero di vittime, del Friuli (1976) e dell’Irpinia (1980).

Poteri e mansioni particolari quelli delle prime donne in divisa, ma anche limitati: «Il raggiungimento della parità con i colleghi uomini – scrive il prefetto Carlo Mosca nel suo libro sulla riforma – è stato uno dei primi obiettivi, nell’osservanza del dettato costituzionale, di cui all’articolo 51, secondo il quale tutti i cittadini dell’uno e dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici in condizioni di uguaglianza». Decisiva è stata anche l’entrata in vigore, alla fine del 1977, della cosiddetta “legge Anselmi” che vietava qualunque discriminazione, anche indiretta, fondata sul sesso per quanto riguarda l’accesso al lavoro, in qualunque settore o attività professionale. Un percorso articolato e complicato quello relativo alla parità di genere: «Finalmente – sottolinea Mosca – nel 1981, la riforma attuata con la legge 121, nel disporre lo scioglimento del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza e del Corpo di polizia femminile stabiliva che il relativo personale, unitamente con quello appartenente ai ruoli del personale civile della carriera direttiva dell’Amministrazione della pubblica sicurezza, confluisse nei ruoli del personale della Polizia di Stato». Era caduta l’ultima barriera: la riforma aveva così sancito la piena equiparazione tra personale femminile e maschile, con parità di attribuzioni, funzioni, trattamento economico e progressione in carriera. Questa “rivoluzione rosa” aprì la strada, con la legge n. 380 del 20 ottobre 1999, all’ingresso delle donne in tutte le forze armate. «Oggi, nella Polizia di Stato – conclude il prefetto – circa quindicimila donne sono impiegate in tutti gli ambiti operativi, tecnici e dei sanitari, ricoprendo tutte le qualifiche. Da pochi mesi, per la prima volta, una donna è diventata vice capo vicario della Polizia».

«La presenza delle donne nella Polizia di Stato appartiene alla storia recente. Come è accaduto per altre funzioni pubbliche la partecipazione delle donne all’esercizio di funzioni della sicurezza pubblica è stata ostacolata dal pregiudizio che determinate attività non fossero adeguate alla natura della donna. La legge 121 rimosse gli ostacoli giuridici alla effettiva parità delle donne nel servizio di polizia e simbolicamente marcò la fine dell’eguaglianza condizionata alle attitudini di genere. A distanza di quarant’anni è significativo notare che la presenza femminile nelle Forze di polizia è particolarmente qualificata. Caduti gli ostacoli di ordine giuridico, le donne con il loro lavoro, la loro dedizione e la loro professionalità hanno mostrato il contributo che sono in grado di offrire alla vita sociale, anche in questo ambito, che era loro tradizionalmente precluso».
Marta Cartabia, Ministro della Giustizia

 

 

RUOLI TECNICI, AL PASSO COI TEMPI
La Riforma ha anticipato le esigenze dell’innovazione tecnologica e scientifica,creando nuove figure strategiche per l’integrazione dei processi della sicurezza. Il commento al libro di Gaetano Manfredi

Si è sempre discusso sulla portata straordinaria della riforma e di come abbia fornito in anticipo gli strumenti idonei a contrastare le nuove sfide del futuro. Per rispondere alle esigenze di innovazione tecnologica e scientifica è stato emanato il dpr n. 337 del 24 aprile 1982, con successive modifiche e integrazioni, le quali istituirono i ruoli e la carriera del personale della Polizia di Stato che svolge attività tecnico-scientifica o tecnica, per le esigenze operative di polizia e, in generale, di supporto al ministero dell’Interno e alla presidenza del Consiglio dei ministri, provvedimento contenuto nell’ultimo comma dell’articolo 1 della legge 121/81. «I ruoli degli agenti e assistenti tecnici, dei sovrintendenti tecnici, degli ispettori tecnici e della carriera dei funzionari tecnici – spiega Carlo Mosca nel libro sulla riforma – sono articolati, i primi due nell’unico settore di supporto logistico, gli altri nei settori della polizia scientifica, della telematica, della motorizzazione, dell’equipaggiamento, dell’accasermamento, della psicologia, del servizio sanitario, della sicurezza cibernetica e del supporto logistico-amministrativo. I medesimi ruoli annoverano, nel proprio ambito, ingegneri, fisici, chimici, biologi e psicologi, il che evidenzia la qualità del personale in grado di offrire un elevato contributo al migliore funzionamento dell’Istituzione e al migliore conseguimento dalle missioni definite dalla legge n. 121/81». 

