Cristiano Morabito e Chiara Distratis

Storie da supereroi

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Alla scoperta del mondo paralimpico attraverso le esperienze di sei personaggi. Il ruolo fondamentale delle Fiamme oro

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Se dovessimo scegliere due immagini che ci portano alla mente i Giochi olimpici di Roma ’60, celebratisi per l’appunto sessant’anni fa, di certo sceglieremmo quella di Abebe Bikila a piedi nudi lungo i Fori imperiali che va a vincere la maratona e Livio Berruti (atleta delle Fiamme oro) che taglia per primo il traguardo dei 200 m piani allo Stadio Olimpico. Ma ce n’è una che in pochissimi ricordano e che, attraverso alcune fotografie significative che nei giorni scorsi sono state proiettate di notte sul Colosseo, ha segnato un momento fondamentale per lo sport: la prima Paralimpiade della storia. 

Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata tanta e le Paralimpiadi, piano piano, sono diventate un evento di importanza planetaria e non più una coda dei Giochi olimpici, bensì una manifestazione che nel tempo ha conquistato la sua importanza. Un percorso segnato da ostacoli di ogni genere, come la mancanza di fondi che a Rio 2016 mise in pericolo fino all’ultimo la celebrazione dell’evento, che alla fine, invece, risultò come uno dei migliori della storia. 

 


LUCA PANCALLI (Presidente del Comitato italiano paralimpico)

Di questo percorso ha fatto parte Luca Pancalli, presidente del Cip (Comitato italiano paralimpico) al vertice da ormai più di vent’anni, fin da quando si parlava della Federazione italiana sport disabili e prima ancora di Fisha (Federazione italiana sport handicappati): «… che solo nella terminologia rievocava qualcosa di diverso dal concetto di sport – interviene il presidente del Cip – Dal 2000 in poi ci siamo imposti di non parlare più di atleti “disabili”, ma di atleti “paralimpici”, quasi come una goccia cinese in ogni sede e, piano piano, la terminologia è stata talmente acquisita da tutti i media che è entrata anche nell’enciclopedia Treccani».

Uno “tsunami silenzioso”, una vera e propria rivoluzione culturale, come ebbe modo di evidenziare lo stesso Pancalli in un colloquio con il presidente Mattarella, ciò che piano piano, ma costantemente, ha portato il movimento paralimpico italiano a conquistarsi un posto di eccellenza all’interno del mondo sportivo italiano: «Nel 1984, al ritorno dalle Paralimpiadi, leggendo il giornale notai che gli olimpici sarebbero stati ricevuti dall’allora presidente Pertini al Quirinale, ma nulla riguardo noi paralimpici – ricorda Pancalli – fu allora che presi in mano una vecchia Olivetti di mio padre e scrissi: “Signor Presidente, l’Azzurro delle nostre maglie e il tricolore che sventoliamo noi sul podio sono gli stessi degli atleti che hanno partecipato alle Olimpiadi”. E, da allora, al termine dei Giochi, anche gli atleti paralimpici sono stati invitati al Quirinale. Ma mi accorsi che qualcosa stava cambiando quando ad Atlanta 1996 uscendo dalla piscina una persona mi chiese l’autografo. E allora capii che piano piano stavamo modificando la cultura delle persone, ma che la strada da fare sarebbe stata ancora lunga».

Dunque, una vera e propria rivoluzione che ha iniziato ad abbracciare tutti i campi, ad iniziare da quello della comunicazione, fino ad arrivare a toccare le principali istituzioni del Paese, ma sempre senza fare rumore, nella convinzione che le vere barriere da abbattere non fossero solo quelle architettoniche, ma quelle di una cultura che fino a non poco tempo fa vedeva la disabilità come un qualcosa da nascondere o, ancora peggio, da compatire: «Quando ero atleta, ricordo che entravamo al Coni dalla porta di servizio, ricordo il buffetto e le pacche sulle spalle come a dire “coraggio” – prosegue Luca Pancalli – Sono cose che ho mandato giù tante volte, perché le ritenevo ingiuste nei confronti degli sforzi che stavamo facendo. Oggi non siamo ancora arrivati al punto finale, ma di strada ne abbiamo fatta tantissima: se un nostro atleta fa un record del mondo, magari l’articolo sui giornali lo conquistiamo, mentre una volta forse uscivamo sulle colonnine delle “varie” con titoli del tipo “L’eroe sfortunato che vince alle Olimpiadi del cuore e del coraggio”... che, per inciso, era un titolo che riguardava il sottoscritto. Quella era la rappresentazione della cultura e della società italiana dell’epoca. Oggi, quando i nostri atleti vincono qualcosa nessuno si permette di chiamarli “eroi sfortunati”. Continuerò a lavorare, come ho sempre fatto, in primis per il rispetto e la dignità degli atleti».

