Cristina Di Lucente

Non sono affari di famiglia

CONDIVIDI

Violenza di genere e pandemia: gli interventi della Polizia di Stato per contrastare il fenomeno

pp01

Endemico e trasversale, “con le chiavi di casa” e costante nel tempo. Così potremmo definire il fenomeno della violenza di genere, perché riguarda ogni Paese al mondo ed è indipendente dal livello socio-culturale di appartenenza o dall’età anagrafica e si verifica spesso all’interno delle mura domestiche. Nel 2020 la pandemia ha confermato come il crudele campo da gioco metaforico sul quale si consuma la violenza domestica è il senso del possesso e l’urgenza di controllo da parte del carnefice. Mentre il lockdown, che ha imposto un isolamento all’interno del nucleo familiare, non ha rappresentato una minaccia per chi poteva esercitare indisturbato il proprio potere di controllo, nella fase immediatamente successiva il numero dei femminicidi è tornato ad aumentare, come confermano i dati raccolti, attraverso le segnalazioni delle Divisioni anticrimine, dallo Sca (Servizio centrale anticrimine).

L’attività della Polizia di Stato
«Parlare di femminicidio non equivale solo ad affermare che una donna sia stata uccisa – spiega Marina Contino, dirigente della 1^ divisione dello Sca – ma vuol dire riferirsi a “qualsiasi forma di violenza esercitata sistematicamente sulle donne in nome di una sovrastruttura ideologica di matrice patriarcale”, come dice la stessa convenzione di Istanbul, “allo scopo di perpetuarne la subordinazione o di annientarne l’identità attraverso ogni forma di assoggettamento fisico o psicologico che può portare anche alla morte, un atto criminale estremo che caratterizza un modello di rapporto tra maschio e femmina declinato secondo i canoni di supremazia-sottomissione”. È un termine che, all’atto pratico, definisce la ragione per la quale quella donna viene uccisa, una donna che viveva una relazione con un uomo che la riteneva di sua proprietà. Il femminicidio non ci dice solo che è morta una donna ma ci spiega il perché». Al momento non vi sono parametri univocamente riconosciuti che definiscano con precisione l’accezione “femminicidio”. La sua radice è nella discriminazione di genere, plateale nel radicamento degli stereotipi in tutti gli ambiti, da quello sociale a quello privato e politico. Un termine forse disarmonico, che fa paura ma che ha allo stesso tempo il merito di evidenziare responsabilità sociali e di stigmatizzare situazioni di subordinazione purtroppo ancora diffuse. Le attività svolte negli anni dalla Polizia di Stato per contrastare questo reato sono state molte, articolate e finalizzate a migliorarne l’impegno: dalle procedure che gli operatori di volante devono seguire quando intervengono a seguito di una chiamata al 113/112 nei casi di violenza (inizialmente solo protocollo Eva, ora anche progetto Scudo), fino al cosiddetto “codice rosso” che prevede l’introduzione di una corsia veloce e preferenziale per le denunce e le indagini, dall’ammonimento alle procedure per il recupero del maltrattante in collaborazione con i centri specializzati. La 1^ divisione dello Sca dedica un’apposita sezione alla violenza di genere e alla tutela delle fasce deboli; qui giungono, attraverso i mattinali delle divisioni anticrimine, che conoscono l’attività svolta nei loro territori, da parte di tutte le forze di polizia, le informazioni sui crimini commessi ed è qui che vengono analizzati  i singoli casi nel dettaglio. «Per ogni vittima presente nei nostri fascicoli – sottolinea la dirigente – cerchiamo di capire tutto quello che è accaduto, per non limitarci a valutare aumenti o diminuzioni dei casi, ma per stabilire come migliorare il nostro lavoro  e reindirizzare le nostre strategie in base a ciò che succede». Il trend identificato dall’inizio del lockdown a oggi, per quel che riguarda le denunce, è pressoché costante: gli interventi per maltrattamenti e violenze domestiche hanno fatto registrare cifre analoghe ai periodi precedenti; ci sono reati come gli omicidi che hanno visto un forte decremento, ma a fronte di questa diminuzione il numero di donne uccise è rimasto invariato. Dopo i 3 mesi di isolamento forzato (marzo-maggio 2020) dovuto alle misure di emergenza, si è tornato a parlare di femminicidi nel momento in cui la donna ha riacquistato la sua autonomia. Nel 2019 il 30% delle vittime erano donne, nel 2020 la percentuale sale al 40% e nella metà dei casi si è trattato di donne uccise per quei motivi che ci fanno parlare di femminicidio. Le percentuali dei primi mesi del 2021 indicano una proporzione ancora maggiore: quasi l’80% delle donne sono morte per questo motivo. Al di là del dato statistico, ciò che emerge dalla lettura dei singoli casi è che siamo di fronte a un fenomeno ampio e trasversale, che incrocia dimensioni eterogenee, vissuti e tratti psicologici, ruoli e contesti culturali. Per questo il direttore centrale Anticrimine è intervenuto ancora una volta con una circolare che richiede ai questori di adottare nuovi strumenti per innalzare ancora di più la soglia della prevenzione. Davanti a una lite fra marito e moglie, i poliziotti delle Volanti e dei commissariati non dovranno puntare come prima cosa a mettere pace. Piuttosto, dovranno valutare preliminarmente cosa sta succedendo in quella casa. E accertare situazioni di possibile pericolo che la stessa vittima potrebbe sottovalutare. Il prefetto Messina ha sottolineato l’importanza di saper cogliere tutti i segnali che rivelano le violenze nascoste, in modo che il questore, nei casi ritenuti opportuni, possa procedere in tempi veloci con la misura di prevenzione dell’ammonimento.

