Antonella Fabiani

Grande JAC

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La riscoperta di alcune sue vignette per la polizia sono l’occasione per parlare di Jacovitti, uno dei geni del fumetto italiano

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atite, bottiglie, salami, vermi, lische di pesche, ossa che spuntano dal terreno, personaggi con gambe e braccia mozzate, seni giganteschi e nasi enormi: chi non ricorda le affollatissime “panoramiche” dai colori vivaci di uno dei più grandi fumettisti italiani, Benito Jacovitti, il creatore di Cocco Bill (il cowboy che amava la camomilla), che attraverso una carriera durata quasi sessant’anni (era nato a Termoli nel 1923) ha appassionato generazioni di lettori con il suo umorismo e la sua capacità di sperimentare la realtà attraverso il tratto della sua matita. A renderlo unico, oltre i grandi occhiali neri e il sigaro, la grande forza comica della sue vignette grazie a uno stile che gli esperti del settore hanno definito “surreale, grottesco e parodistico”, che ancora oggi piace ai lettori anche per ricchezza dei riferimenti ai diversi momenti del costume, della politica e delle mode che hanno attraversato la società italiana. 

L’occasione per ricordarlo sono alcune vignette realizzate dal grande fumettista per illustrare i consigli ai cittadini per difendersi dai malintenzionati. L’opuscolo a cura del Dipartimento della pubblica sicurezza (in particolare la Direzione centrale della polizia criminale) fu realizzato nel 1975. Le vignette sono state, messe a disposizione per la pubblicazione dalla figlia Silvia impegnata ormai da molti anni a far conoscere il lavoro di Jac (come era soprannominato) alle nuove generazioni e non solo attraverso iniziative e mostra legate al mondo del fumetto. Occasioni uniche per vecchi fan di rivedere le sue storie e i suoi personaggi, e per farlo scoprire a chi non lo ha mai conosciuto. «Mio padre non lo ricordo tanto come un genitore ma piuttosto come un fratello che mi faceva un sacco di scherzi. Ma è stato anche un papà pieno di affetto, che sapeva esprimere anche senza abbracci. Era nato a Termoli in una famiglia numerosa – racconta  – e già da bambino si costruiva con forbici e carta i personaggi con cui giocare. Aveva una fantasia enorme che ha mantenuto anche da adulto e che ha poi riversato nei suoi fumetti. 

La sua carriera è iniziata prestissimo, a sei anni ha cominciato a disegnare delle storie sui lastroni vicino al fiume nella sua città, e siccome era bravo la gente si fermava a guardarlo e gli lanciava qualche moneta che portava a casa perché c’era bisogno di soldi. Il nonno per guadagnare faceva due lavori, il ferroviere e il proiezionista nei cinema, una circostanza che permise a mio padre di vedere moltissimi film, tra cui molti western, i suoi preferiti che poi hanno ispirato molti dei suoi disegni e la creazione del suo personaggio più famoso, Cocco Bill».

Quando poi la famiglia si trasferisce a Firenze, il giovane Jacovitti, a 11 anni, comincia a frequentare la scuola d’arte. Poco prima della guerra, nel 1937, a soli 14 anni iniziò a disegnare per il Vittorioso, periodico a fumetti che era distribuito in tutta Italia, con cui collaborerà per trent’anni firmandosi Lisca di pesce a causa della sua magrezza, firma che mantenne anche in seguito. «Quando disegnava per i bambini mi usava come cavia – continua Silvia Jacovitti – ricordo quando mi fece vedere la fata turchina che stava disegnando per la sua versione del libro di Pinocchio: era enorme e con due poppe grandissime. Lui si accorse che ci ero rimasta molto male e senza dire nulla andò nel suo studio e ne fece un’altra più carina. Sono stati momenti bellissimi per me, ho dei ricordi indelebili di mio padre mentre disegnava, perché mia madre mi metteva sul seggiolone accanto a lui e io seguivo con attenzione la sua matita che si muoveva sul foglio». 

Jacovitti è stato un artista instancabile nel suo lavoro: «Stava sempre a casa, nel suo studio. Alle  7 del mattino faceva una piccola passeggiata per motivi di salute per poi lavorare dalle 8 fino alle 23, facendo delle pause solo per mangiare – racconta ancora – anche l’estate io e mia madre andavamo al mare, e lui rimaneva a casa a lavorare, perché disegnare era la sua passione». 

Riservato e solitario, in alcune interviste raccontava di non fare “vita mondana”, e che non amava la folla:  «Diceva sempre di no anche a Federico Fellini con cui era amico e che lo invitava spesso a uscire. Una volta però mi portò con sé sul set del film Casanova: fu una esperienza indimenticabile. Andammo al capannone 5 e mi ricordo mio padre e Fellini, che mi sembravano due figure enormi che parlavano tra di loro mentre io ero vicino a Donald Sutherland, l’attore protagonista che indossava una grande parrucca e dei tacchi alti in mezzo a una Venezia ricreata, avvolta nella nebbia e mi sembrò per la prima volta di essere entrata nel mondo di mio padre che si era materializzato, nel mondo di Jacovitti, un mondo bello». 

Quando sono diventata più grande spesso di pomeriggio uscivamo insieme e dopo una passeggiata andavamo a sederci in un bar: rimanevamo in silenzio mentre lui osservava con curiosità le persone che passavano, e che probabilmente diventavano fonte di ispirazione per molti personaggi delle sue storie. Amava osservare e studiare la realtà: il fatto che spesso, in alcuni periodi, non abbia condiviso certi eventi sociali o politici ha portato alcuni a definirlo un uomo di destra e altri un qualunquista, ma in realtà mio padre era una persona con una mente libera e lui stesso si definiva un anarchico».