E il mondo della comunicazione è davvero cambiato, anche nella rappresentazione televisiva. Fino a non poco tempo fa l’atleta paralimpico veniva inquadrato quasi sempre a mezzo busto o in primo piano, quasi che non si dovesse far vedere la disabilità da cui era affetto. Oggi, grazie anche a molti atleti-simbolo di questo particolare e affascinante mondo, questo problema non esiste più e vedere una carrozzina in pista, un paio di gambe artificiali o un atleta amputato in pedana di scherma è diventata la normalità. 

Lo “tsunami silenzioso” però doveva aggiungere una tessera importante a quel puzzle che è la galassia paralimpica, ossia l’ingresso a pieno titolo nei gruppi sportivi come le Fiamme oro: «Ho avuto la fortuna di incontrare, dall’altra parte, persone lungimiranti e sensibili – prosegue Pancalli – come Antonio Manganelli, passando poi a Gianni De Gennaro fino all’attuale capo della Polizia Franco Gabrielli (con il quale quando era alla Protezione civile firmai la prima convenzione) che hanno saputo vedere oltre. Senza dimenticare il prezioso lavoro svolto da Francesco Montini (attuale presidente dei GS Fiamme oro). Conoscendo la realtà culturale con la quale avrei dovuto interagire, se avessi tentato di imporre atleti disabili nel rispetto della dignità, ecc…, avrei probabilmente raggiunto lo stesso risultato, ma sarebbe stato un risultato subìto. Chiesi collaborazione, l’apertura di una “porta”. E alla fine il risultato è stato proprio questo, che poi corrisponde con il fine ultimo che avevamo in mente: mettere la tuta con la scritta “Polizia” addosso a un atleta disabile. Poi, è stato tutto più facile, perché vi siete letteralmente “innamorati” della nostra realtà e, soprattutto, delle storie uniche degli uomini e delle donne che la compongono. E oggi la sezione paralimpica delle Fiamme oro è una splendida realtà, che con i suoi atleti porta successi a ogni manifestazione, senza contare la “bomba comunicativa” che rappresentano quando, ad esempio, li mandiamo in giro nelle scuole con quelle tute: danno un messaggio fortissimo attraendo l’attenzione dei più giovani, inducendoli a riflettere sui propri comportamenti».

Quindi, una vera e propria missione quella del movimento paralimpico, ossia di cambiare la cultura delle persone attraverso lo sport e, per farlo, c’è ancora bisogno di qualcosa: «Personalmente – conclude Pancalli – ho tre sogni che, piano piano, sono convinto riusciremo a realizzare: il completamento del nostro Centro di preparazione paralimpica, l’arruolamento degli atleti nei Gruppi sportivi militari e di polizia (e anche su questo si sta lavorando nell’attuale bozza di riforma dello sport, ndr) e, infine, la fusione di Coni e Cip in un unico comitato, allorquando il percorso di crescita culturale di tutta la famiglia sportiva italiana – per il quale naturalmente stiamo incessantemente lavorando – lo consentirà. La strada ormai è stata tracciata e, indipendentemente dalla mia presenza, continuerà ad essere percorsa, perché lo “tsunami silenzioso” è inarrestabile e anche perché non sono mai stato una persona alla ricerca del potere o di una poltrona della quale, come amo dire, non ho bisogno perché già me ne porto una da casa». 