L’ammonimento del questore
Il Servizio centrale anticrimine si occupa, tra l’altro, di dare impulso alle misure di prevenzione emesse dal questore, come l’ammonimento che nasce con lo scopo di garantire alla vittima una tutela rapida e anticipata rispetto alla definizione del procedimento penale e consiste nell’avvertimento, rivolto allo stalker o al maltrattante, di astenersi dal commettere ulteriori atti di molestia o violenza domestica. In particolare, chi si rende responsabile di percosse o lesioni lievi nell’ambito della violenza domestica, può essere ammonito non solo su istanza della vittima o di un testimone, ma, fatto particolarmente importante, anche su iniziativa della stessa forza di polizia, che può anche provvedere ad allontanare immediatamente il soggetto dall’abitazione dove si sono realizzate le condotte violente. «Ricorrere all’ammonimento è molto semplice – sottolinea la dirigente della 1^ divisione – La vittima deve esporre i fatti alle autorità e avanzare richiesta di ammonimento al questore nei confronti dell’autore delle condotte persecutorie o della violenza domestica. Ma il questore, cosa importantissima, può emettere l’ammonimento anche di propria iniziativa: verificati i fatti, adotterà il provvedimento e l’autore verrà diffidato alla prosecuzione delle condotte. Molte persone pensano che tra rimanere zitte, sopportando situazioni di violenza domestica, e ricorrere all’autorità giudiziaria, con il timore di andare in tribunale e testimoniare, non ci sia nulla: non è così, c’è una forma molto più semplice a cui poter ricorrere ed è l’ammonimento del questore, che peraltro non comporta alcuna spesa, è gratis». L’efficacia dell’ammonimento è legato proprio al rapporto, più diretto, che il poliziotto instaura con il maltrattante: «Si entra in stretto contatto con le persone per convincerle anche a rivolgersi a centri di esperti che li aiutino a desistere dall’adottare determinati atteggiamenti violenti», ha spiegato la dirigente, e l’efficacia del provvedimento è dimostrato anche dal fatto che i casi di recidiva sono bassissimi.

