Annalisa Bucchieri

Un poliziotto a Pechino

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Dalla capitale cinese la testimonianza di Guido Lupo nei giorni della drammatica diffusione del virus Covid-19

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Nomen omen, dicevano i latini. Un nome, un destino. Sembra calzare a pennello a Guido Lupo, sostituto commissario coordinatore: un  lupo solitario non per natura ma per proteggere la comunità alla quale ha votato il suo lavoro di poliziotto. In forza allo Servizio cooperazione internazionale di polizia, Lupo ha garantito, nel mezzo della crisi Covid-19, l’attivita dell’Ufficio dell’Esperto per la sicurezza dell’Ambasciata d’Italia a Pechino. Pur non essendo responsabile ma solo coadiuvatore di quell’ufficio Lupo, rimasto l’unico italiano delle forze dell’ordine, non ha abbandonato la sua postazione pur se ciò significava non riabbracciare la famiglia per chi sa quanti mesi. Poliziamoderna ha voluto raccogliere la sua testimonianza e farsi raccontare i primi momenti dell’epidemia, il suo drammatico deflagrare ma anche la graduale ripresa della vita oggi. 

Quale percorso professionale l’ha portata in Cina? 
È un Paese stato che mi ha sempre attratto, tanto che nel 2014 iniziai a studiare il mandarino, sfruttando le opportunità offerte dall’istituto Confucio dell’Università “La Sapienza” di Roma. Un impegno  notevole che però che mi ha permesso di essere scelto per andare nella Repubblica popolare cinese in supporto dell’Esperto per la sicurezza della Direzione centrale per i servizi antidroga. Così, a distanza di pochi mesi dal precedente impiego come responsabile della prima unità interforze inviata a Pechino e Shanghai per i pattugliamenti congiunti, da ottobre 2017 ho intrapreso questa affascinante sfida professionale.

Ci spiega meglio la natura del suo incarico?
Agevolare lo scambio informativo tra le forze di polizia italiane e cinesi, svolgere il monitoraggio dei fenomeni di interesse per la cooperazione di polizia, creare e incrementare la collaborazione per la formazione. Oltre a curare i rapporti con gli altri ufficiali di collegamento. Una buona padronanza della lingua e la conoscenza di tradizioni e usanze mi ha permesso di crearmi, in breve tempo, una fitta rete relazionale anche al di fuori del mondo del law enforcement, basata su stima e fiducia. 

Come fu percepita a Pechino la notizia di una misteriosa malattia a Wuhan?
Inizialmente non aveva preoccupato nessuno, mesi prima vi erano stati, anche a Pechino, alcuni casi di peste provenienti dalla Mongolia Interna, non di rado si erano verificati fenomeni di peste suina o influenza aviaria, sempre contenuti in pochi giorni. La vita scorreva normalmente, non venivano adottate limitazioni nei trasporti e, di conseguenza, come ogni anno la città si iniziava a svuotare a causa del ritorno nelle rispettive città di origine dei circa 10 milioni di lavoratori non pechinesi impiegati nella capitale. La progressiva chiusura degli esercizi commerciali e dei ristoranti, la limitazione della frequenza della fittissima rete di trasporti di superficie e metropolitani, la riduzione dei servizi pubblici, l’interruzione delle lezioni di ogni ordine e grado, la chiusura delle fabbriche e il conseguente miglioramento della qualità dell’aria, tutto rappresentava il consueto cliché che si ripeteva annualmente da sempre. 

Poi però le notizie provenienti dalla provincia dell’Hubei iniziarono ad essere più allarmanti.
Esatto. Quotidianamente il numero dei contagi aumentava e nulla trapelava sull’origine di questa strano “virus di Wuhan”. Le immagini reperite tramite i social network non sottoposti a controllo preventivo (twitter) e quelli locali (weibo) mostravano filmati di persone ammassate nei pronto soccorso degli ospedali e di passanti che perdevano i sensi cadendo in terra senza apparente motivo. E lì giacevano esamini in attesa dell’ambulanza, perché nessuno prestava aiuto per timore del contagio.

Quindi non circolava un’informazione chiara?
Proprio così. Improvvisamente, a partire dalle 10 del 23 gennaio nella città di Wuhan e successivamente nell’intera provincia, venivano sospese le corse di autobus urbani ed extraurbani, metropolitane, traghetti e trasporti a lunga percorrenza; ai residenti veniva ordinato, senza spiegarne le ragioni, di non lasciare la città, tutte le vie di comunicazione, compresi l’aeroporto interazionale e la stazione ferroviaria, venivano chiuse e presidiate dalle forze di Polizia e da reparti della Polizia Armata del Popolo. La popolazione veniva obbligata a restare in casa, la fornitura di prodotti di prima necessità sarebbe stata assicurata dalle Autorità per mezzo dei Comitati di Quartiere o volontari (la violazione della quarantena è ancora oggi punibile con pene detentive severissime fino alla pena capitale nel caso in cui dalla trasgressione derivi la diffusione dell’epidemia, ndr).

