Alessandro Maurizi*

Il Commissario Castigliego

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Dottoressa Bucchieri, grazie per essere venuta nel mio ufficio disse il commissario Castigliego tendendo la mano.

«Ma che succede? Al telefono aveva una voce strana» rispose la donna.

Il commissario indicò la sedia ad Annalisa Bucchieri e si avvicinò pensieroso alla finestra. «La prego, si sieda» disse, «le vorrei parlare di una cosa e ho pensato che fosse la persona giusta».

«Mi dica, l’ascolto».

«Lei è il direttore di Poliziamoderna, mi piacerebbe che scrivesse e pubblicasse sul mensile quanto le sto per raccontare».

«Non so se sarà possibile, intanto inizi a parlare.»

«Sa dottoressa, mio padre Bernardo» proseguì Castigliego stando in piedi, «mi insegnava a stare in silenzio, ed era solito ripetermi: “Meno parli e meno ti devi pentire di quello che hai detto. Quindi sta zitto! Sta zitto!”È così che s’impara a fare da sé, e a tenersi tutto dentro.»

«Capisco commissario».

«Però questa volta è diverso».

«E allora provi a raccontare. Cosa le è successo» disse la Bucchieri accavallando le gambe. Aveva lunghi capelli lisci sfumati con il castano ramato e un sorriso che le illuminava il volto. Per il ruolo istituzionale, era solita vestire in tailleur, anche se prediligeva indossare abiti più comodi, ma sempre ricercati.

«E il suo com’è?» domandò poi Castigliego.

«Cosa?».

«Suo padre, com’è?».

«Il papà che ogni figlia vorrebbe… ma non c’è più…» rispose con un luccichio negli occhi.

«Mi spiace…»

Lei scosse la testa, Castigliego le si avvicinò e si mise seduto di fronte, poi si mise a tamburellare con le dita sul tavolo, mentre lei lo fissava, in attesa. 

«Nel nostro lavoro capitano tante storie» proseguì Castigliego, «ma questa è diversa. Ci sono una serie di reati che non è più possibile perseguire. Per questo vorrei che la scrivesse. È per dare giustizia ai fatti, affinché tutto non vada perduto».

«L’ascolto».

«Lo sapeva che per il sale si può morire?» domandò continuando a tamburellare le dita.

«Non la comprendo».

«Mi scusi ma non sono abituato a raccontare storie» sorrise Manuel, quel tanto da fargli accendere gli occhi verdi.

«Provi».

A Roma erano le otto di sera, lunedì tre febbraio. In giro neanche un’anima. Un’acqua gelida da settimane inzuppava la città e la stradina che correva da piazza De’ Renzi a via della Scala, era ridotta a un piccolo fiume. Una ventina di metri più avanti, una donna camminava facendo avanti e indietro sotto la pioggia. Dondolava la testa e fissava il cielo con la pioggia che cadeva sul viso. 

Il commissario Castigliego la intravide con la coda dell’occhio mentre guidava la Z4 senza meta tra le strade di Roma. Scese dall’auto e si avvicinò cercando un riparo sotto le sporgenze dei tetti. La donna aveva una pesante camicia da notte di flanella con piccoli fiori blu, un cappotto pesante e ai piedi delle ciabatte senza forma. Colava acqua dappertutto. 

«Signora, ha bisogno di aiuto?» domandò Castigliego. 

Lei alzò lo sguardo. Vuoto o come uno sguardo che un vuoto fissa davanti a sé.

«No…» disse solo, continuando a camminare avanti e indietro. 

«Signora…» disse il commissario toccandole un braccio. Lei ebbe un sussultò. «Signora, che succede?».

«Quelle due, non mi fanno dormire… Non posso stare a casa mia. Tu le puoi mandare via?».

«Chi è che le dà fastidio, signora?».

«Quelle due! Quelle due! Quelle due!» La donna cominciò a urlare. 

«Si calmi…». Un lampo attraversò il cielo sopra Trastevere. Dentro quell’attimo di luce minacciosa, al commissario sembrò di vedere qualcosa di dorato a terra, incastrato tra i sampietrini neri. Fu un secondo, poi un tuono fortissimo fece sussultare violentemente la donna anziana. 

