Cristiano Morabito

Passo dopo passo

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Dalla legge che nel 1959 sancì la nascita della polizia femminile fino ai giorni nostri: un cammino lungo 60 anni

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«Quando iniziai, le donne in polizia erano come mosche bianche, poi però ho conquistato la fiducia di tutti ma non mi sono mai messa su un piedistallo. Man mano che acquisivo ruoli di comando, con i colleghi ho condiviso i momenti belli e quelli più difficili, prendendomi le mie responsabilità. Mai mi è capitato che un ordine venisse disatteso solo perché arrivasse da una donna».

Sono le parole pronunciate nel 2014 dall’allora dirigente generale Maria Rosaria Maiorino, oggi prefetto di Pordenone, prima donna a dirigere una Squadra mobile, prima vice questore vicario e prima donna questore, nonché prima donna preposta alla difesa del Papa, come dirigente dell’Ispettorato Vaticano.

Ma facciamo un passo indietro, anzi un grande balzo fino ad arrivare a 60 anni fa, a quel 1959 che, in un certo senso, segnò un momento storico per le donne in polizia.

In quell’anno Fidel Castro prendeva il potere a Cuba, gli accordi di Camp David tra Usa e Urss avrebbero portato alla “distensione” tra i due blocchi, a New York veniva inaugurato il Guggenheim Museum, in Italia a Salvatore Quasimodo veniva assegnato il premio Nobel per la letteratura e l’8 maggio per la prima volta veniva festeggiata la Festa della mamma. Il Belpaese si apprestava, dopo un lungo e doloroso periodo di recessione economica dovuta alle conseguenze del Secondo conflitto mondiale, a vivere il “boom” degli anni Sessanta che avrebbe rilanciato, su scala planetaria, l’Italia. 

Un periodo, dunque, particolarmente florido per il nostro Paese che eccelleva in molti campi, dalla tecnologia all’arte all’industria, ma che portava dentro di sé i segni di una Nazione ancora un passo indietro rispetto alle sue “concorrenti” mondiali. Erano però anche gli anni in cui la questione d’onore era considerata a tutti gli effetti un’attenuante nei casi di uxoricidio e una condanna per stupro poteva essere evitata sposando la vittima, e le donne non poteva accedere ad alcune professioni o entrare in magistratura.

Fu probabilmente la tanto contestata “legge Merlin” a segnare un punto di svolta importante per la condizione della donna in Italia perché, sancendo di fatto la chiusura delle case di tolleranza, nel suo dettato prevedeva anche la costituzione di un corpo speciale femminile che sostituisse gli uomini “nelle funzioni inerenti ai servizi del buon costume e della prevenzione della delinquenza minorile e della prostituzione”. La legge, presentata nella sua prima stesura nel 1948, non ebbe un iter particolarmente agevole ma, alla fine, quasi dieci anni dopo e con le dovute modifiche, venne definitivamente approvata sancendo di fatto, insieme alla legge 7 dicembre 1959 n. 1083 che ne delineava i contorni e ne regolava l’istituzione, la nascita del Corpo di polizia femminile. Una vera e propria rivoluzione per quel tempo, anche se circa un decennio prima, e precisamente nel 1947, le prime donne a indossare una divisa di polizia in Italia furono le appartenenti alla Polizia civile, istituita dall’amministrazione militare anglo-americana nel Territorio libero di Trieste.

Una storia fatta di “piccoli passi” e di piccole, ma significative e continue conquiste, a volte anche a suon di carte bollate e ricorsi al Consiglio di Stato, quella delle donne in polizia e sempre, fin dall’inizio, mirata a ottenere una effettiva parità con i colleghi di sesso maschile, non solo nella retribuzione e nelle opportunità di carriera, ma anche e soprattutto nei compiti da svolgere.

