Annalisa Bucchieri

Cara polizia ti scrivo

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Andrea Camilleri

In occasione della scomparsa del Maestro Andrea Camilleri, ripubblichiamo l'intervista che il grande scrittore siciliano rilasciò a Poliziamoderna nell'aprile del 2002 e la video intervista (raggiungibile cliccando sul link a destra nella sezione "Link") con il direttore di Poliziamoderna, Annalisa Bucchieri, nel 2016

«Mi dispiace, non rilascio interviste sulle indagini in corso: sono in silenzio stampa! - scherza Andrea Camilleri, impegnato a scrivere una nuova serie di racconti gialli che hanno come protagonista il commissario Montalbano - Però se vuole le posso raccontare come ho visto cambiare la divisa in questi miei primi 77 anni di vita. Almeno la metà di questo 150° compleanno della polizia lo riusciamo a coprire». 
Impossibile non cedere alla tentazione di lasciarsi trasportare dalle parole di Camilleri che, attraverso i suoi libri, ha portato alla ribalta l'immagine di una polizia italiana dal volto umano, a volte severa e scorbutica come solo sa essere il personaggio prediletto, Salvo Montalbano, a volte semplice ma generosa come lo sono gli uomini della sua squadra, dal fedele ispettore Fazio all'arguto vice commissario Mimì Augello. 
 

Quest'anno i bambini sono stati chiamati a rappresentare il poliziotto in disegni e racconti; ma come lo vedeva Camilleri il poliziotto quando era piccolo nella sua Sicilia agrigentina? 
«Lo vedevo "mitico", un misto tra Zorro e i cavalieri dei pupi siciliani. Probabilmente perché il mio primo contatto con un poliziotto è stato molto positivo, una specie di imprinting poliziesco che mi ha segnato per sempre. Fu l'incontro con il padre di un mio compagno di classe alle elementari che io frequentavo perché era bravo e mi aiutava nei compiti. 
Questo signore era un maresciallo di pubblica sicurezza, il maresciallo Corso. Un uomo bravissimo e integerrimo, molto più duro degli stessi carabinieri nel far perseguire la legge. Con lui non si poteva babbiare. Capiva l'ambiente e le sue collusioni mafiose ma non si faceva influenzare. Dal maresciallo Corso ha tratto ispirazione il mio primo romanzo giallo Il corso delle cose il cui protagonista però era un carabiniere. Allora in Sicilia, infatti, c'era la presenza predominante sul territorio della Benemerita, quindi ci si rivolgeva quasi sempre a loro per dirimere anche le controversie più semplici». 

Allora è stato grazie al maresciallo Corso che, nonostante le usanze siciliane, Lei ha voluto affidare le sue indagini ad un commissario di polizia? 
«Sì, ma hanno giocato un ruolo decisivo anche dei precedenti letterari illustri. Il mio modello principale di scrittura è stato infatti il commissario Maigret di Simenon, incarnato sul piccolo schermo dal grande Gino Cervi. Inoltre ero rimasto colpito da un'altra serie televisiva di grande successo Le storie del maresciallo interpretata da Turi Ferro e scritta niente di meno che da Mario Soldati, e mi è sembrato di ricalcare orme illustri scegliendo un commissario. Del resto avere un poliziotto in casa dà sempre sicurezza, come un medico in famiglia!». 
 

Mai avuto problemi con le Forze dell'Ordine? 
«Ma allora non è un'intervista, è un interrogatorio! Confesso che i miei libri sono un po' una sorta di risarcimento per un episodio divertente che risale al 1962, quando fui chiamato alla regia dello spettacolo teatrale Tarantella su un piede solo. Un mese prima era stata abolita la censura, per cui si respirava una maggiore libertà artistica, ma il testo era rischioso per altri aspetti in quanto parlava di quattro poliziotti corrotti, sebbene nel finale si riscattassero appieno. Così mandai il copione all'allora questore di Napoli che lo lesse, capì e conferì la sua approvazione, dando ordine al commissario di pubblica sicurezza che doveva svolgere il suo turno di sorveglianza in sala di non interrompere lo spettacolo. Ma la sera della prima venne un procuratore della Repubblica che a metà spettacolo si mise ad urlare allo scandalo e il commissario della polizia fu costretto a chiamare la Celere. Fui condannato per vilipendio alle Forze Armate - perché allora la polizia era ancora militarizzata - ma il questore intercedette per me spiegando in tribunale il finale dell'opera. Così fui assolto. Per riscattarmi da questo vecchio debito Montalbano mi è sembrato adatto, anche perché in lui ho concentrato tutte le qualità migliori di un siciliano: senso di lealtà e rispetto delle regole, amore della tradizione e, insieme, apertura verso gli altri».