Il progetto Zeus a Milano, città virtuosa
Trattare l’aggressore è un’importante misura di prevenzione per ridurre le recidive di atti violenti e per evitare la trasmissione della violenza da una generazione all’altra, a questo scopo, nell’aprile 2018 è nato il protocollo Zeus. La Divisione anticrimine della questura di Milano è stata la prima ad adottarlo e i risultati hanno provato l’efficacia di questa iniziativa. «Per anni mi sono occupata di repressione alla 4^ sezione della Squadra mobile della questura di Milano che si occupa, tra l’altro, di maltrattamenti e stalking e proprio in quel periodo l’ammonimento veniva esteso anche alla violenza domestica – racconta Alessandra Simone, dirigente della Divisione anticrimine della questura lombarda – Repressione vuol dire intervenire quando tutto è già accaduto». Spesso si tratta di morti annunciate, che lasciano solo una scia di sofferenza, in molti casi una famiglia distrutta. L’approccio della Divisione anticrimine è opposto a quello della Mobile e si basa sulla prevenzione. «Maltrattanti e stalker seguono un percorso che li accomuna – prosegue Simone – Quando la criminologa Lenore Walker parla di ciclo della violenza e di escalation, del fatto che con il passare del tempo questi atti si intensificano, fa delle affermazioni assolutamente condivisibili e trasversali, perché anche il brillante professionista, in un rapporto di coppia malato, potrebbe essere violento verso la propria compagna». Se da una parte l’approccio è stato quello di agire sulla donna, convincendola a denunciare per uscire da questo gioco infernale, per altri versi questo non è stato sempre possibile per un’ambivalenza che, le donne vittime di violenza, talvolta manifestano: «Pur comprendendo di trovarsi di fronte a persone che fanno loro del male, nel momento in cui per prassi il partner finge di cambiare atteggiamento nella fase della cosiddetta “luna di miele”, cedono alle lusinghe e tornano con lui perché alla base c’è la loro volontà di salvare il rapporto». Questo è il primo motivo per il quale è necessario agire anche sull’uomo; il secondo consiste nella possibilità che pur ammettendo che si riesca a salvare una donna grazie alla denuncia e all’approccio multidisciplinare delle istituzioni, il maltrattante potrebbe volgere le sue “attenzioni” a un’altra potenziale vittima, reiterando la condotta violenta. «L’ammonimento è il primo atto che possiamo utilizzare – spiega la dirigente – ed è proprio quando iniziano queste condotte, quando ancora il processo non si è incancrenito nell’escalation che dobbiamo agire e abbiamo risultati positivi». Dall’attivazione del protocollo la Divisione anticrimine di Milano ha ammonito 353 persone che sono state invitate presso il Centro italiano per la promozione della mediazione (Cipm), partner della questura, diretto dal criminologo Paolo Giulini, per aiutare i maltrattanti ad elaborare il disvalore delle loro azioni. «Per legge non possiamo imporre l’adesione alla convocazione – precisa la dirigente – ma l’80% delle persone si è presentato; tra questi 144 sono stati ammoniti per stalking e 130 per violenza domestica e solo 27 hanno reiterato ulteriori condotte dopo l’ammonimento». Dopo diverse sedute c’è, nella maggior parte dei casi, una presa di coscienza da parte del maltrattante, a riprova che agendo sulla leva della prevenzione si possono ottenere buoni risultati. Il protocollo Zeus prevede anche corsi di formazione rivolti agli operatori di polizia nei quali si spiega loro come le persone che subiscono violenze, solo se totalmente a proprio agio, possono liberarsi dalle paure che il partner possa continuare a far loro del male e che un nuovo inizio sarà possibile solo chiudendo quel rapporto malato. «Il professionista che gestisce questi casi sa benissimo che si tratta di rapporti che non si salvano. La tecnica della mediazione, frasi come “torni a casa signora, fate pace” o l’idea che si tratti di “affari di famiglia” è assolutamente negativo ed è un errore che l’operatore di polizia non deve commettere. Al momento della denuncia, la donna che trova il coraggio di maturare una scelta tanto coraggiosa, perché coinvolge spesso l’uomo con cui ha deciso di vivere la propria vita, ha il diritto di essere ascoltata e aiutata a portare fino in fondo la propria scelta» conclude Alessandra Simone. Tutti i corsi di formazione sono finalizzati a creare un approccio empatico affinché la denunciante possa arrivare a chiudere il rapporto di dipendenza psicologica, economica o di altro tipo verso il maltrattante. Nel corso degli anni sono state affinate le procedure e le tecniche di approccio con le vittime: ogni donna è differente e nel momento in cui l’operatore cede alla tecnica di mediazione si sentirà non compresa, tenderà a non tornare e l’intervento successivo potrebbe essere quello fatale. Il Servizio centrale anticrimine ha registrato come in ogni città con uno o più protocolli d’intesa, tra cui Zeus, il numero di ammonimenti sia altissimo mentre è basso il numero dei morti. Nel solco dell’esperienza positiva di Milano anche altre questure hanno sottoscritto protocolli con il Cipm e altre associazioni: Cagliari, Mantova, Oristano, Cremona, Viterbo, Isernia, L’Aquila, Pescara, Catanzaro, Reggio Emilia, Torino e Piacenza.

