Vincenzo Tancredi*

Artù: un miracolo

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La sera del 24 agosto ci ritrovammo ancora una volta nel cortile polveroso del podere località Coppa Sentinella, circondati da alberi da frutta, galline accoccolate nelle vicinanze del pozzo, un cielo stellato e rallegrati da un venticello fresco proveniente dal mare Adriatico che arrecava sollievo dalla calura. Discorsi semplici e pittoreschi della narrazione famigliare e popolare locale, dove ti trovavi a faccia a faccia con fatti nudi e crudi. Tutto cambia, nulla cambia… nel Gargano.  

Vincenzo era solito raccontare delle bellezze del Tavoliere della Puglia, una pianura anticamente sommersa dalle acque del mare, talmente ampia che lo sguardo ci si perde, delimitate a ovest dai Monti Dauni , ad est dal Gargano e dal Mare Adriatico, a nord dal fiume Fortore e a sud dal fiume Ofanto e da canali che durante la stagione autunnale e primaverile erano soggetti ad allagamenti, al contrario, durante la bella soffrivano di una forte siccità.

Barattavo i suoi racconti e la sua ospitalità con poche cose: pacchetti di sigarette, birre e aranciate, alcune divise vetuste grigio-verdi per la campagna, giornali e diverse numeri di Poliziamoderna letti da me, mesi o anni addietro, per attingere notizie dall’Italia e dal mondo, farsi compagnia per le poche ore di riposo e in ultimo accendere il fuoco del camino. La verità, come lui spesso ripeteva “in campagna tutto torna utile, non si  -jettà- nulla”.  

Poca televisione, solo quando la parabola funzionava, cellulare che prendeva solo in alcuni punti elevati della località, cinque fedelissimi cani per compagnia, la famiglia numerosa lasciata momentaneamente in paese a tredici chilometri di distanza. 

Qualche Avemaria o Padre Nostro.   

Parte della proprietà, i terreni, l’aveva messa insieme lui, “raccontava”, con le proprie mani e con la propria testa, coll’affaticarsi da mattina a sera, andando in giro sotto il sole rovente e sotto la pioggia battente, logorando  stivali e trattori, perché aveva figli, nipoti e parenti da mantenere… e in parte ereditata da nonni materni, o pagata a fratelli e sorelle.    

 E verso sera, mentre il sole tramontava, sulla collina più lontana, rosso come una palla di fuoco ardente, e i campi lasciati di culmo “rostoccia da bruciare”, le cicale ultimavano il loro canto e gli uccelli prendevano il  volo verso nord, sentii nuovamente l’abbaiare dei miei cani “Gemma, Gina, Saverio, Nerone, Sebastiano”, provenire dal vallone.

Non era il primo giorno, forse il secondo o il terzo, da quando un potente acquazzone, composto da nubi nere, tuoni e fulmini  chiari zigrinati lunghi come saette, serpenti tortuosi bianchi, grandine,  da mettere paura non solo gli animali ma anche gli uomini, si era abbattuto cosi forte su Coppa Sentinella. 

Di tanta forza della natura ne avevano fatto le spese altro creato, la vigna con i suoi acini di uva caduti, gli alberi di pesche e susine marcate, asparagi sradicati, posti loro malgrado all’entrata delle coltivazioni della costa vicino al canalone, che per una volta si senti sicuramente un fiume importante, visto quanto acqua aveva raccolto in poche ore, mangiando argini e  tracimando.

«A ogne mmale ce stà lu remedie»  «A ogni male c’è il rimedio» gli venne da dire a mio cugino, visto i danni. 

Persino il ponte in pietra della strada secondaria, che collega Ripalta a San Paolo Civitate, creato dai Romani per il passaggio delle legioni, che si trovava al confine dei terreni di sua proprietà aveva accumulato detriti di ogni sorta, tanta la furia dell’acqua incalzata dal vento vorticoso, “U Favugn”, proveniente da sud sud ovest. 

Arbusti spezzati di olive, rami secchi di frutteti, monconi di legno, foglie larghe di tabacco, fango, secchi vecchi, sacchetti e buste di plastica, facevano da tappo alle arcate e solo un piccolo rigagnolo d’acqua riusciva a oltrepassare.  

«Se Jieva nu pont di Jioi, lu maletemp lu foss sdurrupat» «Se era un ponte di oggi, il brutto tempo l’avrebbe sradicato». Questo era il pensiero di Vincenzo. 