Ma bisogna aspettare il 1961 per poter vedere le prime donne con addosso la divisa, le prime ispettrici e assistenti (i due ruoli in cui era diviso il Corpo, assimilabili oggi a dirigenti e funzionari, le prime, e agli altri ruoli esecutivi, le seconde) che iniziavano la loro carriera, a differenza dei “colleghi” uomini del Corpo delle guardie di ps, andavano a seguire il proprio corso di formazione dopo aver superato un concorso pubblico (proprio come gli impiegati pubblici) e non in base a un arruolamento, tipico dei corpi militari.

E proprio la differenza tra militari e civili fu il primo scoglio contro cui, quelle che devono a tutti gli effetti essere considerate delle vere e proprie pioniere dei nostri tempi, si sono trovate a doversi scontrare: a iniziare dalla legge che qualificava ispettrici e assistenti come “impiegati civili dello Stato”, ma dove sia l’età minima per l’ingresso, sia quella massima per la pensione erano determinate diversamente rispetto ad altro personale civile; la retribuzione e, come già accennato, le mansioni e la progressione in carriera (il massimo grado delle ispettrici era assimilabile a quello di un attuale primo dirigente di polizia) erano profondamente diverse da quelle dei colleghi uomini; in ultimo, pur essendo considerate, appunto, impiegati civili dello Stato, il non poter essere per lungo tempo assimilate ai funzionari di pubblica sicurezza che, pur essendo anch’essi considerati “civili”, erano la struttura dirigente del Corpo delle guardie di pubblica sicurezza, che all’epoca ancora vestiva le stellette sul bavero della divisa.

Ma piano piano, passo dopo passo, nei vari uffici di polizia del Paese, la presenza femminile divenne sempre più importante e, soprattutto, si rivelò fondamentale nella gestione dei compiti a lei affidati.

Quale soddisfazione per una donna di allora poter vedere le prime poliziotte negli uffici e sulle strade, pari agli uomini in un lavoro da sempre giudicato come prettamente maschile. Quelle “pioniere” hanno portato ovunque un messaggio forte e preciso, che non era così comune nell’Italia di allora e forse non lo è ancora del tutto in quella di oggi. Le poliziotte si fecero da subito valere nelle squadre del buoncostume, nel contrasto ai reati contro la moralità pubblica e nella tutela dei bambini e del lavoro femminile e minorile. E forse non è stato un accidente della storia che quelle prime donne poliziotto siano state impiegate nello smantellamento delle case chiuse dopo l’entrata in vigore della legge Merlin. L’Italia lanciava alle sue cittadine un messaggio molto chiaro, così come ha detto il vice presidente della Camera dei deputati, Mara Carfagna, lo scorso 3 giugno in occasione della celebrazione del 60° anniversario avvenuta a Montecitorio, alla presenza del capo della Polizia, Franco Gabrielli: «Nessuna di voi è un corpo da sfruttare, nessuno ha diritto di lucrare sulla vostra povertà e sulla vostra disgrazia, tantomeno lo Stato. Gli uomini non hanno il diritto di comprarvi; nessuno può farvi perdere la dignità e la Repubblica vi riconosce pari dignità e protezione da ogni tipo di sfruttamento».

Ma la vera chiave di volta che fece assurgere alle cronache le poliziotte fu in occasione del terremoto che, il 14 gennaio del 1968, devastò il Belice e, durante il quale le donne della polizia femminile, vennero impiegate per mesi nel soccorso alle popolazioni colpite, gestendo le tendopoli in cui erano stati sistemati i tantissimi sfollati e tutti gli interventi che erano ritenuti necessari. Un impegno che valse alla polizia femminile la medaglia di bronzo al merito civile conferita dal presidente della Repubblica e che ancora oggi campeggia appuntata sulla Bandiera della Polizia di Stato. Ma fu dopo l’impegno in occasione del grave sisma di Tuscania nel ’71 che l’impiego della polizia femminile venne di fatto istituzionalizzato in caso di pubbliche calamità, attraverso la formazione di una lista di volontarie che vennero poi inviate nelle zone colpite dai terremoti di Ancona (1972), del Friuli (1976) e in Irpinia nel 1980.  Arrivarono gli Anni ’70, profondamente diversi dal decennio che li aveva preceduti, in cui le tensioni sociali sfociavano in violenze di piazza prima e, nella seconda parte della decade, nel fenomeno del terrorismo. E anche qui, passo dopo passo, le donne-poliziotto iniziarono a far sentire la propria presenza e ad attestarsi come elementi importanti in uno scenario, quello della pubblica sicurezza, che necessariamente doveva mutare ed evolversi per far fronte alle emergenze dell’epoca. Fu così che, nel 1978, quando già si era iniziato a parlare di una riforma della ps, contestualmente all’istituzione presso il ministero dell’Interno dell’Ufficio centrale per le investigazioni generali e le operazioni speciali (l’Ucigos), furono chiamate a farne parte (con le stesse mansioni operative dei colleghi maschi) anche due assistenti.

