Carmelo Nicola Alioto

Pubbliche manifestazioni tra safety e security (pt1)

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Principi costituzionali e comunitari

ins 12-19

1. Le pubbliche manifestazioni: ratio legis e funzione

La ratio delle pubbliche manifestazioni non si rintraccia soltanto in una specifica norma, ma dalla lettura congiunta di diverse disposizioni sia nazionali sia comunitarie. Bisogna necessariamente partire dal fondamento di tale diritto, la cui garanzia costituzionale si scorge nell’art. 17 della Costituzione, per comprenderne la reale portata applicativa. In tale norma si identifica la natura fondante delle pubbliche manifestazioni. Sarebbe opportuno, però, prendere in prestito, mutuandola nel caso che ci occupa, una definizione utilizzata dalla migliore dottrina del passato. Questa opzione interpretativa riteneva la libertà di riunione quale presupposto per “il concorso di una pluralità di soggetti, accomunati da un unico fine, e non si esaurisce nella difesa di una sfera di autonomia individuale, ma è diretto alla realizzazioni di quelle comuni finalità”. In termini più chiari, si tratta di una libertà dell’individuo a riunirsi per esplicare interessi di diverso carattere quali ad esempio: religioso, politico, sportivo, di scienza, beneficienza ecc. La massima espansione di tale libertà, costituzionalmente garantita, estende la sfera di tutela a tutte le forme di aggregazione tra persone in uno stesso luogo e per un certo tempo “mediante le quali si realizzino forme di interazione tra le persone convenute”. Il predetto principio individua, però, anche un limite generale alla disciplina delle riunioni (esse devono svolgersi “pacificamente e senza armi”) a prescindere dal luogo in cui esse si svolgano, mentre prevede un regime particolare per le sole riunioni in luogo pubblico, assoggettate al solo obbligo del preavviso al questore ed all’eventualità del divieto preventivo per comprovati motivi di ordine pubblico, di moralità o sanità pubblica, ex art. 18, comma 4, tulps; infine, vi sono le manifestazioni di pubblico spettacolo, che sono per converso soggette al regime autorizzatorio. Ad ogni modo anche se il regime autorizzatorio sia di competenza dell’ente locale, l’autorità di pubblica sicurezza adotta – e, ove la commissione comunale o provinciale ritenga un surplus valutativo informerà la prefettura la quale sottoporrà all’attenzione del Comito provinciale dell’ordine e della sicurezza pubblica,in base agli elementi a sua disposizione –, i provvedimenti ritenuti necessari al caso concreto per la tutela dell’ordine pubblico. Si tratta di una giusta comparazione di tutti gli interessi compresenti. In questo binario, ossia tra interessi pubblici e interessi privati, occorre porre la lente d’ingrandimento per individuare l’azione amministrativa più efficace soprattutto in un ambito dai molteplici casi concreti, e, giocoforza, dai confini non sempre univoci. È orami opinione comune che la necessità di bilanciamento tra libertà e sicurezza rappresenta, da tempo, una delle questioni dottrinali più dibattute da parte della scienza giuridica costituzionalistica. L’interrogativo della migliore dottrina è stato formulato nei termini seguenti: «il soddisfacimento del bene “sicurezza” inteso in senso soggettivo può comprimere la tutela dei beni specifici costituzionalmente protetti, subordinando il bilanciamento tra i medesimi all’obiettivo di rafforzare la percezione soggettiva della sicurezza stessa?». Il mai sopito dibattito nasce dall’esigenza di coniugare i beni specifici costituzionalmente protetti, da un parte, con le garanzie di sicurezza degli stessi, dall’altra. Si parla in tal caso di “interesse pubblico” a cui l’azione amministrativa, nel rispetto della legge, è sempre preposta. Volgendo lo sguardo in ambito europeo nell’art. 11 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo emerge il necessario contemperamento di tutti gli interessi in gioco. Infatti in esso si trova racchiusa questa esigenza libertà-sicurezza nella parte in cui stabilisce “[e] ognuno ha diritto alla libertà di riunione pacifica e alla libertà di associazione [...]. Non si applicano restrizioni all’esercizio di tali diritti se non quelli previsti dalla legge e necessari in una società democratica nell’interesse della sicurezza nazionale o della pubblica sicurezza, per la prevenzione di disordini o crimini, per la protezione della salute o morale o per la tutela dei diritti e delle libertà altrui [...]”. Appare utile, inoltre, evidenziare una sentenza su un caso sottoposto alla Cedu, le cui norme pattizie di derivazione internazionalistica hanno natura di “norme interposte” tra Costituzione e legge ordinaria, ove a prevalere è l’esigenza dell’ordine pubblico europeo. 

Nello specifico viene affermato in dottrina come la Corte europea dei diritti dell’uomo può quindi decidere se, in uno dei 47 Paesi che hanno ratificato la Convenzione, lo scioglimento di un partito politico, o la confisca temporanea di determinati diritti politici, soddisfi le prove prescritte dalla Convenzione (cioè che l’agire ha una base nel diritto nazionale, che persegue uno o più degli scopi legittimi previsti dall’articolo 11 della Convenzione, che è necessario in una società democratica per soddisfare un bisogno sociale urgente e che è proporzionato agli scopi perseguiti). Tale valutazione è stata effettuata, ad esempio, nel caso Refah Partisi (The Welfare Party) verso la Turchia. Il Refah Party, fondato nel 1983, divenne, dopo le elezioni generali del 1995, il più grande partito politico in Turchia. Una sentenza della Corte costituzionale del 1998 aveva sciolto Refah sulla base del fatto che era diventato un “centro di attività contrarie al principio di laicità”. La Corte Costituzionale nazionale aveva dichiarato che “ la democrazia è l’antitesi della sharia”. La Corte di Strasburgo, sulla base di un attento esame della decisione del tribunale nazionale alla luce della Convenzione, è giunta alla conclusione che non vi è stata alcuna violazione dell’articolo 11 della Convenzione, in quanto lo scioglimento di Refah può essere considerato ”necessario” in una società democratica ai sensi dell’articolo 11. La Grande Camera della Corte di Strasburgo ha sostenuto che la democrazia costituisce un elemento fondamentale “dell’ordine pubblico europeo” e dei diritti garantiti dall’articolo 3 del Protocollo n. 1 che sono cruciali per stabilire e mantenere le basi di un democrazia significativa governata dallo stato di diritto. 

Appare ormai questione condivisa dalla giurisprudenza nazionale come anche la libertà di religione, garantita dall’art. 19 Cost., incontri dei limiti, stabiliti dalla legislazione in vista della tutela di altre esigenze, tra cui quelle della sicurezza, dell’ordine pubblico e della pacifica convivenza. Nello stesso senso si muove anche l’art. 9 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo che, al secondo comma, stabilisce che la libertà di manifestare la propria religione o il proprio credo può essere oggetto di quelle sole restrizioni che, stabilite per legge, costituiscono misure necessarie in una società democratica, per la protezione dell’ordine pubblico, della salute o della morale o per la protezione dei diritti e della libertà altrui. Questa giurisprudenza ci insegna come in ambito pubbliche manifestazioni vi siano tanti interessi compresenti e tutti degni di protezione e soltanto qualora vi siano esigenze di ordine e sicurezza pubblica tali da rendere tali diritti non sicuri, l’autorità di pubblica sicurezza potrà vietare la manifestazion

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03/12/2019