E forse aveva ragione, mentre lo assecondavo con una smorfia e alcune flessioni della testa. Dopo avermi scodinzolato, morso affettuosamente le scarpe, volontariamente urtato e abbaiato, tutti e cinque i cani si allontanavano uno dietro l’altro, in fila indiana in direzione del fondo del vallone, precisamente al confine dei terreni, vicino al  ponte in pietra, e lì incominciavano  “la passione”  ululata, udita secondo me sino al lago di Lesina. Il loro abbaiare non era di tipo timoroso o aggressivo, ma era un latrare, un ululare  rabbioso,  doloroso è intenso. Abituati alla mia presenza serale, ultimata la mietitura, non capivo la loro assenza, visto il bene che mi volevano. Il loro rientro al podere, da mansueti probabilmente inquieti, avveniva solo alle prime luci dell’alba.

Il ripetersi delle loro azioni, mi preoccupava e i segnali che mi inviavano richiedevano senza dubbio un chiarimento in merito. Dubbioso di quanto avveniva decisi di seguirli il giorno seguente, rientrato dalla mietitura del grano.       

Superato un uliveto folto come un bosco e alcuni ettari di vigneti, cammina cammina, notavo che Gemma, Saverio, Gina, Nerone, Sebastiano, si fermavano appena non udivano i miei passi, e dopo essersi rincuorati della mia presenza,  voltatisi nuovamente, riprendevano il loro  passo veloce all’indirizzo del canalone e del pontile romano.  

Arrivarono prima loro naturalmente e incominciarono fortemente ad abbaiare e a latrare all’indirizzo dell’accumulo di detriti dalla natura e dall’uomo irresponsabile, una volta appoggiati con le zampe o saliti sul muretto spesso quattro palmi.

 Alcuni minuti dopo arrivai anch’io sul posto, stanco, e ansimante. 

Gli occhi caddero dove tutti i miei fedelissimi volevano che cadessero.

Fu una visione raccapricciante e allo stesso modo emozionante. Ora capisco che il loro ululare della sere prima, era in realtà un richiamo per me. La commozione mi tolse per alcuni istanti il respiro, cinque cagnolini navigavano, annaspavano  tra il fango, la poltiglia ferma, il legname, e l’immondizia di plastica. 

Era evidente alcuni di loro stanchi, deboli, affaticati dal tempo, tentavano di aggrapparsi con le zampine a qualcosa di solido che gli potesse dare sicurezza e gli permettesse di salvarsi;  nel mentre abbaiavano con voce stridula,  uggiolavano piano piano la loro disperazione, tutti insieme come il pianto continuo di bambini appena nati. 

Ancora una volta dovevo difendermi dai tanti immotivati sensi di colpa che mi attanagliavano in quel momento per non essermi recato lì qualche giorno prima.

Ma ora non avevo più tempo, come mi “abbaiavano” i mie cinque amici pelosi. Muoviti, fai qualcosa, continuavano a  dirmi anche con gli occhi lucidi, le orecchie drizzate e le code rette.  

Per mia fortuna i magnifici ingegneri romani avevano previsto anche la discesa sicura dal ponte attraverso alcune pietre messe lateralmente a gradinata,  una sottostante all’altra, e conficcate nelle arcate semicircolari e nei contrafforti. Dopo abbondanti soffi liberatori e respiri profondi, scavalcato il muretto divisorio mi trovavo a scendere in direzione dei cagnolini, tra la paura di scivolare finire a mia volta nella fanghiglia, tra i legnami, pattume e detriti di ogni sorta e un puzzo penetrante. 

Quando afferrai il primo ero al settimo cielo, lo, ma mi ricadde nell’acqua melmosa per quanto bagnato e infangato, capii che dovevo afferralo di nuovo velocemente e tirarlo a me, cosa che feci questa volta con successo. 

Non era facile, con una mano mi tenevo al ponte e con l’altra, tra mille difficoltà, con  un piede di appoggio fisso e l’altro traballante, uno ad uno riuscii a tirare fuori tutti e cinque i cagnolini, che durante il loro arrivo sul selciato venivano accuditi e leccati dai loro stessi simili. Cinque mucchietti di peli malodoranti, cinque fagottini freddi e sporchi, che poco prima navigavano in una pattumiera grigia, dieci bulbi oculari  infangati e sudici che si aprivano a fatica, mi ritrovai tra le mani.   

Il ritorno al podere, fu veloce, tra zanzare fastidiose e affamate… maledette zanzare, salti di gioia e il zigzagare felice di tutti i quadrupedi con tanto di code ondeggianti, mentre le “cinque creature” avevano preso  velocemente posto nelle cinque  tasche  larghe della logora divisa grigio verde, delle sei di cui era provvista. 