Jacovitti fu anche il disegnatore (a partire dalla seconda edizione) fin dal 1950, per oltre trent’anni, di una serie di diari scolastici, che ebbero un grande successo (da cui ne seguirono molti altri stampati da altri editori): il Diario Vitt che realizzò con la stessa casa editrice del Vittorioso e fu stampato fino al 1980: «La collaborazione però si interruppe quando a mio padre fu proposto di illustrare il kamasutra: erano gli anni dei movimenti di liberazione sessuale e mio padre aveva il desiderio di cimentarsi in qualcosa di nuovo, ma l’ispirazione cattolica della casa editrice non poteva permettere che un suo collaboratore, per di più autore di un diario scolastico per i ragazzi, illustrasse un’ opera erotica, mio padre messo di fronte a una scelta preferì dedicarsi al nuovo progetto e così terminò la collaborazione con la casa editrice Ave e non fece più il Diario. Credo sia stato un sacrificio per lui anche perché oltre tutto significava la perdita di un guadagno sicuro. Lui comunque fece la sua versione del testo erotico indiano che fu pubblicato nel 1977 con il titolo Kamasultra, sui testi dello sceneggiatore e regista Marcello Marchesi». 

«Mio padre non ha mai avuto un personaggio preferito e si è sempre divertito a lavorare – continua Silvia – l’unica volta che l’ho visto un po’ insofferente è stato quando gli furono commissionate una serie di vignette umoristiche per illustrare un libro sulle malattie, poi pubblicato con il titolo Elogio della medicina: il fatto di doversi documentare su tutte le malattie tipo il diabete o i problemi cardiologici non gli piaceva molto. Ma solo quella volta perché in genere lavorava su qualsiasi argomento con grande impegno e piacere». 

«Era anche un grande appassionato di musica jazz – prosegue – si era comprato una batteria completa e, a volte, quando ascoltava i dischi preferiti azionava il charleston mentre continuava a disegnare. Aveva anche una tromba con cui faceva degli scherzi, divertendosi a suonarla dalla finestra di casa quando passavano delle signore».

Negli anni sono stati molti i giovani che lo hanno cercato per essere aiutati nel mestiere di disegnatore di fumetti. Alcuni andavano a trovarlo a casa con i genitori e lui era molto contento di questo perché anche lui, come diceva spesso, era rimasto un eterno adolescente. «Tra i tanti giovani che si sono rivolti a lui c’è stato anche Simone Cristicchi che prima di intraprendere la carriera di cantante voleva fare il fumettista. Mio padre lo seguì ma dopo un po’ di tempo gli disse che lo imitava troppo e che avrebbe dovuto trovare un suo stile, e Cristicchi capì che quella non era la sua strada».

A 23 anni dalla sua morte, Silvia Jacovitti è impegnata nell’opera di far conoscere anche alle nuove generazioni il lavoro del papà: «Poco prima che scoppiasse la pandemia per il coronavirus stavo preparando una mostra con le tavole di mio padre realizzate per il Vittorioso, speriamo di ripartire da lì. La curiosità dei lettori verso la sua opera è ancora forte, l’ultima iniziativa editoriale a cura della casa editrice Hachette è stata un grande successo, tutti i fascicoli sono andati esauriti tanto che abbiamo dovuto stamparne una seconda edizione. E anche quando sono esposte le sue tavole nelle mostre vedo che adulti e giovani escono con il sorriso sulle labbra».

Non resta che continuare a riscoprire il genio di Jacovitti, gustando le sue vignette! 

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UNICO E INCONFONDIBILE 
Confermo tutto quanto scritto nell’articolo: Jacovitti era davvero un uomo speciale e un artista unico. Io l’ho conosciuto nel 1977, quando avevo diciott’anni e collaboravo con una radio privata romana. Gli chiesi per telefono di poter fare un’intervista: era un protagonista della mia vita (fedele del diario Vitt, le sue storie le avevo lette con passione sul Corriere dei Piccoli) e lui mi diede appuntamento al Cafè de Paris a Via Veneto. Un “luogo da ricchi”, per me sconosciuto e affascinante. Mi sedetti su un tavolino all’esterno e lo vidi arrivare: sigaro in bocca e un rotolo di cartoni sotto il braccio. Erano i suoi originali e me li regalava dicendomi: magari ti piacciono. “Magari ti piacciono???”: ma vi rendete conto che uomo speciale? Io ero interessato a lui, ovviamente, ma anche lui era interessato a me. Voleva sapere che cosa pensavano i giovani, anche per capire meglio Silvia, sua figlia. Per questo mi disse che mentre lavorava teneva sempre accesa Radio Radicale e che su tante cose era perfino d’accordo. Ma lei non è nostalgico del fascismo? Sì, perché ero più giovane e potevo mangiare tutti i supplì che volevo. In quell’occasione si definì anarchico (come ha detto Silvia nell’intervista), ma anche “estremista di centro”. Ho avuto la possibilità di incontrarlo tante altre volte, anche a casa sua, dove mi sono interessato (moltissimo) al suo metodo di lavoro: speciale? Macché, unico. Non usava la matita. Andava sul foglio direttamente a china col pennino tracciando tante piccole linee per formare il contorno di personaggi e oggetti. Sugli originali si vede bene: qualche linea prende una strada sbagliata lui neanche la cancella, tanto sulla stampa quasi non si vede. E con quel trak trak trak del pennino, con quel movimento ondeggiante e ipnotico della mano sul foglio, lui si rifugiava in un altrove allontanandosi dai rumori del mondo e anche dai terribili ricordi della guerra. Entrava in un universo magico, divertentissimo e grottesco, pieno di forme rotonde e di nasi a palloncino. Unico, suo, inconfondibile: il mondo di Jac.

Luca Raffaelli

 

07/07/2020