Roberto Centazzo*

Jennifer

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Forse furono i discorsi ascoltati nella bottega del barbiere quand’ero ragazzo a farmi decidere sul mio futuro di scrittore. 

Ricordo che un giorno entrò un anziano colonello in pensione, malconcio, quasi calvo con una barbetta ispida e grigia, costretto su una sedia a rotelle. Teneva sulle ginocchia una copertina di lana e un vecchio numero di un periodico. Spingeva la carrozzina una ragazza mulatta di circa vent’anni, molto graziosa, con lunghi capelli neri e occhi grandi. Disse a José che sarebbe passata a prendere il colonnello più tardi e José annuì mentre tagliava i capelli a un bambino. Dopo essersi disfatto sbrigativamente del giovane cliente, José chiese ai presenti se fossero d’accordo a far passare prima l’anziano graduato. Tutti acconsentirono, così José avvicinò la carrozzella al lavabo e preparò la schiuma da barba.

Prima di cominciare fece una rapida analisi tricologia del cuoio capelluto del colonnello al quale rimproverò scarsa cura del cranio dovuta al troppo fumare.

«Caro colonnello» lo adulò mentre gli cospargeva il volto di schiuma. «Perché si trascura? È ancora un giovanotto aitante e ben piazzato. Possibile che debba fumare così tanto?». 

Il colonnello rispose con un sorriso.

«È tutto quello che mi resta. Brutta cosa la vecchiaia. Pensare che un tempo…».

«Gli anni passano per tutti, colonnello. Che ci vuol fare?».

«È proprio questo il brutto. Che passano. Quando uno è giovane non ci pensa. Poi in quattro e quattr’otto si ritrova come me, vecchio, malandato, e non serve più a nessuno».

«Ma ha una bella nipote!» lo rincuorò José ironizzando. Anni dopo, venni a sapere che la nipote del colonnello era la sua donna di compagnia, la sua concubina. Aveva un bel patrimonio il colonnello e quando, dopo l’incidente, i parenti lo avevano abbandonato, lui aveva deciso di dilapidare le sue sostanze divertendosi con ragazzine di cinquant’anni più giovani. «La morte arriva in fretta» rispose il colonnello, chiudendo così il discorso. Poi rinvangò alcuni episodi della sua vita, una rapina sventata, una medaglia al valore militare, fino all’incidente che lo aveva costretto a congedarsi.

Era così per ognuno di noi? La nostra vita poteva condensarsi in poche immagini? Mi piaceva il lavoro del barbiere e scelsi di farlo per un certo periodo chiedendo proprio a José di assumermi come praticante. Perché lì, seduti su quella sedia in attesa di essere rasati, gli uomini parlano della loro vita come di fronte a un confessore, come sul lettino di uno psichiatra. Fanno confidenze, rievocano ricordi, esprimono speranze, raccontano storie. Non avrei dovuto fare altro che trascriverle. 

Mentre si sottoponeva al trattamento del viso, alla rasatura del volto, al lavaggio dei pochi e bianchi capelli, il colonello rammentò l’episodio glorioso in cui perse l’uso delle gambe: un conflitto a fuoco, il proiettile che lo colpì alla schiena. La rivista Poliziamoderna gli aveva addirittura dedicato un articolo e lo mostrò, anche se ormai, a forza di leggerlo e rileggerlo era tutto sgualcito. 

Mi sarebbe piaciuto vivere di scrittura ma avevo bisogno di lavorare e, dopo l’esperienza dal barbiere, continuai per diverso tempo con mille occupazioni saltuarie. Sinceramente non so cosa mi spinse infine a scegliere di aprire un’agenzia di Pompe Funebri. Forse perché a trent’anni quando, messe da parte le velleità artistiche si trattò di scegliere, mi resi conto che qualcosa nella vita bisogna pur fare e cominciai a pensare alla morte.

Alla morte non come a qualcosa di terribile e pauroso ma come a qualcosa a cui bisogna abituarsi. Non so con precisione cosa fece scattare la molla. Forse erano stati tutti quei discorsi ascoltati dal barbiere. So con certezza che mi venne in mente la storia di Mitridate e la sua follia di bere ogni giorno un po’ di veleno per assuefarsi. Così facendo abituò il suo corpo a dosi sempre maggiori di tossine, che avrebbero funzionato da antidoto nel caso di un attentato.