 


BEBE VIO (Scherma)
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In più di un’occasione hai dichiarato di non aver mai vissuto episodi di discriminazione.
Sono stata molto fortunata perché non ho subìto nessun tipo di discriminazione né per la mia disabilità né per altro. Dipende tutto da come presenti la tua diversità alle persone. Avevo 11 anni e frequentavo la prima media, i miei compagni mi hanno conosciuta il primo mese di scuola e mi hanno rivista circa un anno dopo cambiata dalla malattia. Forse proprio perché ero piccola per me protesi e sedia a rotelle erano giocattoli e come tali le ho fatte conoscere ai miei amici; ero diventata come un pupazzetto, le mie mani in 30 secondi erano dall’altra parte della classe perché qualcuno ci giocava e con la carrozzina facevamo le gare nei corridoi della scuola. Sono convinta che questo approccio sia fondamentale: anche oggi, quando incontro dei bambini piccoli che magari mi dicono che ho le gambe come quelle dei robot subito rispondo che mi servono per correre più veloce o saltare più in alto, per loro diventa una cosa “figa”. Fondamentale è riuscire a stare bene nel proprio ambiente, se stai bene nessuno ti potrà mai dare fastidio, se sei fiero di essere ciò che sei lo trasmetti anche agli altri. 

Dopo la malattia il tuo amore per la scherma e la voglia di tornare in pedana ti hanno aiutata molto. 
Ho iniziato a tirare a 5 anni, e passavo le giornate in palestra. La mia fortuna è che ho sempre avuto grandi squadre intorno, a partire dalla mia bellissima famiglia: quando hai persone che credono in te puoi andare dovunque e fare qualunque cosa. Tutti dicevano che tirare di scherma senza la mano sarebbe stato impossibile, ma mio padre è riuscito a progettare la mia prima protesi per tenere il fioretto permettendomi di tornare a fare quello che più amavo. Lo sport può essere un grande aiuto per ricominciare. Ma spesso si incontrano difficoltà pratiche, come per me fu trovare la protesi adatta: i miei genitori hanno creato una onlus, Art for Sport, che ha lo scopo di fornire ai ragazzi amputati le parti fisiche mancanti per fare sport. È bello vedere come attraverso lo sport questi bambini rinascano completamente; seguiamo anche i più piccoli che non hanno mai potuto correre e far sì che riescano a farlo per la prima volta ci riempie di felicità. Lo sport può essere prezioso in ogni tipo di percorso, io ho avuto la fortuna di praticarlo da sempre e mi ha aiutata anche a evitare gli “sbandamenti” da adolescente. 

Il tuo esempio è molto importante, e lo è per chi vive queste realtà poterti vedere e confrontarsi con te; e tu sei sempre disponibile con tutti.
La “figata” è proprio dimostrare come sia in realtà molto più facile essere felici piuttosto che svegliarsi con la luna storta; se sei felice riesci a rendere felici anche gli altri. Con la nostra associazione abbiamo capito che è sì importante fornire i “pezzettini” mancanti ma è altrettanto fondamentale stare vicini alle famiglie, dalle quali vengono le prime discriminazioni: come un genitore che dice al figlio di non uscire di casa perché si potrebbe fare male o di non andare nello spogliatoio perché poi lo fissano… lo guarderanno la prima volta, capiranno di cosa si tratta e poi sarà tutto normale. È l’“ignoranza” che crea discriminazione: se non conosci qualcosa tendi ad averne paura. La maggior parte delle persone che si presentano a me, per esempio, non sanno come comportarsi: che faccio le do la mano…  ma ha le protesi, le do due baci sulle guance… no, ha le cicatrici... Sta tutto nel rendere le cose semplici, più le spieghi, più diventano normali. Tutto parte della conoscenza, come dice il nostro presidente Luca Pancalli, bisogna riuscire a fare cultura della disabilità. 

A un certo punto della tua carriera agonistica è arrivata la chiamata dalla Polizia di Stato…
Entrare a far parte delle Fiamme oro è stata la realizzazione di un sogno. C’erano tutti i miei idoli e desideravo più di ogni altra cosa vestire questa maglia… anche perché fa figo andare in giro con la maglietta con scritto “Polizia”. A parte gli scherzi… è bello sapere di appartenere a una squadra che è come una grande famiglia, ma soprattutto che ci sono delle persone che credono in te e ti supportano in tutto quello che fai. Viaggio molto per le gare e posso dire che in Italia siamo molto avanti rispetto al resto del mondo, ma un ulteriore passo avanti lo faremo quando gli atleti paralimpici potranno entrare anche a livello lavorativo nei corpi. Sono fiera di far parte di questa squadra».

