Giulia Fabri

La diffamazione nell’era digitale

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(Seconda parte)

ins 8-9-20

4.2. La responsabilità del blogger

Con la sentenza n. 31022 del 2015, le Sezioni Unite hanno altresì chiarito che le conclusioni raggiunte con riferimento alla testata giornalistica telematica non possono essere estese a tutti i nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero; è infatti necessario tener conto delle caratteristiche specifiche di ciascuno di essi, tenendo distinta l’area dell’informazione professionale dal vasto ed eterogeneo ambito della diffusione di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti in modo spontaneo.

In particolare il blog – contrazione di web-log, “diario in rete” – è un sito internet strutturato come una agenda personale in cui il blogger pubblica periodicamente contenuti in forma di post, ossia un messaggio testuale espressivo della propria opinione, generalmente aprendo all’intervento e al commento dei lettori; in alternativa, il blogger può scegliere di ospitare i post di altri soggetti che vogliono esprimere la loro opinione in merito a un determinato fatto. La giurisprudenza di legittimità ha specificato che tale forma di comunicazione telematica, pur essendo espressione del diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero (art. 21, primo comma, Cost.), non può essere parificata alla stampa, con la conseguenza che non trovano applicazione le tutele e gli obblighi previsti dalla normativa prevista per l’attività di informazione professionale diretta al pubblico.

È stato pertanto ritenuto legittimo il sequestro preventivo di un blog, in base alla considerazione che esso integra un “mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, con conseguente esclusione dell’applicabilità della normativa di rango costituzionale e di livello ordinario ad essa riservata. Ove ricorrano i presupposti del fumus commissi delicti e del periculum in mora, è dunque ammissibile, nel rispetto del principio di proporzionalità, il sequestro preventivo ex art. 321 cpp del sito web o di una singola pagina telematica, anche imponendo al fornitore dei relativi servizi di attivarsi per rendere inaccessibile il sito o la specifica risorsa telematica incriminata. 

Per lo stesso ordine di ragioni, si è precisato che l’amministratore di un sito internet non può essere ritenuto responsabile ai sensi dell’art. 57 cp, che rimane norma applicabile alle sole testate giornalistiche, anche telematiche, con esclusione dei diversi mezzi informatici di manifestazione del pensiero, quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list . Né si può ritenere che il mero ruolo di amministratore del sito determini il concorso nel reato di diffamazione configurabile in relazione a messaggi da altri materialmente inseriti nel blog: è infatti necessaria la sussistenza di elementi che denotino la compartecipazione dell’amministratore all’attività diffamatoria, secondo gli ordinari principi applicabili in materia di concorso di persone nel reato . 

A tale proposito, si segnala un’interessante sentenza della Suprema Corte, chiamata a pronunciarsi sulla responsabilità del gestore di un blog, accusato del reato di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma terzo, cp: in particolare, l’imputato aveva pubblicato sul proprio blog copia di una lettera aperta redatta dalla persona offesa, accompagnandola con un proprio commento di carattere diffamatorio, cui erano poi seguiti commenti pesantemente offensivi, sempre all’indirizzo del soggetto passivo, scritti da utenti anonimi. 

Tali espressioni denigratorie rimanevano pubblicate sul sito per circa tre anni e venivano rimosse a seguito di intimazione della autorità giudiziaria, peraltro soltanto grazie all’intervento del provider Google, che provvedeva a oscurare la pagina web. 

I giudici di legittimità hanno dapprima osservato che, dal punto di vista criminologico, «le condotte di diffamazione sono state facilitate dalla possibilità di un numero esponenziale degli utenti della rete internet di esprimere giudizi su tutti gli argomenti trattati, per cui alla schiera di “opinionisti social” spesso si associano i cosiddetti “odiatori sul Web”, che non esitano – spesso dietro l’anonimato – ad esprimere giudizi con eloquio volgare ed offensivo». 