Al personale tecnico vengono naturalmente riconosciute le necessarie qualifica di pubblica sicurezza, in relazione alle esigenze di polizia e, limitatamente alle proprie mansioni tecniche, in operazioni di polizia e in quelle di pubblico soccorso in caso di calamità e infortuni. La scelta di istituire ruoli di personale che svolga attività tecnico-scientifica o tecnica caratterizza la specifica volontà del legislatore del 1981 «di approntare strutture e risorse per il soddisfacimento delle esigenze strategiche, organizzative e gestionali connesse agli interessi pubblici di un’Istituzione preposta al mantenimento dell’ordine e della sicurezza, nonché al contrasto al crimine ordinario e organizzato nelle sue varie forme. La funzione svolta dal personale dei ruoli tecnici, da molti definita sussidiaria, viene a connotarsi come strategica per l’integrazione dei processi di produzione della sicurezza». Infatti le attività e i servizi di polizia sul territorio si avvalgono del supporto specialistico del personale dei ruoli tecnici, «un moltiplicatore dell’efficacia, dell’efficienza e dell’economicità – sostiene Carlo Mosca – che può derivare da un’oculata gestione tecnica destinata a potenziare l’azione operativa. La consapevolezza dell’insostituibilità di quella “logistica” gestita dal personale tecnico con alta professionalità, appare manifesta nella cura costante che il Dipartimento della pubblica sicurezza destina a questa componente sempre più essenziale per la vita dell’Istituzione».

«Nel 1981 nasce la componente tecnico-scientifica della Polizia di Stato. Ma questa intuizione, che quarant’anni fa poteva sembrare integrativa, trova una straordinaria centralità nella visione del futuro. Perché questo? La risposta è contenuta in due concetti: innovazione tecnologica e complessità. La vorticosa rivoluzione tecnologica pone continuamente nuovi fronti su cui operare per garantire la sicurezza dello Stato, della società e della democrazia. Le nuove tecnologie, digitali e non, crescono e maturano a una velocità impressionante e rapidamente sono in grado di entrare nella vita quotidiana dove utilizzi malevoli sono inevitabilmente l’altra faccia della medaglia dei tanti benefici che si ricevono. L’ altro aspetto è la complessità dei fenomeni. La globalizzazione con il terrorismo e la criminalità internazionale, le nuove reti di comunicazione e i social network sono solo alcuni degli ingredienti di questa complessità. Una multidisciplinarietà molto particolare: dalle tecnologie ICT, all’economia e alle scienze sociali, che richiedono diverse e nuove competenze tecnico-scientifiche sempre più integrate».
Gaetano Manfredi, già ministro dell’Università e della Ricerca

 

 

ISPETTORI, I NUOVI INVESTIGATORI
Indagini e prevenzione. I compiti fondamentali della nuova figura fortemente voluta dalla Riforma, per il contrasto alla criminalità degli Anni ‘80, commentata da Giovanni Salvi

Il vecchio maresciallo, figura che per anni ha destato nell’immaginario collettivo autorevolezza e simpatia al tempo stesso, tramontò agli inizi degli Anni ’80. I gradi militari, con la 121/81, infatti, si trasformarono: i sottufficiali ebbero la neo costituita qualifica di vice ispettore, una professionalità più adeguata alle esigenze della comunità nazionale. I vice ispettori, i cui compiti erano di natura prevalentemente investigativa, furono formati nella convinzione che per il contrasto alla criminalità organizzata non si potesse contrapporre: «una polivalenza generica del personale di polizia – osserva Mosca – ma occorreva disporre di risorse altamente specializzate, che svolgessero funzioni investigative della loro attività lavorativa come forma prioritaria anzichè sussidiaria, temporanea o occasionale».