 


ORESTE LAI (Tiro a volo)

Tutto è successo all’improvviso…
Ero un camionista e un istruttore di guida, nel 2003 primo e unico incidente: cado in moto, prendo un muretto e mi rompo due vertebre. Ho subito capito che cosa mi fossi fatto. Dopo l’incidente ho percorso l’iter che si fa in questi casi: ospedale, unità spinale, riabilitazione e siccome sono tenace e determinato mi sono rimesso in piedi con le stampelle e i tutori, ma poi ho preferito la carrozzina per paura di cadere. Uscito dall’ospedale ho cercato di riprendere la mia vita di sempre, a fare tutte le cose che mi piacevano come andare a caccia o a fare pesca subacquea. 

Come hai scelto questo sport?
Prima dell’incidente praticavo molti sport a livello amatoriale, dopo un amico di caccia mi ha fatto provare il tiro al piattello. La prima volta, con un fucile in prestito, ho centrato 21 piattelli su 25 e dopo un mese di allenamento sono andato a fare i Campionati italiani dove ho vinto due titoli. Da lì è iniziata l’avventura che mi ha portato a conquistare 15 titoli italiani, vari internazionali, a diventare vicecampione del mondo nel 2018 e Campione nel 2019. Mi hanno cercato vari Corpi per entrare nei gruppi sportivi, ma ho scelto la Polizia di Stato. Sono molto orgoglioso di questo! Sento su di me molta responsabilità, mi piace portare come si deve la polo cremisi e essere un esempio di serietà e umiltà.  

Quando la tua vita è cambiata, che tipo di difficoltà hai incontrato?
Di problemi se ne incontrano tanti ma bisogna adattarsi e sfruttare qualche ausilio per superarli. Il trucco sta nell’affrontarli e non arrendersi; dopo l’incidente ho scoperto di avere risorse che non avrei mai pensato. Per esempio volevo andare a caccia e quindi per spostarmi da un posto all’altro usavo il quad, a casa ho messo una rampa dove ci sono tre gradini e ho adattato il bagno per stare comodo con la carrozzina. Le difficoltà maggiori sinceramente le crea l’essere umano: mi fa arrabbiare trovare occupato il parcheggio disabili da chi non ha diritto; o trovare una macchina parcheggiata attaccatissima, anche se metti il cartellino sul vetro laterale, e non poter aprire lo sportello per mettere dentro la carrozzina. Però alla fine si va avanti, oggi c’è tutto per vivere al meglio anche in questa condizione. Non andrò a correre in montagna ma attacco l’ausilio elettrico e percorro la stradina bianca invece di scalare, però ci vado lo stesso!

 


ANTONIO FANTIN (Nuoto)

Da bambino sei stato colpito da una malattia... 
Sì, all’età di 3 anni e mezzo una mattina mi sono svegliato con un formicolio al piede e si è scoperto in poche ore che ero stato colpito da una Mav, malformazione artero-venosa che ha portato a una compressione e lesione midollare. Dopo l’intervento chirurgico è stato consigliato ai miei genitori di farmi fare riabilitazione in piscina e così è nato il mio amore per l’acqua. Nel 2014, inizialmente per dare sfogo a quella che è sempre stata la mia indole di volermi confrontare con gli altri ma anche e soprattutto con me stesso, sono passato della riabilitazione all’allenamento e, poi, a gareggiare.

Ci puoi raccontare che tipo di difficoltà hai incontrato durante la tua crescita?
Devo essere sincero, sono stato molto fortunato: fin da ero piccolo ho avuto grandi compagni di scuola, grandi amici e ho sempre avuto l’appoggio della mia famiglia. Di difficoltà naturalmente se ne incontrano parecchie, ma con il supporto dei miei cari sono sempre riuscito ad affrontarle con una motivazione e una voglia maggiore rispetto a chi non può contare su nessuno. 