«Dove abita, signora?». 

Girò lentamente la testa, con lo sguardo indicò il portone dietro le sue spalle.

«Abita qui?».

«Sì, abito qui. Ho sempre abitato qui». 

«C’è qualcuno in casa?».

«Nessuno, nessuno… Io non ho nessuno».

«Perché non entriamo, signora? è tutta bagnata».

«Ma quelle due non mi fanno dormire!» la donna ricominciò a urlare.

«Chi sono quelle due?».

«Ah, lo so io chi sono…».

Il commissario cercò dentro la pioggia di ritrovare quel lampo dorato che aveva visto accanto ai suoi piedi, ma non lo vide. 

«Venga, l’accompagno. Non abbia paura. Ci parlo io con quelle due».

«Davvero?».

«Tranquilla. Come si chiama, signora?».

«Mi chiamo Reginella… però tutti mi chiamavano Nella…»

«E il suo cognone?».

«Carità. Io sono Reginella Carità… Ero bella quando ero giovane…»

«È bello il suo cognome» provò a incoraggiare il commissario. 

«È bello, ma è cattivo. Ma tu chi sei?».

«Sono il commissario Castigliego».

«Un poliziotto?».

«Sì, signora».

La donna abitava al primo piano. Due rampe di scale ripide, i gradini consumati. Lei si appoggiò al commissario Castigliego per salirli. Era leggera, contro il suo giaccone impermeabile, il commissario sentiva le ossa della donna che lo sfioravano. E a ogni gradino, sembrava emettere un faticoso sospiro, fino alla piccola porta. La donna tirò fuori dalla tasca del cappotto una chiave. Aprì. Le luci erano tutte accese. C’era una stanza con una piccola cucina in un angolo, il tavolo seppellito sotto vecchi giornali. Il lavandino pieno di piatti sporchi. Una poltrona coperta da un telo marrone e un vecchio televisore. Odore di chiuso. Odore di muffa. Il commissario alzò gli occhi verso il soffitto. Larghe macchie di umidità. 

«Ecco, signora, si sieda». 

La donna sospirò, si lasciò cadere sulla sedia. 

«Se ne sono andate quelle due… le devi trovare e portarle via. Glielo devi dire: “Lasciate in pace Reginella” glielo dici, vero, glielo dici?».

«Glielo dico, stia tranquilla. Adesso resti qui al caldo, domani passo a trovarla…» il commissario si avviò verso la porta.

«Aspetta!».

Castigliego si fermò. Guardò la donna. 

«Che c’è, signora?».

«Va a vedere pure di là, in camera da letto. Magari si sono nascoste lì dentro!»

Castigliego sospirò e si diresse verso una stanza proprio di fronte alla porta d’ingresso. Entrò. Anche lì dentro le luci erano tutte accese: il lampadario come l’abatjour carico di polvere era vicino al letto a una piazza nell’angolo in fondo. L’immagine di un Cristo con il cuore con una goccia di sangue che scivolava lungo il petto e splendente di raggi come un sole, era attaccato su una parete. 

«Guarda sotto al letto!» sentì urlare Castigliego dall’altra stanza. Il poliziotto si avvicinò. Coperte ammucchiate alla rinfusa. Odore di sudore. Odore di sporco. Con la mano, distrattamente, sfiorò il cuscino. Aveva una strana forma. Ebbe una strana sensazione. Lo toccò con più forza. Lo sentì pesantissimo. Lo afferrò con tutte e due le mani. Era come se fosse pieno di sabbia di sassolini minuscoli. 

«Ma che cazzo…». 

Lo mise giù. Si sfregò le mani sui jeans, come a voler cancellare la sgradevole sensazione di aver toccato qualcosa di molto sporco. Sospirò. Tornò nell’altra stanza. 

«Tutto a posto, signora. Ma il cuscino…»

La donna scattò in piedi e ricominciò a urlare: «Il cuscino è mio! E’ mio! Adesso vai via. Forza!» poi si lasciò cadere di nuovo sulla sedia e abbassò lo sguardo. 

«Certo, signora, certo. Vado, magari passo domani.»