Perché ciò che terrorizza nella morte, non è la morte in sé ma il suo improvviso apparire, lo sconvolgimento che crea nel groviglio inestricabile di abitudini.

Abituandosi ad essa, invece, pensando continuamente che prima o poi arriverà, la si prende in contropiede. Questo avevo pensato, crescendo. Mi ero anche esercitato.

Una volta Ester, una delle mie sorelle maggiori, rientrò nella sua stanza e mi trovò morto sul pavimento.

Avevo sparso anche del succo di pomodoro per rendere la scena più credibile.

Lei, ricordo, urlò e scoppiò a piangere. Si chinò su di me, ma io le sorrisi dicendo:  «Non sono morto. Non ancora».

Quella volta finì che presi degli scapaccioni ma in seguito andò meglio. Costruii una specie di spada come quella che usano gli illusionisti in palcoscenico, fatta di due metà tenute insieme da una mezzaluna di filo di ferro. Me la legai al torace in modo che il manico svettasse sul davanti e la punta facesse bella mostra di sé in mezzo alle scapole. Poi mi coricai sul pavimento.

Gegé, entrando, mi trovò in quella posizione, gridò qualcosa poi si chinò su di me spaventato. Io non trattenni le risate e Gegé si limitò a darmi una patta sulla schiena ed un paio di calci. «Bene» pensavo «si stanno abituando a vedermi morto». 

Ero sicuro che, così facendo, quando fosse capitato sul serio il triste evento, sarebbero stati, come a dire, preparati, meno colti di sorpresa e non avrebbero sofferto. Per anni non feci altro che farmi trovare morto qua e là, in circostanze via via sempre più elaborate.

Forse memore dei discorsi del colonnello, una volta scavai una buca per terra e vi infilai le gambe, dal ginocchio in giù. Lacerai i calzoni e imbrattai questi ultimi con della vernice rossa. Poi mi stesi per terra in attesa che passasse un’auto. Sembravo proprio uno senza gambe. Per mia sfortuna l’auto che passò era quella della Polizia ed io passai una notte in guardina.

Fu comunque un’esperienza che un giorno avrei potuto scrivere in un racconto o magari in un romanzo.

A trent’anni dunque inaugurai la mia prima agenzia di pompe funebri e relegai la scrittura ad attività secondaria, alla quale dedicavo i ritagli di tempo. Le riflessioni non mancavano di certo. Quando avviene un decesso le lacrime generano altre lacrime, lo sconforto produce sconforto, il dolore crea altro dolore. Ma poi, con il tempo, l’antidoto comincia a funzionare. Il pianto genera consolazione, il dispiacere sollievo, la demoralizzazione induce fiducia. Questo accade. Accade che alla donna in lacrime tu sappia fare una carezza, lieve. Accade che all’anziano affranto tu sappia stringere la mano con forza e sorridergli. A un certo momento diventi rassicurante, e vedi quei corpi avvizziti risollevarsi, quelle persone abbattute rasserenarsi. Sei l’appoggio su cui devono fare forza, il sostegno del loro rinascere. Diventi il centro su cui scaricano le loro amarezze per poter sopravvivere. Se ne liberano loro, te ne carichi tu, accumulandole una sull’altra, nutrendoti come una sanguisuga dei loro tormenti: divori con avidità, le angosce, i supplizi, le tribolazioni, donando pace e serenità a chi non vuol altro che liberarsi al più presto del proprio struggimento. Non è facile, perché è necessario che i veleni della vita si insinuino nel tuo corpo a poco a poco. Troppo dolore può uccidere. Una dose sbagliata potrebbe essere letale. Ecco che, allora, l’anima si ribella. Al principio tronchi i discorsi, ti allontani, ti rifugi in un cupo silenzio. Puoi recepire solo una parte dell’altrui strazio. Poi, a poco a poco, ne diventi partecipe.

Il veleno dell’anima si è impossessato di ogni tua parte e puoi reggere il confronto. Ti sei alimentato del loro tormento, hai assunto la giusta dose di angoscia e la tua psiche non è più in pericolo. La morte non ti fa più paura.

Così passavo le mie giornate a scrivere, in attesa dei clienti affranti i quali, più che la pena per il distacco, soffrivano la mancanza di qualcuno con cui condividerla. Io ero lì. Paziente, contemplativo, pronto ad ascoltare le loro storie, a confortare, a spartire quel patimento e ad alleviare la loro anima dalla sofferenza, per poterne scrivere.