Fatta questa premessa, la Suprema Corte si è soffermata sulle possibili responsabilità del blogger rispetto ai commenti lasciati dai lettori sul sito, spesso anche in forma anonima: la questione è in effetti particolarmente rilevante, dal momento che sempre più persone si avvicinano al mondo del blogging; pertanto, se il gestore del blog dovesse essere ritenuto responsabile per tutto quanto scritto sul proprio sito anche da altri soggetti, sarebbe ampliato a dismisura il suo dovere di vigilanza, ingenerando un eccessivo onere a carico dello stesso.

Esclusa la configurabilità della responsabilità per omesso controllo, ai sensi dell’art. 57 cp, per la diversità strutturale del blog rispetto alla stampa, la Suprema Corte ha altresì ritenuto che non possa ravvisarsi in capo all’amministratore del sito un’ipotesi di concorso omissivo nel reato commissivo altrui, né di reato omissivo improprio, dal momento che entrambe le ipotesi presuppongono la sussistenza di un obbligo giuridico di impedire l’evento . Si è in proposito evidenziato che il blogger non è titolare di una posizione di garanzia, poiché tale figura non è investita di poteri giuridici impeditivi di eventi lesivi di beni altrui, affidati alla sua tutela per l’incapacità dei titolari di proteggerli adeguatamente; inoltre, in tali ipotesi l’obbligo d’impedimento non potrebbe che sorgere in un momento successivo a quello della consumazione del reato che è diretto ad impedire.

A ben vedere, la condotta del titolare del sito che non si attivi tempestivamente al fine di rimuovere i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog equivale non al mancato impedimento dell’evento diffamatorio, bensì alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell’altrui reputazione, con ulteriore replica della offensività dei contenuti pubblicati su un diario che è gestito dal blogger. I giudici di legittimità hanno quindi ritenuto che si debba fare riferimento alla figura della pluralità di reati, integrati dalla ripetuta trasmissione del dato denigratorio: è necessario considerare che è proprio il gestore del blog a permettere, avendo in tal senso configurato il suo diario virtuale, che ai suoi post possano seguire i commenti dei lettori. Se il gestore del sito apprende che sono stati pubblicati da terzi contenuti obiettivamente denigratori e non si attiva tempestivamente per rimuovere tali contenuti, consente in sostanza l’ulteriore divulgazione di messaggi di carattere diffamatorio e finisce per farli propri, ponendo quindi in essere ulteriori condotte di diffamazione realizzate per il tramite del proprio blog. Nel caso esaminato dalla Suprema Corte – come si è detto – l’imputato aveva in effetti consapevolmente mantenuto nel suo blog contenuti offensivi, propri e di terzi, per un notevole periodo di tempo, fino all’oscuramento intimato dall’autorità giudiziaria ed eseguito dal provider.

Da tutto quanto fin qui esposto discende che va invece esclusa una responsabilità personale del blogger quando questi, reso edotto dell’offensività della pubblicazione, decida di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo.

Con riguardo al reato di diffamazione commesso mediante blog, la Corte di Cassazione ha avuto modo di pronunciarsi anche in relazione al tema del corretto esercizio del diritto di critica nella forma satirica, rammentando che tale esimente non può dirsi sussistente qualora la satira, ancorché a sfondo scherzoso e ironico, sia fondata su dati storicamente falsi; la causa di giustificazione sussiste infatti quando l’autore presenti in un contesto di leale inverosimiglianza, di evidente non veridicità finalizzata alla critica e alla dissacrazione delle persone di alto rilievo, una situazione e un personaggio trasparentemente inesistenti, senza proporsi alcuna funzione informativa. 

Nel caso sottoposto all’esame dei giudici di legittimità, all’imputato era stato ascritto il delitto di diffamazione per aver offeso la reputazione di un rappresentante politico tramite l’attribuzione a quest’ultimo una affermazione storicamente falsa, inserendola nel contesto di dichiarazioni effettivamente rese dalla persona offesa nel corso di un’intervista, così facendola apparire veritiera. 