Consigli di fare sport a chi magari deve affrontare da un giorno all’altro questo cambio di vita?
Per me è stato fondamentale. Credo che al di là dei risultati agonistici aiuti molto ad aprirsi, a cercare una nuova dimensione, a vedere il bicchiere mezzo pieno, a scoprire cosa si possa fare con ciò che si ha, a non guardare dove si è ma dove si vuole e si possa arrivare. Sono entrato in Nazionale molto giovane ma grazie ai miei compagni e al Ct Riccardo Vernole, che è un sovrintendente della Polizia di Stato, mi sono sentito da subito accolto e accettato e sono riuscito ad esprimermi al massimo. Per questo penso che sia fondamentale, nella vita come nella performance sportiva, avere un gruppo di amici, di persone anche professionalmente preparate, che ti diano un sostegno e che ti motivino… perché poi alla fine la vita e lo sport sono molto simili.

Sei uno degli ultimi arrivati nelle Fiamme oro… 
Sono entrato nel 2019, e sono molto contento e fiero di poter rappresentare la Polizia ma soprattutto le donne e gli uomini che ne fanno parte. Noi siamo fortunati, viviamo sotto le luci dei riflettori mentre loro fanno un lavoro molto delicato, sono impegnati a proteggerci. Quando indosso questa tuta con la scritta “Polizia” devo essere all’altezza di chi veste la divisa e quindi ogni volta che gareggio sento la responsabilità di appartenere a questo gruppo sportivo.

 


ALESSIO SARRI (Scherma)
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Alessio ci racconti la tua storia?
Sono il primo atleta paralimpico entrato a far parte del Gruppo sportivo Fiamme oro, tiro di scherma dal 2001 e ho vinto 1 bronzo Olimpico, 3 Mondiali, 20 titoli italiani consecutivi, qualche Coppa del mondo. Sono in carrozzina dal ’98 a causa di un incidente in moto. Nella clinica di riabilitazione dove mi curavo c’era la possibilità di fare sia nuoto che scherma e li ho praticati entrambi. Alle Olimpiadi di Atene ero qualificato in tutte e due le discipline ma ho dovuto fare una scelta perché le gare si svolgevano lo stesso giorno e ho preferito la scherma. Questo sport mi ha catturato in tutti i sensi, non è solo una questione di fisico ma anche psicologica: hai un avversario di fronte, è sempre un uno contro uno: è come una partita a scacchi a 300 all’ora. Con la scherma è stato amore a prima vista e da quel momento non ho più smesso, tanto che oggi alla tenera età di 47 anni ancora la pratico e proverò a qualificarmi per Tokyo 2021 che sarà, però, la mia ultima Paralimpiade e al 99% anche il mio addio all’agonismo. Dopo inizierò, sempre grazie alle Fiamme oro, a fare il tecnico. Ho superato l’esame di maestro di scherma di primo livello e ho già fatto un’esperienza con dei ragazzi con disabilità. Aiutarli a prendere in mano per la prima volta le spade, osservare con che facilità fanno piccoli progressi, ma soprattutto vedere la voglia che ci mettono e la felicità sui loro visi mi dà emozioni fortissime. Spero che il mio futuro sia ricco di soddisfazioni come tecnico ancora di più di quante ne ho avute come atleta.  

In clinica lo sport era un cardine fondamentale della riabilitazione per spronare sia fisicamente che mentalmente i pazienti. Secondo te serve allo scopo?
Assolutamente sì. Io sono un fan scatenato dello sport, credo che faccia bene e aiuti tutti e per tutto. Nel mio caso fino a 23 anni correvo, giocavo a basket e poi da un giorno all’altro mi sono ritrovato in carrozzina, mi si è aperto un mondo che non conoscevo, non sapevo come comportarmi, cosa mi aspettava nel futuro. Lo sport mi ha aiutato fisicamente, mentalmente ma anche tanto per rompere il ghiaccio con gli altri. Man mano che vai avanti, capisci che essere seduto non ti ha cambiato poi così tanto la vita. Certo, non posso giocare a calcio però ho fatto tante esperienze anche molto spericolate come, per esempio, essermi calato, legato con dei cavi, dai 54 metri della torre di Bracciano (RM).  