Lei non disse una parola. 

Il commissario preferì aspettare un attimo, si avvicinò alla finestra. Sembrava avere smesso di piovere, alcuni gabbiani volavano e gridavano. Non gli piacevano i gabbiani e quel loro urlo quasi umano. Tornò dalla donna, poi decise di andare.

«Arrivederci signora».

Lei non rispose.

Discese le scale ma non appena uscì dal portone un gatto gli passò correndo tra le gambe. Per poco non lo fece cadere, mentre un altro lampo attraversò il cielo sopra Trastevere. E in quell’attimo di luce, il commissario distinse meglio il dorato che aveva visto a terra. Era incastrato tra i sampietrini neri, targhette di ottone, non più di dieci centimetri per lato.

Su una c’era scritto: “Qui abitava Gioia Bachi nata nel 1895 arrestata l’08/01/1944 deportata ad Auschwitz, assassinata il 03/02/1944”. 

Sull’altra: “Qui abitava Colombina Azzaria nata nel 1920 arrestata l’08/01/1944 deportata ad Auschwitz, assassinata il 03/02/1944”. 

Il commissario restò perplesso. Suonò al citofono.

«Chi è?».

«Sono sempre io, signora».

«Il poliziotto? Cosa vuoi?».

«Parlarle un attimo». 

Salì le scale, Reginella lo aspettava sulla porta, la donna si era cambiata gli abiti bagnati e aveva indossato vestiti persino di una certa eleganza. I capelli erano ancora bagnati, ma sulla bocca spiccava un filo di rossetto vermiglio. 

«Ti aspettavo».

«Mi aspettava?» domandò perplesso Castigliego.

«Sei un poliziotto, no?».

«Sì, gliel’ho detto».

«Alla fine mi avete trovata…».

Castigliego rimase in silenzio. Gettò un’occhiata nella stanza che aveva un altro ordine, come se Reginella Carità, nella sua breve assenza, non avesse fatto altro che pulire. 

«Le posso chiedere una cosa, signora?».

Un lampo di sospetto passò nello sguardo della donna con un sorriso tirato, faticoso. 

«Dimmi» mormorò.

«Quel suo cuscino, in camera... Quando l’ho preso in mano… Mi può spiegare…»

Fu allora che accadde qualcosa di incredibile. In un secondo il commissario vide la faccia della donna mutarsi in maschera, gli occhi sbarrati, la bocca cominciò a tremare, le mani strette intorno al collo come se stesse soffocando. Un filo di bava prese a colare dalla bocca. 

«Mi avete scoperto, eh? Mi avete scoperto! Settant’anni, ci avete messo! E adesso, adesso che mi fate?».

«Signora, che succede?».

«Lo sapevo, lo sapevo che un giorno sareste arrivati! Me lo aveva detto, me lo aveva urlato… Qui, qui, vieni che ti faccio vedere!» Spalancò la porta, indicò la scala che precipitava verso il basso: «Laggiù, stava: la pagheraiiiiii, Reginellaaaaaa, la pagheraiiiiiii! Così mi disse… L’ho pagata, non mi hanno più fatto dormire, lei e sua figlia… Maledette!» 

A ogni sospiro, sembrava che la donna dovesse crollare a terra. Il commissario si avvicinò per sostenerla, lei lo allontanò con una spinta. «Maledette loro! Maledetta Reginella!»

Il commissario non sapeva cosa fare, lei lo guardò con occhi sbarrati, rientrò dentro, si lasciò cadere sulla poltrona. 

«E adesso mi portate dove avete portato loro? Io lo so che avete fatto, a Gioia e Colombina». 

Castigliego rivide quei nomi incisi nel metallo. 

«I tedeschi e i fascisti le portarono via… Le buttarono giù dalle scale! Via! Come un sacco di stracci vecchi. Via! Via!».«I tedeschi e i fascisti non ci sono più. Adesso stia tranquilla, non corre pericolo».

La vecchia lo fissò con stupore. Di colpo, cominciò a ridere. Una risata sempre più forte, acuta. Quasi un urlo. 

 «Tu non ha capito, vero? Si vede dalla faccia» rise, si passò la mano sulla bocca, il rossetto le sporcò il viso. 

