Giulia Fabri*

La diffamazione nell’era digitale

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ins diffamazione 01-21

1. Premessa 

La diffamazione è un delitto contro l’onore consistente nell’offesa all’altrui reputazione, realizzata in assenza del soggetto passivo e comunicando con più persone. La tutela penale dell’onore viene direttamente ricondotta alle scelte valoriali espresse nella Costituzione e al riferimento, in essa contenuto, ai “diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali in cui si svolge la sua personalità” (art. 2 Cost.), nonché alla “pari dignità sociale” degli individui (art. 3 Cost.), che impedisce al singolo di “elevarsi a giudice delle altrui indegnità ed esprimere con atti o parole valutazioni negative sulle persone” . Con ciò, si pone evidentemente un limite all’esercizio del diritto alla libera manifestazione del pensiero, anch’esso costituzionalmente garantito; la costante tensione tra valori fondamentali della società democratica – il rispetto della sfera individuale da un lato, la libertà di espressione e la tutela della funzione sociale dell’informazione dall’altro – ha impegnato la giurisprudenza dal secondo dopoguerra ad oggi, nel tentativo di individuare un giusto contemperamento tra gli interessi in gioco.

Ulteriori sfide provengono peraltro dal progresso tecnologico: il legislatore italiano ha infatti scelto di non individuare tassativamente i mezzi attraverso cui il messaggio diffamatorio può essere veicolato, con la conseguenza che la diffusione di nuovi mezzi di comunicazione ha moltiplicato le occasioni di consumazione del reato. Si è infatti osservato che le odierne tecnologie consentono a qualsiasi persona di raccogliere informazioni, nonché di esprimere la propria opinione in merito alle tematiche più diverse; ciò ha determinato, in quella che è stata efficacemente definita come una “escalation comunicativa”, un significativo incremento della possibilità di diffusione di contenuti diffamatori, anche in ragione dell’enorme bacino di utenza che caratterizza il Web e, più in particolare, le piattaforme di rete sociale. 

2. Il reato di diffamazione

Al fine di inquadrare le criticità derivanti dall’uso dei moderni mezzi di comunicazione, appare opportuno analizzare brevemente la fattispecie di diffamazione.

2.1. Elementi costitutivi del reato

Come anticipato, l’art. 595, comma 1, cp, incrimina la condotta di chi offenda l’altrui reputazione comunicando con più persone: occorre dunque che l’espressione lesiva venga a conoscenza di altri e si ritiene sufficiente, ai fini della configurabilità del reato, che l’affermazione denigratoria sia percepita da almeno due persone. La giurisprudenza di legittimità ha avuto cura di precisare, a questo proposito, che non è necessario che la propalazione delle frasi offensive venga posta in essere simultaneamente, potendo aver luogo anche in momenti diversi, purché risulti comunque rivolta a più soggetti; si è inoltre chiarito che il reato può dirsi integrato anche laddove l’autore della frase lesiva dell’altrui reputazione comunichi con una sola persona, quando le modalità siano tali da far sì che la notizia venga sicuramente a conoscenza di altri e l’autore agisca rappresentandosi e volendo tale evento. 

L’inciso posto in apertura dell’art. 595 cp — “fuori dei casi indicati nell’articolo precedente” —permette inoltre di individuare un ulteriore requisito della fattispecie, rappresentato dalla necessaria assenza della persona offesa: tale elemento, che permetteva di distinguere il delitto di diffamazione dalla fattispecie contigua di ingiuria – oggi depenalizzata – non deve essere inteso in senso strettamente fisico-spaziale, bensì come impossibilità di percezione fisica dell’offesa da parte del soggetto passivo; si ritiene, infatti, che la diffamazione si configuri anche quando il soggetto passivo, pur presente, non sia in grado di percepire l’offesa. Deve essere in effetti rilevato che mentre nell’ingiuria le espressioni offensive sono dirette all’offeso, nella diffamazione quest’ultimo resta estraneo alla comunicazione intercorsa con più persone e non è, pertanto, posto in condizione di interloquire con l’offensore; ed è proprio nell’impossibilità per il soggetto passivo di replicare immediatamente all’offesa che si ravvisa la ratio della maggiore gravità della diffamazione rispetto all’ingiuria.

Chiarito il perimetro applicativo della fattispecie con riferimento ai destinatari della comunicazione, è necessario apprezzare il tenore offensivo delle espressioni utilizzate; a tal fine, la giurisprudenza fa ricorso ad un concetto oggettivo di reputazione, intesa come “considerazione in cui l’individuo è tenuto dalla comunità in cui opera ed è conosciuto” : in altri termini, è necessario considerare il patrimonio di stima e di credito accumulato dal singolo nella società e, in particolare, nell’ambiente in cui quotidianamente vive e opera. Per stabilire se vi sia stata una lesione di tale bene giuridico si rende peraltro necessario valutare il significato complessivo delle parole adoperate. Non deve infatti essere assunto a riferimento soltanto il significato proprio dei vocaboli, ma anche l’uso che se ne fa ed il contesto comunicativo in cui le espressioni si inseriscono: si è infatti precisato che il carattere diffamatorio di un’affermazione può discendere, oltre che dal contenuto oggettivamente offensivo della frase autonomamente considerata, anche dal contesto in cui la stessa è pronunciata, in quanto esso può determinare un mutamento del significato dell’espressione altrimenti non diffamatoria, conferendole un contenuto allusivo, percepibile dall’uomo medio . Si è del resto da tempo precisato che anche le espressioni dubitative, come quelle insinuanti, allusive, sottintese, ambigue, suggestionanti, se non corrispondenti al vero, possono ledere l’altrui reputazione quando risultino idonee ad ingenerare nella mente dei destinatari il convincimento della effettiva rispondenza a verità del fatto formalmente solo adombrato .