Hai subito qualche episodio di discriminazione?
Devo dire che sono molto fortunato, perché non ho mai subìto discriminazioni. Ho tanti amici, esco la sera; qualche anno fa, per l’addio al celibato di un nostro amico, avevano prenotato in un locale dove c’erano 87 scalini da scendere, quando siamo arrivati mi hanno detto candidamente che non avevano pensato che io stavo in carrozzina, per loro sono sempre il solito Alessio: il problema è stato superato velocemente perché mi hanno preso e portato giù e a fine serata mi hanno riportato su. Una cosa che mi dà molto fastidio, sono le persone che occupano il parcheggio dei disabili. Finché queste cose non ti toccano da vicino non ci pensi. Loro dicono… “vabbè l’ho lasciata solo per 5 minuti…” però in quei 5 minuti, magari sotto l’acqua, io devo parcheggiare più lontano, tirare giù la carrozzina, montare le ruote, salirci sopra e nel frattempo mi sono completamente bagnato.

Con te le Fiamme oro hanno fatto il loro ingresso nello sport paralimpico.
Nel 2012 poco prima delle Olimpiadi di Londra, Francesco Montini (presidente dei Gruppi sportivi Fiamme oro, ndr) ha voluto fortemente l’apertura della sezione paralimpica. Oggi, dopo 9 anni, ancora faccio parte di questo gruppo, mi trovo “strabenissimo”, non mi hanno fatto mai mancare nulla, mi sostengono completamente… insomma mi sento parte di una grande famiglia.

 


FRANCESCO MONTINI (Presidente Gruppi sportivi Fiamme oro)

La svolta nel 2012 quando il Gruppo sportivo Fiamme oro ha aperto le sue porte agli atleti paralimpici. Oggi, la Sezione paralimpica cremisi conta 20 atleti suddivisi in tre discipline (scherma, nuoto e tiro a volo), con un palmarès di 5 medaglie alle Paralimpiadi, 13 titoli mondiali assoluti e 24 europei. Una svolta avvenuta sotto la presidenza di Francesco Montini, al vertice dei Gruppi sportivi dal 2007: «La molla è scattata quando abbiamo capito che il fine istituzionale della Polizia di Stato può essere messo in pratica anche attraverso lo sport e aprendoci a nuove realtà, come quella paralimpica, accettando la proposta di Luca Pancalli di tesserare alcuni atleti. Per noi, come Istituzione, l’inserimento sociale è alla base». 

Qual è l’apporto che possono dare le Fiamme oro al mondo paralimpico?
Il nostro valore aggiunto non è quello di essere stati tra i primi, ma quello di aver avuto un approccio strutturale con il mondo dello sport, mettendo a disposizione uno staff tecnico. La nostra filosofia non consiste nel prendere l’atleta più forte per vincere da subito, ma approntiamo anche una struttura, i tecnici, il materiale sportivo... E questo lo facciamo sia con i paralimpici che con i normodotati.

Cosa l’ha colpita di questi atleti?
Le loro storie, perché dietro ognuno di loro ci sono sofferenze, sacrifici e anche gioia. Li vediamo sempre sorridenti, perché magari hanno vinto qualcosa. E quei sorrisi ci commuovono proprio perché sappiamo cosa c’è dietro. Penso a Bebe Vio, che è un vero e proprio inno alla vita ed è uno spot per tutto il movimento: chiunque sia depresso vede Bebe Vio e passa tutto. Ecco, questa è la loro forza. Frequentarli può solo fare del bene a tutti, perché sono un’iniezione continua di energia positiva.

È in progetto l’apertura ad altre discipline paralimpiche?
Siamo sempre in contatto con il Cip, perché vogliamo che la cabina di regia della distribuzione delle discipline resti in mano al Comitato paralimpico. Siamo disponibili chiaramente a farlo anche in altri settori, ma sempre in settori dove come Fiamme oro siamo in grado di dare un contributo che non sia il mero tesseramento: ultimamente abbiamo aperto anche al tiro a volo e i risultati si sono visti da subito. Quelli in cui siamo presenti, sono tutti sport dove, guarda caso, le Fiamme oro già sono al massimo livello. 

E per il futuro?
Il sogno è quello di arrivare ad assumere gli atleti paralimpici quando smettono l’attività sportiva, come gli atleti Fiamme oro che tornano in servizio come poliziotti. Vogliamo far sì che anche i paralimpici possano essere impiegati nella nostra Amministrazione, magari nel ruolo d’onore. L’ideale sarebbe riuscire a bandire in futuro dei concorsi anche per atleti paralimpici. 

09/10/2020