«Io non sono la vittima. Io sono l’assassina! Reginella Carità è l’assassina!»

Il commissario non riusciva a staccare gli occhi dalla donna, dalla sottile striscia di rossetto che dalla bocca adesso finiva sotto il mento, sulla gola. 

«Siediti poliziotto, voglio confessare…basta!».

E Reginella raccontò di una bella ragazza di sedici anni, durante la guerra. Le notti buie, il rumore degli aerei, un padre via a combattere una guerra del Duce, una madre alla ricerca disperata di cibo tutto il giorno. E raccontò di come quella ragazza dai capelli biondi e dagli occhi verdi consegnò la vita di due esseri innocenti.

«Mio padre era partito per la guerra, in Russia. Moriva di freddo, ci scrisse una volta. Poi non scrisse più: forse è morto davvero di freddo. Mamma era sempre in giro, tornava con del pane nero che si sbriciolava come segatura. Io passavo molte ore a casa delle due vicine: Gioia e sua figlia Colombina. Che nomi, eh? Fatti apposta per i sensi si colpa» la donna cercò un fazzoletto per pulirsi il naso. Non lo trovò. Lasciò che colasse liberamente. «Gioia aveva fatto la ricamatrice tutta la vita, sua figlia era una ritardata mentale, Colombina aveva quasi ventiquattro anni, ma era come una bambina di cinque. Mi guardava e rideva e batteva le mani. Il padre era morto prima che scoppiasse la guerra» con la lingua raccolse il muco che le allagava la bocca. Il commissario credette di vedere un ghigno sul volto della anziana. «Sa come passava le sue giornate, Gioia? A ricamare il mio corredo. Diceva: questa povera figlia mia non si sposerà mai, ma tu Reginella dovrai avere il corredo più bello di Roma» la donna si alzò, un po’ barcollante si avvicinò a un armadio a muro, l’aprì, cominciò a lanciare verso il centro della stanza lenzuola, federe, tovaglie, fazzoletti, camicie da notte. Un lenzuolo andò a finire sulla spalla di Castigliego, scivolò sulle gambe. E lì, in un intreccio delicato di foglie di edera e uccelli, vide la lettera “R” e la lettera “C”, ricamate con un filo rosso. 

La donna tornò a sedersi. Si soffiò il naso su una federa bianca. 

«Mi innamorai, oh sì… Fu così che tutto successe. Era la primavera del 1943. Lui aveva trent’anni, il doppio dei miei. Era un fascista. Un fascista che dopo l’8 settembre andava in giro con i tedeschi. Ma era bello, Rodolfo. Un figlio di puttana, però bello. Se mia madre l’avesse saputo, mi avrebbe ammazzato. Un peccato che non l’abbia saputo, così mi è toccato vivere. Un giorno venne qui a casa, mia madre come al solito era a fare la fila da qualche parte. Lui lo sapeva. Non disse niente. Non si spogliò neppure. Mi fece fare cose che non immaginavo esistessero. Mi disse che mi amava, poi mi disse di pulire prima che mia madre tornasse. Lo accompagnai alla porta e proprio mentre stavamo uscendo arrivò Gioia con la figlia che fece il solito stupidissimo applauso, ma la madre mi guardò con occhi strani, forse si capiva qualcosa dalla mia faccia. Restò muta, tirò via Colombina, entrò subito in casa. Chi sono, mi chiese Rodolfo. Le vicine, gli dissi. Se ne andò. Io corsi a pulire il sangue».

Il commissario era a disagio. Faticava a seguire la storia, a immaginarla dentro quell’altra più tragica che cominciava a intravedere sullo sfondo. Cercò le parole. Non ne trovò di migliori.

«Come è diventata un’assassina?».

Lo donna lo fissò per alcuni secondi. Annuì vigorosamente. 

«Sì, dice bene: assassina. Continuammo a vederci, io e Rodolfo. Continuammo a far l’amore ogni volta. Mi portò a casa sua, una volta dentro un camion, un’altra in caserma. Mi piaceva, sa? Mica ero la verginella della prima volta, mi piaceva scopare con quel bel fascista, per strada le donne grandi si giravano a guardarlo». 