La Suprema Corte ha valorizzato la circostanza che l’articolo, nonostante fosse pubblicato su un blog che si autodefiniva esplicitamente satirico, non presentava un tono ironico né scherzoso, essendo anzi redatto nella forma di fedele trasposizione delle dichiarazioni dell’intervistato e sembrava, pertanto, riconducibile alla categoria delle notizie; tale circostanza è stata ritenuta idonea a rendere complessivamente ingannevole il contesto in cui la falsa affermazione era inserita. 

Si tratta, a ben vedere, di una pronuncia che presenta profili di rilevante interesse rispetto alla problematica delle fake news : il termine è generalmente utilizzato, pur in mancanza di definizioni condivise dagli studiosi, per riferirsi a notizie la cui falsità risulti verificabile ed intenzionale, e che appaiano idonee a trarre in inganno i lettori . Il fenomeno appare particolarmente preoccupante proprio in ragione della insidiosità della condotta, che vede spesso la commistione di dati rispondenti a verità e di elementi privi di qualsiasi fondamento; è inoltre allarmante la rapidità con cui tali notizie possono diffondersi grazie ai moderni mezzi di comunicazione, risultando peraltro assai difficoltoso porre rimedio al problema attraverso la successiva rimozione dei contenuti risultati falsi. 

Nell’attuale impianto costituzionale, incardinato sul riconoscimento della libertà di manifestazione del pensiero, la propalazione di un’informazione falsa non assume, di per sé, rilievo penale: la sanzione penale non è infatti posta a presidio della verità dell’informazione in sé considerata, sicché la condotta deve essere necessariamente riconducibile ad una specifica fattispecie, volta a tutelare un particolare bene giuridico . 

In mancanza, dunque, di una puntuale regolamentazione del fenomeno, è attualmente possibile reprimere le condotte di disinformazione solo attraverso il ricorso a disposizioni codicistiche già esistenti; tra queste, assume particolare rilievo la fattispecie di diffamazione, proprio in quanto consente di sanzionare il comportamento di chi diffonda false informazioni sul conto di altri, ledendone la reputazione, servendosi peraltro di mezzi – come social network, blog, testate giornalistiche telematiche – caratterizzati da una spiccata diffusività e potenzialmente in grado di raggiungere un considerevole numero di utenti. 

4.3. DIFFAMAZIONE E SOCIAL NETWORK 

Come si è già avuto modo di anticipare, l’elemento discriminante ai fini della riconducibilità dei moderni mezzi di comunicazione alla categoria della stampa è da ravvisare, alla luce dell’interpretazione di recente offerta dalla giurisprudenza di legittimità, nel carattere professionale dell’attività di informazione realizzata attraverso il Web. Proprio per tale ragione, la stessa pronuncia delle Sezioni Unite più volte richiamata ha escluso che il social network denominato Facebook sia inquadrabile nel concetto di “stampa”, trattandosi di un servizio di rete sociale che offre servizi di messaggistica privata e consente l’instaurazione di una trama di relazioni tra più persone all’interno dello stesso sistema. Si è quindi affermato che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integri un’ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell’art. 595, comma 3 cp, sotto il profilo dell’offesa arrecata “con qualsiasi altro mezzo di pubblicità” diverso dalla stampa, poiché la condotta in tal modo realizzata è potenzialmente in grado di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone, e tuttavia non può dirsi posta in essere “col mezzo della stampa”, non essendo i social network destinati ad un’attività di informazione professionale diretta al pubblico. I giudici di legittimità hanno quindi ritenuto aggravata la condotta di diffamazione realizzata attraverso i social network evidenziando la circostanza che tali “piattaforme virtuali” permettono a gruppi di individui di valorizzare il profilo del rapporto interpersonale allargato ad un numero indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione ; secondo la Suprema Corte, «proprio queste peculiari dinamiche di diffusione del messaggio screditante, in una con la loro finalizzazione alla socializzazione, sono tali da suggerire l’inclusione della pubblicazione del messaggio diffamatorio sulla bacheca Facebook nella tipologia di “qualsiasi altro mezzo di pubblicità”, che, ai fini della tipizzazione della circostanza aggravante di cui all’art. 595, comma 3 cp, il codificatore ha giustapposto a quella del “mezzo della stampa”» . A fronte di ciò, va dato atto delle posizioni di parte della dottrina, la quale ha espresso riserve in relazione al ricorso ad automatismi applicativi con riferimento all’aggravante del “mezzo di pubblicità”, senza distinguere tra i diversi format comunicativi presenti sul Web .