Come visse quei giorni?
L’intera popolazione di Pechino, pur con alcune eccezioni immediatamente represse, si adeguò alle direttive impartite; una capitale di 20 milioni di abitanti si trasformò così in una città apparentemente priva di abitanti. Durante il tragitto dalla mia abitazione all’Ambasciata mi capitava di non incontrare nessuno o di essere l’unico passeggero di un intero vagone della metropolitana.  Molti vicoli e strade minori, che abitualmente percorrevo, erano stati interdette al passaggio, i pedoni venivano convogliati verso tragitti preordinati al fine di agevolare le operazioni di vigilanza di polizia e volontari. Improvvisamente mi rendevo conto di non poter più liberamente entrare e uscire dal comprensorio di residenza, occorreva un lasciapassare che sarebbe stato rilasciato dall’amministrazione condominiale esclusivamente ai residenti che, comunque, sarebbero stati monitorati in entrata e uscita e segnalati alla autorità in caso di segnali di contagio. Ai corrieri (i cinesi acquistano da tempo qualsiasi cosa online) venne intimato di fermarsi davanti ai cancello principale, l’unico non interdetto all’accesso e costantemente vigilato, e lasciare in terra la merce. Ancora oggi è così. I rari passanti avevano tutti le mascherine e io, che personalmente ho sempre utilizzato le maschere a causa dell’inquinamento atmosferico, ora la dovevo portare in Ambasciata all’interno degli uffici e durante le riunioni. In questo scenario apocalittico, in Ambasciata sguardi attenti si incrociavano per scorgere possibili segnali della malattia, un colpo di tosse, uno starnuto, tutto era motivo di allarme, se il virus avesse colpito anche uno solo noi sarebbe avrebbe comportato la chiusura della Sede Diplomatica, e questo non potevamo consentirlo, obiettivo prioritario era continuare a prestare assistenza ai nostri connazionali sparsi in tutta la Cina e organizzare la complessa evacuazione di quelli residenti a Wuhan.

Alla luce dell’aggravarsi della situazione, alcuni ufficiali di collegamento di polizia facevano ritorno al proprio Paese. Perché lei non è rientrato?
Non mi sembrava rispettoso nei confronti dei colleghi cinesi che stavano lottando per difendere il loro popolo, che è poi il compito demandato dall’ordinamento ad ogni poliziotto italiano. Non avrei avuto il coraggio di rivederli al termine dell’emergenza, vanificando quei sentimenti di rispetto e amicizia così importanti per ognuno di noi, e tale scelta è stata condivisa sia dalla mia famiglia che dell’Amministrazione.Ed è stata apprezzata dal Dipartimento cooperazione internazionale del ministero della Pubblica sicurezza cinese che mi ha inviato una lettera di ringraziamento con parole di amicizia e di affetto, evento inusuale data l’estrema formalità del popolo cinese. In quei difficili giorni ho potuto apprezzare il significato della parola “famiglia” applicato alla Polizia di Stato. Il vice direttore generale della pubblica sicurezza Vittorio Rizzi, il direttore del Servizio cooperazione internazionale di polizia Giuseppe Spina e i componenti dei rispettivi uffici di staff, dopo aver ottenuto rassicurazioni sul mio stato di salute hanno disposto l’invio immediato, nel numero da me richiesto, di maschere e guanti monouso divenuti nel frattempo introvabili in quanto tutto il materiale sanitario, anche quello in transito postale, veniva requisito e inviato a Wuhan dove la situazione era diventata ormai drammatica. Colleghi e amici della Polizia di Stato mi hanno riempito di messaggi di sostegno e incoraggiamento.

Immagino che l’atavica difficoltà dei collegamenti Internet dalla Cina hanno reso questa prova ancora più dura?
Sì, soprattutto per i contatti  non facili con la mia famiglia. Le limitazioni sull’utilizzo dei social occidentali quali Google. Facebook, Whatsapp Twitter (parzialmente aggirabili solo con l’utilizzo di VPN), rendevano ancor più frustrante il trascorrere del tempo in attesa di qualche notizia di speranza.

A un certo punto è iniziata la discesa dei contagi...
Sono state fondamentali le durissime restrizioni imposte dalle Autorità alla provincia dell’Hubei, leggermente mitigate nelle altre provincie. Ma anche il vasto impiego di strumenti tecnologici, quali la geo- localizzazione, la rilevazione da remoto della temperatura e il riconoscimento facciale, l’elaborazione dei dati relativi agli spostamenti, l’utilizzo di droni per il controllo aereo delle aree di contenimento. Orai i contagi risultano per lo più riscontrati in cittadini di ritorno dall’estero, i cosiddetti “contagi di ritorno” e gli esercizi commerciali stanno riaprendo le loro attività.

Ora che la situazione lì sembra volgere al meglio, a chi va il suo pensiero?
A mia moglie e ai miei figli, ai quali non posso fornire alcun supporto oltre ai miei quotidiani incoraggiamenti, ma anche verso la mia famiglia “più grande”, quella dell’Amministrazione. A loro e ai colleghi della Polizia di Stato che leggono la nostra rivista voglio dire coraggio, ce la faremo, questa è la missione che abbiamo liberamente scelto e che ci darà la forza di non farci sopraffare dalle difficoltà e contribuire a riportare la serenità nelle nostre comunità.

09/04/2020