«Senta…».

«Adesso devi ascoltarmi! Voglio confessare! Passò l’estate. A Roma tutti avevano paura, ma io no, col mio bel fascista a fianco. Tutti mi rispettavano. Poi venne il 16 ottobre.» 

Castigliego cercò di ricordare che cosa fosse successo il 16 ottobre. Non gli venne in mente niente. 

«Si presero tutti gli ebrei del ghetto, anche quelli qui a Trastevere. Quelli di tutta Roma. Tutti! Pure i ragazzini. Pure i vecchi. Pure le donne. Tutti! Arrivarono con i camion e con i cani. Li portarono tutti in Germania. Kaput! Kaput! Capisce, adesso? Capisce?».

Adesso sì, adesso capiva. Si sentì sprofondare. 

«E lei, che c’entra?».

«Niente, fino a quel momento. Solo una sera sentii mia madre mormorare: povera Gioia, povera Colombina, speriamo bene. Allora capii. Mi ero accorta che le due non uscivano quasi più di casa. Non ero più stata a casa loro, dal giorno che Gioia mi aveva incontrato sulle scale con Rodolfo, lei non mi aveva più invitata. E se mi incontrava quasi non mi guardava, stava sempre con gli occhi bassi. Tutti a Roma parlavano sottovoce degli ebrei. Un giorno, intorno a Natale, ero a casa di Rodolfo. Fumavamo, dopo aver fatto l’amore. Mi sembrava pensieroso: “Sei stanco?” gli chiesi. Rise: “Un po’, con tutti questi ebrei che abbiamo preso”. “Ma li avete presi tutti?”. “Beh, qualcuno la farà franca” finì la sigaretta, cominciò a rivestirsi, poi mi domandò di colpo: “Tu ne conosci per caso qualcuno?” Non me l’aspettavo, la domanda. O forse sì. Mi sembrò un’altra prova d’amore. E poi ripensavo agli occhi bassi di Gioia. Come se mi accusasse. Come se sapesse. Credevo avesse schifo di me, mica paura. Prima di pensarci, mi trovai abbracciata a Rodolfo: «Sai, quelle due mie vicine». 

Mi disse che c’erano dei soldi per chi denunciava gli ebrei. Cinquemila lire per un uomo, duemila lire per una donna, mille lire per un bambino, mi pare. E il sale, oh il sale… Mi ricordai che mia madre diceva sempre che il sale non si trovava. Mi misi a fare i conti: allora quattromila lire: “Piano” disse Rodolfo, “la figlia è scema, mica può valere duemila lire! Ma giuro che avrai almeno dieci chili di sale” poi mi baciò. Vennero all’alba, l’8 gennaio. Avevano i cani lupi e i mitra e cominciarono a urlare forte giù al portone. Mia madre si mise a piangere, mi strinse a sé. Li sentii salire sulle scale, battere il calcio dei mitra contro la porta di Gioia e Colombina. Corsi sul pianerottolo. Le stavano portando via. Colombina come mi vide mi sorrise, un nazista la prese per i capelli e la buttò giù per le scale. Lei non disse una parola. Continuava a sorridere. Gioia era ancora sul pianerottolo. Mi guardò, cercò di allungare la mano verso di me, per afferrarmi. Presero anche lei per i capelli, e giù! Giù! E allora che mentre cadeva mi urlò: la pagheraiiiiii, maledettaaaaaa Reginellaaaaaaa, la pagheraiiiiii!, mentre un cane gli saltava addosso. Corsi da mia madre: “Che hai fatto? Che hai fatto?” mi domandò. Poi non disse più una parola per tutto il giorno. E per tutti i giorni successivi. Poi Rodolfo mi portò dieci chili di sale che nascosi nel cuscino e da allora è rimasto sempre con me. Non l’ho mai usato, se non per dormirci sopra tutte le notti».

«E sua madre? E quel Rodolfo?» il commissario si sentiva in affanno.

«Mia madre morì poco tempo dopo, forse di crepacuore. Forse di paura. Molti morivano di paura, qui a Roma, Rodolfo andò a Salò, disse che andava a combattere con il Duce. Non l’ho più visto, chissà forse l’avranno fucilato». 