Quanto all’elemento soggettivo, è richiesto il dolo generico, anche nella forma del dolo eventuale: non è infatti necessaria la presenza di un “animus iniuriandi vel diffamandi”, essendo sufficiente che l’agente faccia consapevolmente uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, in base al significato che esse oggettivamente assumono , senza che rilevino le intenzioni dell’agente. Da ciò discende, tuttavia, che il valore offensivo di un’espressione può essere escluso in conseguenza dell’evolversi del contesto storico e della coscienza collettiva, se il termine utilizzato o la circostanza attribuita non sia oggettivamente percepibile come lesiva della reputazione del soggetto passivo.

2.2. Diritto di cronaca e di critica

L’art. 51 cp, relativo all’esercizio di un diritto, assume particolare rilievo con riferimento al reato di diffamazione; come si è anticipato, infatti, il bene giuridico tutelato dall’art. 595 cp deve essere contemperato con il diritto alla libertà di espressione, garantito dall’art. 21 Cost., sia sotto il profilo del diritto di cronaca sia con riferimento al diritto di critica. 

In particolare, il diritto di cronaca si configura come diritto di raccontare, tramite la stampa o altri mezzi di comunicazione, accadimenti reali, in considerazione dell’interesse che essi possono assumere per la collettività; perché l’esercizio di tale diritto possa dirsi legittimo, si richiede tuttavia la sussistenza del requisito della verità della notizia, unitamente all’esistenza di un interesse del pubblico alla conoscenza dei fatti (cosiddetta pertinenza) e ad un’esposizione caratterizzata da correttezza formale (cosiddetta continenza) . 

Particolarmente problematico è il requisito della verità: esso può infatti essere inteso in senso rigoroso, come assoluta e piena rispondenza al vero dei fatti narrati – con la conseguenza che nessuno spazio può trovare il riconoscimento della scriminante nella forma putativa – ovvero nel senso accolto dalla giurisprudenza più recente, secondo cui è necessario avere riguardo al rispetto dei principi di professionalità e prudenza nella verifica dei fatti oggetto della notizia. Si è infatti ritenuto che possa integrare l’esimente putativa dell’esercizio del diritto di cronaca il controllo della notizia attraverso il riferimento a fonti di sicura qualità ed affidabilità, al fine di vincere ogni dubbio circa la veridicità del fatto narrato. In ogni caso, deve rilevarsi che ai fini dell’operatività dell’esimente dell’esercizio del diritto di cronaca, non determinano il superamento della verità del fatto modeste e marginali inesattezze che concernano semplici modalità del fatto senza modificarne la struttura essenziale . 

Anche il diritto di critica, consistente nella “presa di posizione motivata e argomentata su accadimenti, fatti o circostanze dei più vari settori della vita sociale” , implica la verità del fatto, in quanto la mancanza di un presupposto fattuale oggettivo tramuterebbe la critica in una pura invenzione; tuttavia, giurisprudenza e dottrina interpretano con maggiore ampiezza i requisiti della continenza e della pertinenza, in considerazione della necessità di favorire il confronto e la dialettica, tenendo altresì conto del contesto comunicativo in cui le propalazioni sono avvenute . A questo proposito, si segnala una recente sentenza attraverso cui la Suprema Corte ha chiarito, occupandosi della prassi invalsa nelle trasmissioni dedicate al cosiddetto gossip di spettacolarizzare il pettegolezzo anche attraverso il ricorso a toni accesi ed aspri, che i limiti dell’interesse pubblico alla conoscenza del fatto e della continenza espressiva, immanenti all’esercizio del diritto di critica, assumono una maggiore elasticità in considerazione del contesto dialettico nel quale si sono realizzate le condotte e, in particolare, il parametro dell’interesse pubblico alla conoscenza del fatto, che in siffatte trasmissioni ruota attorno alla curiosità determinata dalla vita privata di personaggi noti, deve necessariamente ampliarsi, tenendo in considerazione anche la scelta dell’interessato di partecipare a siffatti dibattiti, che implica la volontaria esposizione al pericolo che vengano colpiti da critica anche aspetti della sfera personale ulteriori rispetto a quelli che egli ha deciso di rendere noti; la continenza espressiva deve peraltro valutarsi secondo i parametri propri della critica di costume, che consente toni anche sferzanti, purché non gratuiti e pertinenti al fatto narrato e al concetto da esprimere. 

2.3. Le aggravanti speciali

Il legislatore ha previsto, con riferimento al reato di diffamazione, tre circostanze aggravanti speciali.

In particolare, l’art. 595, comma 2, cp, dispone un aggravamento della pena nel caso in cui l’offesa consista nell’attribuzione di un fatto determinato; ciò in ragione della maggiore efficacia offensiva della propalazione, determinata dalla specificità dell’addebito. L’art. 595, comma 3, cp, attribuisce invece maggior disvalore alla condotta di chi realizzi l’offesa avvalendosi del “mezzo della stampa” o di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”: anche in questo caso, la ratio della disposizione risiede nella circostanza che la particolare diffusività del mezzo utilizzato rende più grave la lesione dell’onore altrui; ciò in quanto la propalazione può potenzialmente raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone, soprattutto in considerazione del ruolo che la stampa ed i mass media rivestono nel

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12/01/2021