Chiara Distratis

Auguri campione

CONDIVIDI

ffoo02 7/19

Per raccontare questa storia vogliamo iniziare dalla fine, vogliamo iniziare dal lungo e ininterrotto appaluso scrosciante che ha accompagnato l’uscita di Livio Berruti dal Salone d’onore del Coni al termine della festa che la Polizia di Stato e il Gruppo sportivo Fiamme oro hanno organizzato, per ripercorrere la sua carriera in occasione di un altro importante traguardo tagliato dal grande campione: i suoi 80 anni. Il traguardo che lo ha reso famoso è quello dei 200 metri alle Olimpiadi di Roma ’60 tagliato con un crono di 20’’5: medaglia d’oro, record olimpico e mondiale e velocisti americani relegati sui gradini più bassi del podio. «Quando mi hanno ricordato che il 19 maggio Livio avrebbe compiuto gli anni – ha raccontato il capo della Polizia Franco Gabrielli durante la cerimonia – ho subito chiesto ai ragazzi delle Fiamme oro di organizzare qualcosa. Io sono nato nel 1960, proprio l’anno di quelle Olimpiadi, ma durante la mia adolescenza era ancora vivo il ricordo della sua impresa. Ancora se ne parlava per la straordinarietà dell’evento: un atleta europeo che aveva interrotto l’egemonia degli statunitensi. Questa festa ci dà l’occasione di rendere omaggio a uno straordinario italiano e a uno straordinario atleta, per giunta Fiamme oro». 

E pensare che Berruti non era per niente interessato all’atletica: «Nel 1956 ero studente del liceo Cavour di Torino e una delle mie passioni era il tennis; decisi perciò di iscrivermi alla squadra di atletica nel Gruppo sportivo Lancia, con la speranza di poter così usufruire gratuitamente del loro campo da tennis. Il mio sogno venne quasi subito accantonato dalla vittoria in scioltezza in un 100 metri nel cortile della scuola,che mi fece capire che forse ero più portato per la corsa». E così il tennis fu sostituito dall’atletica: «Per me è uno dei pochi sport, forse l’unico, in cui non si può fingere – sottolinea Berruti – Quello che sei, fai. L’atletica ti regala un senso di appartenenza quasi violento, esclude ogni forma di discriminazione. Peccato che i messaggi e le sensazioni di questa purezza non arrivino più a tutti. Oggi prevale l’aspetto economico, il conto in banca, il confronto tra i guadagni, l’invidia. Una volta già era tanto se ti pagavano il viaggio. Io correvo perché amavo correre». 

E che la velocità fosse scolpita nel suo Dna lo dimostra la facilità con cui arrivarono le prime vittorie internazionali. Nel 1958 decise di partire per il servizio militare, ma di farlo in polizia così da poter continuare con la corsa. Arrivarono nuovi successi ma il vero capolavoro furono i 200 metri delle Olimpiadi: «Mi sono presentato con un record sui 200 di 20’’7 che mi permetteva di aspirare alla finale – ricorda Livio – In quell’anno tre atleti, avevano fatto 20’’5: l’inglese Peter Redford e gli americani Ray Norton e Stone Johnson, ma io avevo l’attitudine a voler superare gli ostacoli più grandi di me, la voglia spasmodica di andare oltre i limiti, curioso di vedere fino a che punto potessi arrivare. Mi sono qualificato facilmente in semifinale dove capitai insieme ai primi tre primatisti del Mondo. Ero quasi certo di non riuscire a entrare in finale e anche il commissario tecnico Giorgio Oberweger, che veniva sempre a darmi la carica prima della gara, quella volta non lo fece… Non voleva farmi capire che non ci credeva neanche lui. Io mi sentivo in forma: iniziai a correre, cercai di fare una falcata più ampia, più distesa e meno contratta, in modo da arrivare in scioltezza fino alla fine della gara e dominare la tensione: 20’’5». Il boato del pubblico alla vista del tempo fa capire a Berruti di aver fatto bene, ma c’era ancora la finale: «Mi ero stancato troppo e temevo di aver esaurito tutte le energie – continua a ricordare – Mentre tutti si allenavano io mi rintanai negli spogliatoi, al fresco, presi una bottiglia di aranciata e mi riposai. Alla partenza della finale, poi, feci gli onori di casa, gli auguri ai miei avversari, con l’atteggiamento di uno che si trova lì per caso. Spiazzandoli psicologicamente. Partii e, dopo la curva, feci un cambio di falcata. Con un occhio guardavo il traguardo e con le orecchie ascoltavo il passo degli avversari. Non sentivo nulla. Vinsi». Quella fu la gara perfetta anche grazie all’abilità del campione cremisi nel correre in curva: «Le mie caviglie erano forti e fu grazie a esse che riuscii ad affrontare la curva in quel modo, presentandomi davanti a tutti a inizio del rettilineo – spiega Berruti – Nel piegarmi all’interno provavo una sensazione di piacere, vincendo la forza centrifuga che cercava di buttarmi fuori corsia: per me era una liberazione di energia». Poi sorridendo sotto i baffi continua: «Nel ’61 feci delle gare in Giappone e tutti mi chiedevano: “Ma come fa lei a correre così bene la curva?“ Io risposi: “Vado a pattinare“. Era vero e non era vero. I velocisti giapponesi mi presero in parola: andarono a pattinare e finirono lunghi sul ghiaccio». 

Berruti nella sua carriera sportiva ha partecipato ad altre due Olimpiadi, ha indossato 41 volte la maglia azzurra, conquistato 15 titoli italiani, 6 nei 100, 8 nei 200 e uno nella staffetta 4x100 con le Fiamme oro, è stato primatista italiano 6 volte nei 200, 3 volte sui 100, 6 volte nella 4x100 e una volta nella 4x200. Avrebbe potuto fare molto di più di quello che ha fatto ma non si è mai allenato da professionista: «Se penso a un rimpianto – ha confessato il campione – forse è quello di non aver testato i miei limiti. Il talento mi ha aiutato e condizionato: volevo che lo sport rimanesse un piacere e non ho forzato il mio fisico».ϖ

03/07/2019