Antonio Fusco*

Poliziamoderna

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l medico era in ritardo quel giorno. Le visite domiciliari gli avevano portato via gran parte della mattinata. Febbraio, si sa, è sempre stato il periodo del picco dell’influenza. Ci aveva fatto l’abitudine ormai, il dottor Schiavelli. Aveva più di sessant’anni, trenta dei quali passati a fare il medico di base. Conosceva tutti i suoi pazienti come un prete conosce i fedeli della parrocchia. Con ognuno di essi aveva una battuta da scambiare e un discorso lasciato aperto da riannodare. 

Nessuna delle persone in attesa si era spazientita. Gli volevano tutti bene a quel medico che li visitava chiamandoli per nome e guardandoli in faccia. Nel senso che non era come molti di quelli che esercitano la professione ai giorni nostri, che, quando entri, hanno già la testa calata sul blocchetto delle ricette, pronti a prescriverti esami diagnostici o medicinali dopo averti fatto un paio di domande sui sintomi del tuo malanno. Lui ti ascoltava con attenzione, ti faceva sedere sul lettino a torso nudo e ti esaminava dalla testa ai piedi.

Quando entrò nella sala d’aspetto dell’ambulatorio, che dava direttamente sulla strada, il suo rapido cenno di saluto fu accompagnato da uno sbuffo di freddo che presto si dissolse nel calore della stanza.

Avevo tredici anni all’epoca. Crescevo a vista d’occhio e mia madre era preoccupata perché mi vedeva troppo pallido e secondo lei mangiavo poco. Cosa molto soggettiva che con una donna del sud è meglio non discutere.

«Hai bisogno di una cura ricostituente. Domani vieni con me dal dottore», mi aveva detto la sera prima, con un tono che non ammetteva repliche. D’altronde non avevo motivo di discutere, visto che la visita significava niente scuola. Qualche cucchiaio di sciroppo per una giornata libera mi sembrava uno scambio vantaggioso, così l’assecondai con finta convinzione.

C’erano tre persone prima di noi, bisognava aspettare ancora un po’. 

Mi annoiavo. Eh sì, quella era un’epoca in cui la noia esisteva ancora. Non si era ancora estinta, come oggi che con lo smartphone puoi riempire il tempo vuoto ovunque ti trovi. Allora non avevi scampo, non ti restava altro che fartene una ragione, aspettare e, nel frattempo, pensare, immaginare, creare, leggere qualsiasi cosa, anche il manifesto al muro che ti spiegava la corretta igiene orale. Insomma, far funzionare il cervello al posto di un paio di dita della mano. Altri tempi.

Sul tavolino davanti a me erano appoggiate, mischiate alla rinfusa, una decina di riviste del genere più disparato. Si andava dal fotoromanzo Bolero a Sorrisi e Canzoni, passando per Gente Motore e L’Informatore Scientifico. Tra queste, però, ce ne era una che mi colpì in modo particolare e non potei fare a meno di sfilarla dal mucchio: Polizia Moderna, si chiamava. Non mi chiesi nemmeno come fosse finita lì. Probabilmente il dottore si era abbonato alla rivista su suggerimento di qualche conoscente che non voleva deludere. Mi ricordo solo che ne fui irresistibilmente attratto.

La foto della Volante in copertina era molto bella. All’epoca era un’alfa Romeo Giulietta, con i soliti colori bianco/azzurro e la pantera nera disegnata sui lati. Per noi che abitavamo in un piccolo borgo di campagna, era una cosa insolita. In paese c’erano i Carabinieri, quelli li incontravi tutti i giorni, ma una macchina della Polizia non capitava facilmente di vederla dal vivo. Bisognava andare in città, dove c’era la Questura. Perciò, come tutte le cose non comuni, mi affascinava particolarmente. 

Ma non fu solo questo il motivo che mi spinse a sfogliare quella rivista in carta patinata. Mi incuriosì il nome: Polizia Moderna. Perché “Moderna”? Mi chiesi. Esiste, o esisteva, forse, anche una “Polizia Antica”? Avevo visto tanti film in tv e la Polizia, per me, era sempre la stessa, né moderna né antica. Era unica. Era quella che combatteva la mafia in Sicilia con il commissario Cattani, quella che si batteva contro il crimine nelle grandi città con Franco Nero e Maurizio Merli, quella di Orazio Orlando che risolveva i casi complicati in Qui Squadra Mobile.

Pensai che l’avrei chiesto a mio padre, la sera a casa. Lui sicuramente conosceva la risposta.

Accantonai per un momento quella curiosità e iniziai a leggere. Il risultato fu che, a fine lettura, le domande divennero due. Ma la seconda la feci al dottor Schiavelli quando entrai, insieme a mia madre, nel suo studio. Gli chiesi se quella cura ricostituente che mi stava prescrivendo mi avrebbe rimesso a posto in modo da poter fare il poliziotto da grande. Lui si fece una risata, scambio uno sguardo d’intesa con mia madre e mi assicurò di sì. Mi disse anche che potevo tenere per me la rivista, se volevo. Tanto per iniziare a prepararmi per gli esami che avrei dovuto sostenere a tempo debito.

Tornammo a casa e ripresi la lettura, costruendo dentro di me un sogno da realizzare nel mio futuro. La domanda che avrei dovuto fare a mio padre mi passo di mente. Così, ancora oggi, a più di quarant’anni anni da quel giorno, mentre mi appresto a iniziare il turno di servizio, quando mi cade l’occhio sulla nostra rivista, che è sempre in bella mostra nella sala d’aspetto all’ingresso della Questura, mi chiedo: «perché l’avranno chiamata Polizia Moderna? Può esistere anche una Polizia antica, che non sia contemporanea al tempo della società che serve?». 

 

 

*Capo della Squadra mobile di Pistoia,  è il creatore della figura del commissario Tommaso Casabona, protagonista di 5 inchieste. L’ultimo volume uscito da poco in libreria si intitola “Alla fine del viaggio. Solitudine per il commissario Casabona” 

24/10/2019