Alcuni autori ritengono infatti preferibile valutare il peculiare funzionamento dei mezzi di comunicazione al fine di desumerne la corretta qualificazione giuridica: potrebbero qualificarsi come “mezzi di pubblicità” soltanto gli strumenti che consentono comunicazioni in incertam personam, in quanto rivolti ad una cerchia indeterminata di destinatari, per la mancanza di filtri o barriere all’ingresso che impediscano un accesso generalizzato ai contenuti pubblicati. Al contrario, non sarebbero mezzi di diffusione al pubblico le ipotesi di comunicazione ad certas personas, realizzate attraverso la diffusione di contenuti offensivi in spazi riservati, o comunque non liberamente accessibili da chiunque.

Con riferimento all’utilizzo dei social network, alcuni interpreti hanno osservato che non è possibile concludere in ogni caso per l’integrazione dell’aggravante di cui all’art. 595, comma 3 cp, in quanto la possibilità che il contenuto diffamatorio raggiunga un numero indeterminato di persone andrebbe apprezzata tenendo conto delle varie opzioni di privacy che la piattaforma stessa consente. Si è infatti evidenziato che le pagine personali presenti su Facebook non sono liberamente accessibili, essendo consultabili esclusivamente dalle persone che siano state accettate dal titolare della pagina come “amici”; quanto alla visualizzazione dei contenuti pubblicati, Facebook consente poi all’utente di impostare diversi livelli di riservatezza: vi è quindi la possibilità di introdurre restrizioni alla pubblicità dei propri contenuti, che potrebbero essere visualizzati esclusivamente dalla ristretta cerchia di amici del titolare della pagina . Ad ogni modo, appare ormai consolidato l’orientamento giurisprudenziale secondo cui il social network rappresenta un “mezzo di pubblicità”, con la conseguenza che le condotte di diffamazione poste in essere per il tramite di tale strumento devono essere qualificate come aggravate ai sensi dell’art. 595, terzo comma, del codice penale. 