La serata piena di appagamento per i miei occhi vigili, all’interno del casolare circondato dai miei fedelissimi, vicino al camino, si stava dimostrando ideale per sperare in un prodigio alle porte. Pochi attimi dopo l’avvio di ulteriori nuovi strofinamenti sulle pareti intrecciati del salix vicinalis, pulito il loro corpicino, si alzarono sei zampette posteriori, per sfruttare le nuove angolazioni da esplorare. Annusavano l’aria, il cesto in vimini e le mie dita, facendo muovere i loro brevi baffetti, conquistando cosi le carezze che non volevano evitare. Alle prime riuscii ad aggiungerne una seconda, con mio stupore, cosa che feci anche agli altri due che si lasciarono andare in un sonno profondo, uno vicino all’altro in un angolo della cesta di “Mosè”, al caldo di una vecchia “manta” coperta. 

Colto da una sensazione improvvisa di amore verso i cinque sfortunati mi fermai ancora un po’ ad osservarli mentre alcuni leccavano di gusto il latte dalla ciotolina, per poi lasciarli li tra loro, consapevole di essere stato al centro di quello che credevo un incredibile miracolo, seppur di piccole dimensioni dalle sembianze canine. 

Mi addormentai pensando che erano tanti i particolari che non quadravano principalmente come fossero finiti nel letto del canalone, forse lo sapevo ma non volevo credere della tanta crudeltà da parte degli uomini…

Gli animali hanno delle regole in natura che osservano, onorano, hanno testa e  cuore, che solo noi essere umani con la nostra presunta intelligenza non riusciamo più ad avere e rispettare. 

Il giorno seguente alle prime luci dell’alba, da buon cristiano, consegnai a madre terra e a San Rocco i due corpicini con la testa piegata, che avvolsi in un telo di iuta.Una preghiera, sotto i cipressi piegati dal vento Maestrale, mi uscì velocemente dalle labbra per poi  far ritorno al podere insieme ai miei “amati” che non mi lasciarono mai da solo sin dall’inizio della mia triste scoperta.

 Giorno dopo giorno, i tre fratelli, ripresero peso, forze e coraggio grazie al latte e all’affetto dei propri simili, per contemplare con loro lunghe dormite a momenti di giochi canini, fatti di teneri morsi, lunghe corse e grosse ammucchiate finali. 

Passarono anche i mesi, Laika e Rudy, oramai grandi e pelosi, con mantelli sublimi, vennero accolti tra le braccia benevole di modesti se non umili agricoltori, proprietari di terreni confinanti ai miei, per compagnia e la guardia delle loro fattorie, mentre Artù rimase con me. Di solito combinava guai come gli altri cani. Amava la compagnia e preferiva riposare vicino al camino oppure all’aperto sotto qualche albero, era il terrore delle capre, dei conigli, delle galline, dei tacchini, oche e di tutti gli altri pennuti del pollaio, mentre con i gatti riusciva ad andare d’accordo sino a quando non era il momento di mangiare.

Persino i piccoli serpenti, i lenti ricci, le calde lucertole, i neri scarafaggi, gli suscitavano la sua curiosità,  da quadrupede attento.  

Negli anni Artù divenne il capo branco, era colui che controllava tutte le  risorse. Testa muscolosa a forma di cono ottuso, occhi grandi e rotondi marroni,  era di colore grigio focato nero, di corporatura grossa rettilinea e ferma, tanto che da solo non riuscivo a prenderlo in braccio, pelo spesso su tutto il corpo, orecchie diritte grandi e triangolari , coda lunga e alta. Pieno di temperamento, rapido nelle sue reazioni, recettivo ai miei comandi, era intrepido e coraggioso, di una fedeltà eccezionale è diffidente con chi non conosceva.  

Sicuramente era figlio, di uno dei tanti  cani “bastardi”  e di una lupa avventuriera degli Appennini.  La natura l’aveva reso forte e invincibile, tanto da essere temuto dagli  altri cani di Coppa Sentinella, che incontravamo  andando per la campagna. 

La sua presenza era la mia ombra nei campi, la mia sicurezza nell’affrontare le calamità della natura e i delinquenti…ladri maledetti senza arte e ne parte.

Mi voleva bene, perché lui guardava non solo la mano che gli dava da mangiare,  ma perché sentiva battere anche il cuore di chi gli stava vicino.           

I grandi zamponi di Artù pestavano la terra dura della sera. 

Col muso spostava gli attrezzi da lavoro che incontrava sul suo cammino nel cortile polveroso del podere, la strada la conosceva fin dal giorno del suo arrivo,  percorreva i terreni che portavano al ponte romano, nelle sere di luna calante, seguito da tutti i suoi simili. Era li che prendeva le grandi decisioni, era lì che ululava al mondo intero i suoi fratelli morti.

Un'ombra buia del suo cuore.

 

 

*Ispettore dell’Upgsp della questura di Torino, lavora da anni nella sezione “Fasce Deboli”. Per mettere in guardia gli anziani dalle truffe ha scritto due libri di grande successo come  “Io non abbocco” e “In bocca al lupo”

24/10/2019