 
Possiamo dire che il suo personaggio rappresenta l'evoluzione che ha subìto la polizia dall'epoca della sua smilitarizzazione? 
«Senz'altro, grazie a questo processo di smilitarizzazione in Sicilia è stata riconquistata a pieno la fiducia nella divisa. Se non avessi visto questo miglioramento, Montalbano di certo non sarebbe stato un commissario di pubblica sicurezza. Certo il successo che ha avuto anche tra i poliziotti, dai semplici agenti fino ai questori, è dovuto al fatto che incarna la condizione "ideale" del lavoro d'investigazione. Gode di una libertà d'azione che lo svincola dal pubblico ministero con la possibilità di condurre le indagini a modo suo che non esiste nella realtà. Quelle poche volte che deve adeguarsi a direttive superiori che contrastano con il suo "fiuto", gli prende un nirvuso (nervosismo n.d.r.) che lo accompagna tutta la giornata. Niente in confronto a quello che prenderebbe a me se fossi poliziotto e vedessi uscire di galera dopo tre ore uno che ho arrestato e sono convinto che sia colpevole».

 
Insomma ci vorrebbe meno burocrazia a intralciare il lavoro del poliziotto, che per sua natura è uomo d'azione? 
«Diciamo che il mio commissario è allergico sia alla burocrazia che al suo linguaggio contorto, da cui è perseguitato comicamente per bocca dell'attendente Catarella, sia alle promozioni che lo toglierebbero dal "fronte". Lui non è tipo da scrivania, è uno che lavora in mezzo alla gente. È capace di non dormire la notte arrovellandosi per il sospetto che due vecchietti in paese si vogliono suicidare o si affatica per chilometri a piedi su un'antica trazzera di pastori per andare a parlare con un possibile testimone oculare. Per carità, non voglio dire che debba essere preso ad esempio. Montalbano è per la polizia un po' quello che 007 James Bond è per gli agenti segreti, cioé un personaggio di sogno. E in quanto tale gode dell'immunità concessagli dalla finzione romanzesca. Se Montalbano e James Bond si comportassero così nella realtà morirebbero dopo cinque minuti».

In tutti i suoi libri anche quelli ambientati nel passato, come La concessione del telefonoLa scomparsa di Patò, o La mossa del Cavallo, si svolge un'indagine. Perché, sebbene il giallo sia la forma letteraria che predilige, spesso non si arriva alla soluzione o ad assicurare il colpevole alla giustizia? 
«Sì, per me è più importante capire cosa c'è dietro il crimine, cosa scatena la violenza, ricercare la verità, naturalmente quella relativa - quella assoluta me la saluti Lei - senza ossessioni di giustizia. Il mio detective-poliziotto è un uomo di buon senso. Io ho un questore "montalbaniano", un fan dei miei libri, e l'altra sera in Tv è stato elogiato per essersi comportato con "buon senso". Mi ha fatto un gran piacere… 
Del resto il commissario Montalbano piace alla gente proprio perché è un personaggio a tutto tondo, pieno di difetti ma soprattutto di umanità. 
Questo aspetto è mutuato da Maigret. Io non credo infatti nei detective alla Sherlok Holmes che procedono solo per logica, ma a quelli che usano intuito e analisi psicologica. 
Il mio commissario sa capire le persone, sa leggere dentro i suoi paesani mentre ci parla e sa come conquistare la loro fiducia. Questa capacità di comprensione lo aiuta a risolvere i casi. Montalbano è il volto amico della legge, una legge che capisce e tutela, non ottusa e schiacciante. 
A volte è più indulgente verso un povirazzo assassino, arrivato ad un gesto estremo per una concatenazione di disperazioni, che verso un ipocrita che truffa per pura venalità. Per i suoi principi e la sua apertura mentale, il mio protagonista incarna l'idea di Stato che io auspico, retto ed onesto, forte e portatore di valori e di sicurezza. È quell'idea di Stato che più di ogni altra regione la Sicilia ha misconosciuto».