Sotto altro profilo, deve essere evidenziato che l’utilizzo dei social network ha accentuato la diffusione di manifestazioni di odio e di intolleranza. La struttura stessa del Web è infatti in grado di agevolare questo genere di condotte: i contenuti pubblicati dagli utenti possono raggiungere velocemente milioni di destinatari, anche attraverso lo strumento della “condivisione”, il quale consente, attraverso un semplice click, di far proprio il messaggio e di trasmetterlo ad altri utenti. A ciò consegue, peraltro, che il contenuto offensivo può sopravvivere a lungo nella rete a seguito della sua immissione, intensificando la potenzialità lesiva dei messaggi discriminatori diffusi. Al fine di contestualizzare il fenomeno dal punto di vista sociologico, deve essere evidenziato che nell’ambito delle nuove tecnologie sono mutati i meccanismi stessi della comunicazione di massa: il pubblico non è più il semplice destinatario del messaggio, ma è protagonista attivo nella creazione dei contenuti e nella loro diffusione. Tuttavia, questa tipologia di comunicazione non si accompagna ai classici meccanismi che guidano il dialogo offline; proprio per questo motivo, si assiste a un crescente ricorso al cosiddetto hate speech, definibile come “discorso finalizzato a promuovere odio nei confronti di certi individui o gruppi, impiegando epiteti che denotano disprezzo nei confronti di quel gruppo a causa della sua connotazione razziale, etnica, religiosa, culturale o di genere” . In particolare, il fenomeno è favorito dalla possibilità di interagire con altri utenti celandosi dietro l’anonimato, nonché dal “conflitto cognitivo-percettivo tra la privatezza della situazione fisica di partenza e la pubblicità potenziale del luogo virtuale di destinazione del messaggio” , che inibiscono l’operatività di quei meccanismi di self-restraint che, generalmente, impediscono ai singoli di esternare i propri pensieri con toni violenti e aggressivi. Un importante ruolo gioca anche la convinzione che l’anonimato impedisca, o comunque renda più difficoltoso, l’accertamento delle responsabilità, con la conseguente diminuzione del timore di incorrere in una sanzione. Infine, deve essere menzionata la mancanza di un contatto fisico diretto con la persona destinataria della manifestazione d’odio: la lontananza della vittima ne favorisce la de-umanizzazione e impedisce all’odiatore di percepire le conseguenze, in termini di sofferenza inflitta, delle proprie azioni . Sul piano normativo, il fenomeno è stato parzialmente intercettato attraverso l’introduzione, ad opera dell’art. 3, l. 13 ottobre 1975, n. 654, dei reati di diffusione di idee razziste, di incitamento alla discriminazione e alla violenza razzista, nonché di associazione finalizzata ad incitare all’odio o alla discriminazione. Tali disposizioni sono state in seguito modificate, dapprima con l’entrata in vigore del d.l. n. 122 del 1993 – convertito con modificazioni dalla L. 25 giugno 1993, n. 205 (cosiddetta Legge Mancino) – che ha riformulato le disposizioni previgenti e ha introdotto la circostanza aggravante, di carattere generale, della finalità di discriminazione o di odio; da ultimo, il dlgs. 1 marzo 2018, n. 21 ha provveduto a trasferire all’interno del codice penale le disposizioni fin qui citate, inserendole in una apposita sezione dedicata ai “Delitti contro l’eguaglianza” . La giurisprudenza di legittimità è stata chiamata ad occuparsi anche di questo ulteriore uso distorto dei social network: in particolare, nel caso sottoposto all’esame della Suprema Corte, all’imputato era stato ascritto il reato di diffamazione, aggravata ai sensi dell’art. 3, dl n. 122 del 1993, per aver pubblicato sulla propria bacheca Facebook un messaggio con il quale la persona offesa – di origine africana – veniva invitata a ritornare nella “giungla”. La difesa dell’imputato aveva evidenziato che l’espressione utilizzata non andava ricondotta ad una valutazione di inferiorità delle origini della vittima, quanto piuttosto ad una legittima censura dell’agire politico della stessa persona offesa, allora ministra dell’integrazione: i termini adoperati non avrebbero infatti avuto alcuna connotazione razzista, essendo equiparabili ad altre espressioni diffuse nel linguaggio comune – come, ad esempio, “torna tra i monti!” –, comunemente interpretate come riferibili a persone di cui si contestano le competenze e che si ritiene dovrebbero occuparsi di altro. La Suprema Corte ha tuttavia disatteso le prospettazioni difensive, specificando che la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso è configurabile non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una sola razza . In altri termini tale circostanza può dirsi configurabile per il solo fatto dell’impiego di modalità di commissione del reato consapevolmente fondate sul disprezzo razziale, vale a dire quando la condotta posta in essere si manifesta come consapevole esteriorizzazione, immediatamente percepibile, di un sentimento connotato dalla volontà di escludere condizioni di parità per ragioni fondate sulla appartenenza della vittima ad una etnia, razza, nazionalità o religione. Vale la pena, tuttavia, osservare che l’ambito applicativo dell’aggravante di cui all’art. 3, dl n. 122 del 1993 – oggi confluita, come si è accennato, nell’art. 604 ter cp – non può essere esteso a forme di discriminazione diverse da quelle espressamente considerate dalla norma, la quale fa appunto riferimento a etnia, nazionalità, razza e religione; non possono pertanto rientrarvi altre manifestazioni d’odio, pure frequenti sul Web, come quelle incentrate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere .

5. Il locus commissi delicti 

Come si è avuto modo di anticipare, una delle peculiarità del Web è l’aterritorialità; tale caratteristica ha impegnato gli interpreti con riferimento all’individuazione del locus commissi delicti del reato di diffamazione commesso tramite Internet. È stato efficacemente osservato, infatti, che “quel che è più peculiare in Internet è la circostanza che, con tale mezzo, l’informazione perde sia la caratteristica della materialità che della territorialità” . Al fine di meglio comprendere l’entità del problema, pare opportuno sinteticamente evidenziare il processo attraverso cui i contenuti vengono pubblicati sul Web e risultano, dunque, accessibili a terzi: un utente, connettendosi alla rete attraverso il proprio dispositivo informatico – identificabile grazie ad un indirizzo IP univoco –, è in grado di immettere un contenuto comunicativo in uno spazio web allocato presso un server (che può trovarsi in Italia o all’estero). L’immissione delle informazioni non comporta di per sé alcuna diffusione delle stesse: il server si limita infatti a memorizzare i dati inseriti e a metterli a disposizione dei singoli utenti, che vi possono accedere attingendo dal server attraverso i rispettivi terminali (pc, smartphone, tablet). Ciò comporta, naturalmente, che, pur essendo individuabile un preciso luogo di partenza delle informazioni (il server), il messaggio diffamatorio può essere percepito da un numero indeterminato di utenti collocati in luoghi diversi; le caratteristiche tecniche della trasmissione telematica incidono, dunque, sull’individuazione del luogo di consumazione del reato. La Suprema Corte, nell’affrontare un caso di diffamazione c.d. transnazionale, ha da tempo avuto modo di chiarire che il locus commissi delicti della diffamazione via Web coincide con il luogo in cui si è verificata la seconda percezione del messaggio denigratorio . I giudici di legittimità hanno infatti valorizzato la natura di reato di evento del delitto di diffamazione, evidenziando che esso si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l’espressione offensiva. 

Come si è visto, alla condotta consistente nell’“immissione in rete” del contenuto consegue la sua diffusione immediata nel Web, da cui discende ulteriormente la percezione della comunicazione denigratoria da parte di un numero indeterminato di utenti. Il messaggio offensivo può dirsi percepito nel momento in cui il secondo destinatario, connettendosi al server che ospita il contenuto, lo visualizzi; il locus commissi delicti va pertanto individuato nel luogo in cui è ubicato il dispositivo informatico che, connettendosi alla rete, ha consentito all’utente di visualizzare l’espressione lesiva . Alla luce di ciò, deve ritenersi competente il giudice del luogo in cui è stata percepita l’offesa, dovendosi dare applicazione all’art. 8, comma 1 cpp, che radica la competenza nel luogo di consumazione del reato. Più di recente, la Corte di Cassazione ha inoltre specificato che, laddove sia impossibile stabilire il luogo di consumazione del reato e sia stato invece individuato quello in cui il contenuto diffamatorio è stato caricato come dato informatico, per poi essere immesso in rete, la competenza territoriale va determinata ai sensi dell’art. 9, primo comma cpp, secondo cui rileva il luogo in cui è avvenuta una parte dell’azione. Neppure tale ultimo criterio è stato tuttavia giudicato risolutivo nel caso del giornale telematico: la Suprema Corte ha infatti osservato che in questa ultima ipotesi all’immissione delle informazioni sul sito web fa seguito, in tempi assai ravvicinati, il collegamento da parte di un numero indeterminato di lettori; in questo contesto, si è evidenziato che risultano di difficilissima, se non impossibile, applicazione criteri oggettivi, quali, ad esempio, quelli di prima pubblicazione, di immissione della notizia nella rete, di accesso degli utenti. Alla luce di ciò, si è ritenuto che il locus commissi delicti debba essere individuato facendo ricorso al criterio suppletivo fissato dal secondo comma dell’art. 9 cpp, ossia in base al luogo di domicilio dell’imputato.

26/08/2020