Dunque non si diventava investigatori per caso. Occorreva un’esperienza costante e un’assidua dedizione alla ricerca e all’analisi di notizie, informazioni e dati per fare luce sui fenomeni di natura criminale e anche una specifica formazione. A tale scopo, nacque la scuola per la preparazione dei nuovi ispettori, a Nettuno, vicino Roma, fiore all’occhiello della Polizia di Stato ed una delle più grandi caserme d’Europa. In passato era la scuola di Tiro dell’Artiglieria, per gli allievi ps e per i sottufficiali. Negli Anni ‘80 la scuola prese il nome di Ipi, Istituto di perfezionamento per ispettori, mentre nel 2004 ha assunto l’ attuale denominazione, ovvero Istituto di perfezionamento per ispettori. L’attività investigativa, secondo l’articolo 36 della 121, è riferita sia al profilo preventivo sia a quello repressivo, così da delineare ottimamente la sfera operativa degli ispettori. Una figura complessa e delicata per questa nuova qualifica, che insieme ad altri tasselli fondamentali della Riforma, la cui genesi non fu priva di difficoltà per la sua portata rivoluzionaria, rispondeva alle nuove esigenze professionali e di sicurezza del Paese, indebolito dagli “anni di piombo”. L’ispettore ha facoltà di collaborare direttamente con i funzionari dai quali dipende, e in caso di assenza o impedimento, viene qualificato per sostituirli nella direzione di uffici o reparti, ma anche per dirigere e coordinare unità operative di carattere investigativo assumendosi la responsabilità per le istruzioni impartite in queste attività. La nuova concezione di investigazione va oltre lo svolgimento di indagini giudiziarie e la raccolta delle fonti di prova dei reati, necessarie al giudice per iniziare l’azione penale, ma consiste anche: «nell’azione di prevenzione di polizia, in un’accurata ricerca e in un’attenta analisi di persone, fatti e fenomeni che ancora non hanno dato luogo a ipotesi di reato, ma che configurano comunque allarme sociale o minaccia o preoccupazione per la tenuta dell’ordine pubblico e della sicurezza, oltre che ai fini di prevenire la commissione dei reati».

L’ambito dell’esercizio delle funzioni di polizia da parte dell’ispettore si presenta ampio e professionalmente qualificato e abbraccia l’intera gamma dei compiti istituzionali, pur nell’ottica della specifica prospettiva dell’indagine investigativa e delle attività a essa connesse.

«Il vecchio rapporto, che compendiava l’esito delle indagini ,“entrava” nel processo e diveniva autonoma fonte di prova, fu sostituito dall’informativa: l’atto non verrà mai conosciuto dal giudice ma servirà solo al pubblico ministero per strutturare l’azione dinanzi al giudice. Muta radicalmente il ruolo della polizia giudiziaria. Non ci sono più scorciatoie. Se si sbagliano i primi passi, nell’acquisizione dei primi elementi e nella loro verbalizzazione, sarà difficile tornare indietro: il rapporto tra pubblico ministero e polizia giudiziaria diviene quasi centrale sin dalle primissime acquisizioni. Ciò porta a far pensare che l’intervento del magistrato facesse cessare poteri e responsabilità della polizia giudiziaria. Non è così. Al contrario, il rapporto tra i due organi è complementare e sinergico. A tale difficile relazione contribuiscono in maniera determinante gli ispettori, per il loro bagaglio professionale e per il ruolo di cerniera con la struttura nella quale sono inseriti. Senza questo ruolo di cardine, cioè del perno intorno a cui ruota lo strumento, mancherebbe la capacità della polizia giudiziaria di raccogliere utilmente la prova e quella del pubblico ministero di organizzarla per il processo».
Giovanni Salvi, procuratore generale presso la Corte di Cassazione

09/04/2021