Perché allora ha scelto un piccolo paese di provincia siciliana, Vigata, invece che una grande città come Roma, dove fra l'altro vive da anni, per raccontare la polizia che incarna il suo forte senso dello Stato? 
«Non riuscirei a raccontare una storia se non immergendola in uno spaccato storico-geografico preciso, tanto che la mia scrittura non acquisisce nerbo se non quando mi esprimo in dialetto. Ecco perché amo i giallisti come Carlo Lucarelli che parla della gioventù acida e criminale del bolognese, come Fois della sua Sardegna impastata da silenziosi misteri e come Carlotto che s'infiltra nella mafia del Brenta. Sono scrittori che non parlano in maniera atemporale, ma parlano di questa Italia e dei suoi angoli bui, esplorando le forme delinquenziali e violente che hanno assunto le realtà locali. Sono le realtà più in ombra, quelle meno conosciute, le più interessanti da descrivere. Vigata rappresenta, inoltre, una Sicilia che vuole sanare le stigmate dello scetticismo e dell'omertà che l'hanno piagata per troppo tempo».

In cosa è cambiata in quest'ultimi dieci anni la Sicilia? 
«Un tempo c'era la filosofia "fatti loro", e le persiane si chiudevano automaticamente. Ora per fortuna è cambiata la mentalità. Un paio di anni fa a Porto Empedocle, il mio paese in provincia di Agrigento, fu ucciso un carabiniere in un agguato su una strada in periferia. Immediatamente i centralini del 113 furono intasati di telefonate da parte degli inquilini del palazzo di fronte che avevano visto tutto e chiedevano che gli agenti della polizia arrivassero al più presto».

E Lei cosa chiederebbe oggi alla polizia del suo paese? 
«Vorrei vedere più poliziotti in strada. Grandi, prestanti e rassicuranti come i poliziotti tedeschi che all'apparenza sembrano cattivi e poi sono gentilissimi. Insomma, una maggiore vicinanza, che faccia sentire protetto me e i miei cari. Mi piacerebbe il poliziotto di quartiere, che fosse un riferimento quotidiano anche per i piccoli imprevisti. Una notte l'auto del commissariato di zona abbozzò la nostra che era parcheggiata sotto casa e gli agenti ci lasciarono un bigliettino sul parabrezza per il risarcimento assicurativo. Mi sono sentito protetto e rispettato allo stesso tempo». 
 

Montalbano ama molto la letteratura, c'è un'intima connessione tra la capacità di risolvere un'indagine e il saper leggere? 
«Secondo me aiuta eccome. Ma, essendo uno scrittore, così obiettivo non sono. Dovrebbe chiederlo ai veri detective. Comunque conosco molti poliziotti che leggono tanto. Qualcuno ha persino collaborato con le mie indagini romanzesche… Il dirigente della scientifica di Bologna ha letto La voce del violino e mi ha fatto riscrivere cinquanta pagine perché inattendibili. Non solo non avevano veridicità, ma avrebbero portato il caso in un vicolo cieco. Inoltre mi ha rifornito di pubblicazioni sulle nuove tecnologie di analisi medico-legali, balistiche, grafologiche, ma anche sulle banche dati digitali e sullo studio delle prove informatiche».