La donna parlava con fatica. Il muco ormai le imbrattava tutto il mento, si mischiava al  rossetto. 

«Ora sono stanca, sono settant’anni di stanchezza…».

«Signora…».

Silenzio. La donna si alzò e attraversò la stanza. Entrò in  camera da letto. Alcuni istanti di silenzio. 

«Signora…signora…»

Silenzio. 

«Signora…signora…».

Dopo averla chiamata più volte Castigliego si alzò per raggiungerla e la vide. Provò orrore. Reginella Carità era stesa sul letto, la testa sul cuscino di sale e con un coltello si era aperta la gola, da sinistra verso destra, lo squarcio si univa quasi perfettamente alla sbavatura di rossetto, che così sembrava salire fino alla bocca. Una ragnatela rossa, un ricamo, come quelli di Gioia. Il petto era allagato di sangue, che colava fino al lato del letto. Il commissario restò immobile. Le gambe gli tremavano. Tornò nell’altra stanza, si sedette su una sedia. Restò immobile per un po’ con le gambe che gli tremavano tra il rumore della pioggia. Non si rese conto del tempo che trascorreva, della notte oramai calata cupa sulla città, mentre il cuore cercava di riprendere un ritmo normale.

All’improvviso decise. Tornò in camera. Sfilò il cuscino di sale da sotto la testa di Reginella. Un filo di sangue, con un lieve gorgoglio, uscì dallo squarcio. Castigliego faticò a non vomitare. Caricò il cuscino sulla spalla, prese un coltello dalla cucina e scese in strada. Ancora diluvio. Deserto assoluto. Via della Pelliccia. Santa Maria in Trastevere. Via della Lungaretta. Il Lungotevere. L’Isola Tiberina. 

Il commissario avanzava con il suo sacco di sale sulle spalle. Ogni tanto sentiva il respiro fermarsi, il cuore accelerare. Dopo settimane di pioggia, il Tevere era salito lungo le scale che conducevano alle sue rive. Sospeso su quella massa nera d’acqua, Castigliego ebbe come una sorta di vertigine. Cominciò a scendere. I piedi nell’acqua. Le caviglie. I polpacci. Si fermò. Calò dalle spalle il cuscino di sale, lo abbracciò come se fosse un bambino, cercò con la mano destra il coltello dentro la tasca del giaccone e lo alzò sopra la testa. Un lampo illuminò la lama calata con violenza. Aprì uno squarcio da un lato all’altro. E il sale lì conservato per settant’anni, il prezzo di Gioia e Colombina, cominciò a precipitare dentro l’acqua. Poi il commissario affidò la federa vuota al fiume, che in un attimo la inghiottì. Così il coltello. Non fece caso all’ombra della sinagoga che s’innalzava dall’altro lato del fiume. 

 

«Ecco dottoressa, questa è la storia».

La direttrice di Poliziamoderna lo fissava con il luccichio negli occhi divenuto più intenso. 

«Il sale nel Tevere, perché?».

«Un fiume che scorre lava via, purifica. È un po’ come quando piove, in mezzo alle gocce le lacrime si confondono».

«Ho bisogno di un po’ d’aria» disse la Bucchieri con un filo di voce.  

«Se non scriverà questa storia, rimarranno solo due targhe d’ottone tra i sampietrini, nient’altro».

Lei non rispose, si alzò dalla sedia e si diresse verso la finestra. La spalancò. Su Roma stava per scoppiare un temporale, i fulmini si notavano oltre i palazzi e i tuoni sembravano ravvicinarsi. Si sporse un po’ dal davanzale, volse lo sguardo al cielo e inspirò come se volesse inalare tutta l’aria della città. Poi chiuse gli occhi nell’istante in cui le prime gocce le bagnarono il viso.

 

*Ispettore in servizio presso la questura di Viterbo, ha pubblicato quattro romanzi e numerosi racconti.  Direttore di Ombre Festival dal 2016, è attualmente in libreria con il suo ultimo libro “Castigliego e i tormenti del  papa” 

24/10/2019