Il fattore culturale
Un grande investimento è rappresentato dalle campagne di comunicazione: è importante scendere in strada e parlare con le persone, formando non solo gli operatori della Volanti, ma anche dei commissariati. «Attraverso la campagna permanente “Questo non è amore”, sono mediamente 8mila i contatti che riceviamo in un solo pomeriggio – spiega la dirigente della 1^ divisione anticrimine – si tratta di persone che vengono a chiedere informazioni perché ci trovano facilmente, sul loro percorso. Invece di aspettare che entrino in questura, gli andiamo incontro noi». Poiché la cultura del rispetto si forma sui banchi di scuola, assume un rilievo particolare l’interazione con i ragazzi, per dare loro risposte utilizzando un linguaggio semplice e poco tecnico, su un tema scottante e per “guadagnare” la fiducia nelle istituzioni per un intervento tempestivo e professionale. «Tra le tante domande che i ragazzi ci rivolgono quando andiamo a parlare nelle scuole – spiega Rosaria Di Blasi, vice dirigente della 1^ divisione anticrimine – una mi ha colpito in particolare: “se una ragazza subisce una violenza quando è ancora adolescente, questi effetti se li porterà dietro per tutta la vita?”. Secondo la mia esperienza domande forti come questa dovrebbero costituire un potenziale campanello d’allarme per l’operatore di polizia e spesso le denunce vengono fatte quando la vittima ha maturato dentro di sé quello che ha subito, quando ha metabolizzato ciò che è accaduto e si è spogliata di quel senso di responsabilità che spesso accompagna questo tipo di vissuti». Questi incontri sono preziosi e possono scongiurare il rischio che i ragazzi si convincano che la realtà sia tutta un’altra cosa. Una nuova importante iniziativa della Direzione centrale anticrimine, finalizzata alla gestione delle richieste di aiuto delle vittime di violenza, nel periodo del lockdown, è stata l’implementazione dell’App della polizia di Stato YouPol, attraverso la quale i cittadini possono “chattare”, anche in modo anonimo, con le sale operative delle questure per segnalare situazioni di disagio, trasmettere messaggi e immagini. Creata per contrastare il bullismo e lo spaccio di sostanze stupefacenti nelle scuole, è stata aggiornata, nel mese di marzo 2020, prevedendo la possibilità di segnalare anche i reati di violenza domestica. Dal 28 marzo al 30 settembre sono state 542 le segnalazioni ricevute tramite l’App.

Tutti possono fare la differenza
La storia di Immacolata è una di quelle che purtroppo non ha un lieto fine, ma è un episodio emblematico: «Ero in servizio alla squadra mobile di Messina – racconta Rosaria Di Blasi – e quello che più mi colpì fu il corpo di quella ragazza di circa 30 anni, riversa sul letto disfatto della sua camera, in un quartiere periferico di Messina. Era decisamente minuta, con una massa enorme di capelli neri che nascondevano il volto tumefatto. Come se lei, che non aveva mai parlato, si fosse premurata anche quel giorno di non lasciare trasparire i segni di quella violenza. La segnalazione, come in molti casi del genere, era arrivata direttamente dal fidanzato, nel tentativo di camuffare la situazione, come se fosse stato lui a ritrovare la ragazza morta. Dopo un lungo interrogatorio pieno di contraddizioni sono emersi chiari segnali che indicavano la sua colpevolezza. Era stato messo alle strette e dopo aver chiesto una sigaretta ha confessato: era una persona completamente diversa rispetto a quella che stava parlando solo pochi minuti prima con noi. Il senso di possesso nei confronti di Immacolata era talmente forte da “giustificare” quell’atto brutale e disumano, una reazione al “grande amore” che provava per la ragazza. Solitamente siamo felici quando riusciamo ad assicurare un colpevole alla giustizia, ma quella sera, quando uscimmo dalla questura, non ridevamo. Avrei voluto davvero incontrare prima Immacolata, per poterle parlare. Per spiegare che “non è mai solo uno schiaffo”». Questa testimonianza rappresenta uno dei tanti casi di “non amore” e spiega quanto, in storie come questa, sia importante il coinvolgimento della società civile. Immacolata è morta alla vigilia dell’8 marzo, pesava 40 chili ed era piena di lividi. Le testimonianze, che riferiscono che nessuno si era accorto di nulla, sono una terribile menzogna. «Tutte le iniziative che la Polizia di Stato porta avanti – conclude Marina Contino – necessitano della collaborazione di una società evoluta culturalmente, pronta a non girarsi dall’altra parte quando sente delle urla provenire dall’altro lato del muro». Pronta a contrastare il pensiero che dice “non sono fatti tuoi”. 

12/03/2021