A proposito di questo, come farà nei suoi libri a lottare con le nuove forme del reato informatico, Lei che è abituato ad affrontare, almeno a colpi di penna, i delinquenti di una volta? 
«Effettivamente i miei poliziotti sono ancora molto legati ad un mondo tradizionale nel bene e nel male, agli ulivi e al mare siciliano, alla cucina tipica, alla vecchia mafia. Nella Gita a Tindari ho costretto Montalbano ad occuparsi di traffico d'organi e mi sembrava di essermi spinto con la fantasia in un'indagine futuristica, poco dopo ho scoperto che la realtà era ben più avanti: esistevano addirittura dei prezzari per organi su internet. Probabilmente Montalbano si sentirebbe un pesce fuor d'acqua a lavorare sul cybercrime, forse perché non mi ci trovo tanto io. Adesso scrivo al computer, mi sono abituato e non potrei più farne a meno, ma sento di dover colmare molte lacune riguardo alla tecnologia digitale attraverso la quale si stanno diffondendo nuove realtà criminali. Leggere Polizia Moderna potrebbe essermi molto utile nel darmi indicazioni e spunti per nuove investigazioni».

Le faremo un abbonamento "ad honorem"…anche se sicuramente Lei sa dove cercare gli spunti avendo già scritto sette romanzi gialli e due libri di una cinquantina di racconti: da quale cilindro magico tira fuori tutte queste trame poliziesche? 
«Il novanta per cento hanno un'origine di cronaca. Io leggo il giornale dalle ultime pagine, iniziando dai necrologi, e mia moglie si arrabbia. Mi leggo anche gli annunci mortuari in tedesco, pur non capendoci molto, però trovo che accendono la fantasia. In genere se leggo un fatto di cronaca nera interessante strappo la pagina con l'articolo, la metto da parte e poi lo faccio risolvere da Montalbano. Perché lui ha sempre bisogno di storie, il personaggio seriale si trasforma sempre in un tiranno, costringe lo scrittore a occuparsi di lui. Ormai è così completo che vive di vita propria. Se non riesce a fare direttamente pressione su di me la fa attraverso i lettori! Un giorno mentre bighellonavo vicino casa una signora inchiodò la macchina e mi fece una lavata di capo dicendomi che non dovevo perdere tempo a passeggiare ma dovevo andare a scrivere una nuova storia per Montalbano perché da tanto non usciva un mio libro su di lui».

Questo successo del personaggio, che ha addirittura dei fans club, è stato rinforzato dallo sceneggiato televisivo? 
«Lo sceneggiato televisivo è un caso straordinario. È così ben fatto che ha trasformato molti spettatori in lettori. E Luca Zingaretti è talmente bravo che anche se non rispecchia fedelmente il commissario dei miei romanzi - che è un cinquantino con tutti i capelli fra l'altro! - ormai per la gente Montalbano è lui. Adesso Zingaretti vorrebbe non rimanere bloccato nei panni del commissario e spaziare in altri ruoli e si è visto che lo può fare benissimo con il film Perlasca (stessa casa di produzione, la Palomar di Carlo degli Esposti n.d.r.), che ha raccolto meritatissimi riscontri, ma Montalbano non lascia libero facilmente neanche lui e proprio all'inizio di quest'anno Zingaretti "ha dovuto" girare una nuova serie di puntate tratte dai racconti de Gli arancini che andrà in onda a maggio [in effetti a tutt'oggi si stanno girando altri episodi; la nuova serie di telefilm dovrebbe andare in onda a ottobre, NdCFC]».

Però almeno Zingaretti quando veste i panni del commissario si fa certi pranzetti... Lei fa mangiare Montalbano divinamente, è un modo di onorare la Sicilia attraverso la cultura culinaria? 
«Tutti gli investigatori mangiano molto, Maigret di Simenon e soprattutto Pepe Carvalho, il detective-gourmet nato dalla penna del catalano Montalbàn, per non parlare di Nero Wolfe. Probabilmente sono le indagini che scatenano l'appetito. Devo comunque precisare che Montalbano non è un palato raffinato. Ama i piatti rustici e semplici. Certo il pesce congelato non lo mangerebbe mai. Figuriamoci provare un fast food all'americana o il cibo cinese con cui si spaccano il fegato i detective yankee! Lui non tradirebbe mai le sue origini culinarie, la tradizione della sua terra».