Quando, un giorno, entrò Jennifer. Non aveva la faccia affranta. Non le era mancato nessuno dei suoi cari. Era passata solo per chiedere un preventivo.

Un preventivo? Pensai. Per quale motivo una donna giovane e bella doveva informarsi in anticipo sul costo di un servizio funebre? Forse anche lei voleva abituarsi all’idea della morte? La cosa mi incuriosiva alquanto, tanto che mi venne in mente l’idea per un raccontino e così, sbrigativamente le fornii le informazioni richieste e la seguii con lo sguardo mentre si allontanava dal mio esercizio.

All’ora di pranzo, quando chiusi l’attività, era sul marciapiede di fronte, ad aspettarmi. «Gli annunci sono compresi nel prezzo?» mi domandò.

Io rimasi fisso a guardarla. Non ebbi il coraggio di chiederle chi fosse il morto.

Feci no con la testa. Lei mi sembrò sussurrare un lieve «peccato» ma forse fu solo una mia impressione. Quando le espressi la mia curiosità lei disse semplicemente: «Che male c’è a chiedere? Prima o poi si muore. Non credi?».

Devo ammettere che la mia vita da quando conobbi Jennifer cambiò completamente. Lei riusciva a farmi fare qualunque cosa. Psicologicamente aveva fatto di me uno schiavo. Ormai non riuscivo più a staccarmi da lei. E neppure a scrivere. La qual cosa mi rendeva triste. Se ne accorse e ne parlammo. Avevo perso completamente il lume della ragione, non c’era cosa che mi chiedesse che io non fossi disposto a fare.

Una sera, inaspettatamente, mi domandò: «E quando finirà tra noi cosa farai?».

Io rimasi interdetto: «Finire? Perché dovrebbe finire?».

«Tutto finisce e poi la settimana prossima tornerà Vince».

«Vince? Chi è Vince?» chiesi con leggerezza.

«Vince? Chi è? È mio marito».

Fu come se un macigno mi fosse caduto sullo stomaco.

«Marito? E da quando sei sposata?».

«Da dieci anni».

«Oh Cristo…».

«Beh, che ti credevi? Che saremo rimasti insieme per tutta la vita?».

In effetti mi ero fatto mentalmente quell’idea.

«Io non ti lascerò andare» sostenni convinto. «Sì, mi sono fatto l’idea che io e te staremo insieme per sempre. Qualcosa in contrario?».

Jennifer si mise dritta di fronte a me.

«Mi ami?».

«Certo che ti amo».

«Faresti qualunque cosa per me?».

«È ovvio!».

«Sicuro che poi non cambi idea?».

«No, non cambierò idea. Io ti amo e voglio restare con te per tutta la vita».

«Vince tornerà martedì. Potrebbe anche non tornare. Dipende solo da te…».

Le luci si spengono, la guardia carceraria ha fatto l’ultimo giro. Continuerò domani. Mi stendo sulla branda, sistemo il cuscino sotto la faccia e mi metto a riflettere su di me, sulla vita, sulle strane occasioni che il destino concede. 

Il giudice non ha creduto affatto alla casualità dell’incidente d’auto in cui Vince è morto, non l’ha ritenuto una disgrazia. Ha ipotizzato che lo avessi fatto uscire di strada volontariamente, tamponandolo e mi ha messo in carcere. Ha sentito dei testimoni e ha scoperto che io ero invaghito di Jennifer. Lei stessa ha dichiarato che la tormentavo, che la seguivo, che la mia era diventata una fissazione.

Ma non è questo il punto. Il punto è che io avevo sempre pensato che non sarei mai riuscito a fare della scrittura la mia professione. Per questo motivo mi ero orientato a fare altro. Adesso invece ho compreso che per diventare scrittore bastano poche cose: ci vuole un pizzico di predisposizione, un goccio di cultura, un briciolo di esperienza e la capacità di rielaborare e comprendere il passato. Quella sì, è indispensabile! E io, modestamente ce l’ho! Ma ciò che più serve è il tempo. Già! Il tempo! Devo ammettere che in questa cella ora ne ho davvero quanto ne voglio. Grazie Jennifer! Tu sì che mi avevi capito. E io non smetterò mai di amarti.

*spettore superiore  comandante del posto di polizia ferroviaria di Savona è autore della fortunata serie della “Squadra minestrina in brodo”  con protagonisti 4 poliziotti in pensione. La  sua ultima fatica letteraria si intitola “Tutti i giorni è così” 

24/10/2019