Ora che, per certi versi, un altro grande tabù era stato superato, restava ancora un nodo importante da sciogliere, ossia quello di una completa parità, sia retributiva che di carriera e mansioni, e arrivò, definitivamente, con la legge 121 del 1981 che sanciva la smilitarizzazione del Corpo delle guardie di ps facendolo confluire, insieme alla polizia femminile, nella Polizia di Stato. Non deve essere stato semplice “rompere le barriere” per quelle donne che, per prime, hanno indossato una divisa, in tutto e per tutto, identica a quella dei nuovi “colleghi”, quegli uomini che, spesso e volentieri, non riuscivano a vederle come delle vere e proprie colleghe. No, non è stato sicuramente facile rompere la diffidenza di un mondo abituato, fino ad allora, a essere l’unico a indossare i pantaloni. Una equiparazione con il mondo maschile che, purtroppo, è avvenuta anche nella tragicità degli eventi il 19 luglio del 1992, quando a Palermo, in via D’Amelio, le bombe della Mafia spezzarono le vite del giudice Paolo Borsellino e della sua scorta, nella quale era impiegata una agente di soli 24 anni: Emanuela Loi.  Ma, sempre, passo dopo passo, quasi impercettibilmente ma costantemente, le donne sono riuscite a conquistare gran parte di quello spazio che era loro diritto occupare, dimostrando di essere in tutto uguali agli uomini, tanto che a oggi il 35% delle posizioni dirigenziali della Polizia di Stato sono ricoperte da donne. I numeri totali, però sembrano ancora essere bassi: ad esempio nel 1997 (primo dato disponibile) su un totale di 106.099 appartenenti, solo 11.835 (ossia l’11%) erano donne, mentre al 1° gennaio 2019 su 104.096, 18.527 (il 18%) appartengono alla compagine femminile. A prima occhiata una crescita del 7% in 12 anni potrebbe sembrare poca cosa, ma osservando solamente le percentuali, salta all’attenzione la crescita costante, con qualche periodo di stabilità, ma mai di flessione. Dunque, una presenza sempre più “presente” nella Polizia di Stato e una continua evoluzione che ha portato a cadere anche l’ultimo baluardo: la presenza delle donne nei Reparti mobili dal 2018, non solo con mansioni logistiche, ma anche all’interno delle varie squadre impegnate in ordine pubblico. Una vera e propria conquista che, fino a qualche anno fa, non sarebbe stata possibile anche a causa di un semplice avverbio che “preferibilmente” prevedeva l’impiego degli uomini nei Reparti mobili e che, di fatto, sbarrava la strada alle donne. Passo dopo passo, dunque, la presenza femminile è sempre stata più “importante” all’interno della Polizia di Stato, sia quantitativamente che, soprattutto, qualitativamente e che piano piano è arrivata quasi ai vertici dell’Istituzione, occupando per due volte la poltrona del vice capo della Polizia. L’ultimo “piccolo passo”? Quello che l’attuale capo della Polizia, Franco Gabrielli, ha auspicato per il futuro, prevedendo, e augurando, una donna al vertice della Polizia di Stato.

03/12/2019