Questa fedeltà culturale si vede anche nell'uso del dialetto, che non Le ha impedito di essere capito e amato all'estero. Quanto si sente europeo, il sicilianissimo Camilleri? 
«Non tutti fanno lo sforzo di cercare l'equivalente di un dialetto nella propria lingua. Io sono stato fortunato perché sono stato tradotto dappertutto meno che in Russia, Cina, paesi arabi. La Germania è il paese dove ho venduto più copie, quasi un milione. Qualcuno sta traducendo La stagione della caccia nel dialetto di Lione e mi stanno traducendo anche in svedese. Pare che lì abbia molti fans, addirittura miss Svezia 2001: che sfortuna il successo tardivo! 
Di cultura sono al cento per cento europeo. Per uno come me che ha iniziato a leggere gli scrittori stranieri già da picciriddo, all'età di sette anni, la cultura è stata fin dall'inizio europea. Essendo figlio unico mi annoiavo e chiesi a mio padre che aveva una nutrita biblioteca se potevo leggere qualcosa. Lui rispose "tutto quello che vuoi". Iniziai proprio con Maigret di Simenon, poi Edgar Allan Poe, Conan Doyle e così via. Dall'Europa di oggi vorrei una maggiore autonomia decisionale rispetto ai potenti del resto del mondo». 
 

In un piccolo paese siciliano alla fine dell'ottocento il mistero de La Scomparsa di Patò, viene risolto da una fortunata collaborazione tra un carabiniere e un delegato di pubblica sicurezza: allora è una leggenda metropolitana quella dell'impossibile collaborazione tra Forze dell'Ordine? 
«Si, le resistenze vengono più dal vertice. Nel momento in cui si trovano in pericolo i due protagonisti si coalizzano e riescono brillantemente. Ho scritto un altro racconto "interforze" che uscirà molto presto in una nuova raccolta e tratta di una collaborazione tra Montalbano e un maresciallo dei carabinieri. 
Certamente c'è una rivalità fisiologica di fondo, che non deve però rimanere tale ma trasformarsi in forza propulsiva. Il 6 e 7 marzo [8 e 9, NdCFC] sono stato all'Università di Palermo per presentare il mio ultimo libro Il re di Girgenti, la storia di un contadino che è realmente vissuto nel seicento nella zona di Agrigento. Sapendo che ero in Sicilia, mi ha chiamato il tenente colonnello comandante della Benemerita dicendomi "se io le raduno tutti gli ausiliari dell'Arma facciamo un incontro?" Anche il questore di Palermo ha saputo che ero in Sicilia e nel giro di 24 ore ha richiesto e organizzato anche lui un incontro con tutte le Forze di polizia in Sicilia. Almeno un pareggio è dovuto». 
 

Sappiamo che ha accolto anche la proposta di fare il membro della giuria del premio letterario riservato ai bambini indetto dalla Polizia di Stato sul sito web. 
«Quando ci sono i picciriddi di mezzo, mi fa sempre piacere essere coinvolto. Sono uno che ha una scarsa autonomia dai nipoti, ne ho quattro che vanno dai 4 ai 20 anni. Non posso stare più di tre giorni senza vederli. Una volta stavo al Cairo e me ne volevo andare via perché mi mancava mia nipote, allora l'autista mi fece trovare sul sedile a fianco al mio una bimba, sua figlia, per attutire la crisi d'astinenza del "nonno". A me piace averli sempre per casa. Mia moglie dice che non sono uno scrittore ma un corrispondente di guerra, perché scrivo nel caos totale tra le grida e i giochi dei bambini che mi salgono sul tavolo e mi interrompono. "Silenzio che il maestro scrive!" è una frase che non è mai risuonata in casa mia». 
Adesso si capisce perché il nostro eroe Montalbano voglia spesso rifugiarsi a riflettere nella sua solitaria "casa di Marinella" quando deve risolvere un caso.

17/07/2019