Antonella Fabiani

Sfida alle bande

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Il racconto delle Squadre mobili di Torino, Milano, Venezia, Napoli e Taranto sui risultati investigativi contro le gang giovanili

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 recenti episodi di violenza giovanile accaduti nel Paese possono indurre a pensare che siamo di fronte a una vera e propria emergenza sociale. Ma, al di là, dello sgomento emotivo e della naturale preoccupazione per l’identità etica delle nuove generazioni, esiste una visione pragmatica che conduce alla realtà dei fatti: il concreto lavoro degli investigatori delle Squadre mobili che, con professionalità e competenza, sotto il coordinamento del Servizio centrale operativo (Sco) incardinato nella Direzione centrale anticrimine diretta da Francesco Messina,  affrontano ogni giorno crimini di ogni genere sul territorio nazionale. Ad alcuni di loro abbiamo chiesto di parlarci del fenomeno delle bande giovanili attraverso alcune operazioni investigative.

Iniziamo da Torino, dove nella sera del 3 giugno del 2017 durante la proiezione su un maxischermo della finale di Champions League tra Juventus e Real Madrid avvenne una vera e propria tragedia: improvvisamente la folla cominciò a fuggire in preda al panico, e in seguito alla calca ci furono 1.500 feriti e due persone rimaste schiacciate, morirono successivamente in ospedale. Un episodio che fu un vero e proprio shock per l’opinione pubblica e prima che si scoprissero le cause di quella follia collettiva, la domanda era chi o cosa potesse aver provocato quel panico. I responsabili dei fatti, come poi si è scoperto in seguito, grazie al lavoro della Squadra mobile (operazione denominata Chili Peppers, i cui responsabili sono stati recentemente condannati a 10 anni per omicidio preterintenzionale) erano i componenti di una gang italo-magrebina: «Un momento di svolta per le indagini è stata una denuncia per ricettazione raccolta da alcuni colleghi del commissariato di Barriera Nizza – spiega il dirigente della Squadra mobile di Torino, Marco Martino –Avevano notato che all’interno di alcuni cellulari sequestrati c’erano le immagini di catenine simili a quelle provenienti dai furti di piazza San Carlo. Una volta passato il caso a noi della Squadra mobile, procedendo nelle indagini abbiamo scoperto che uno di questi due telefoni apparteneva a un gruppo di giovani italo-magrebini; questo ci ha aiutato a capire che probabilmente poteva trattarsi di uno stesso gruppo organizzato che aveva commesso molteplici rapine, compreso l’evento grave del giugno precedente. Le successive intercettazioni telefoniche e le analisi dei profili social di questi ragazzi che postavano le immagini delle rapine su Instagram – continua il dirigente Martino – confermava l’ipotesi che si trattava di un vero e proprio gruppo criminale che si era inventato la tecnica di rapinare le persone durante feste e raduni pubblici, utilizzando lo spray al peperoncino. In pratica questo gruppo si era già specializzato in rapine e delitti che erano iniziati ancora prima dei fatti di piazza San Carlo». 

Infatti, lo stesso gruppo aveva colpito nel corso del 2017 a Bellaria, Padova, Torino, Monza e all’estero in Svizzera, Francia, Olanda e Germania. Da questa mappa la Squadra mobile ricostruisce una moltitudine di episodi in cui il nucleo dei soggetti che vi prendevano parte era sempre lo stesso. Complessivamente dalle analisi dei tabulati delle intercettazioni e delle immagini,  gli investigatori riescono ad attribuire a questa banda circa 43 rapine effettuate sempre con una modalità ben precisa: «Una volta spruzzato il peperoncino e creato il panico tra la folla, che scappava per il bruciore al naso e alla gola – spiega il dirigente – i componenti della banda procedevano a prendere braccialetti, catenine d’oro per poi condividere su Instagram le immagini dell’evento e della refurtiva». Ed è stato proprio l’uso spregiudicato del Web a divenire il loro “tallone di Achille”: le fotografie condivise su Instagram dei luoghi, dove avevano compiuto le rapine, hanno consentito di collegare gli eventi ai reati commessi mettendo gli investigatori della Squadra mobile sulle loro tracce. 

«Per noi è stato interessante, dal punto di vista investigativo, il modo di agire di questi giovani criminali – osserva Marco Martino – poichè non si limitavano a fare colpi solo in Italia ma giravano tutta Europa in un modo che non lasciava traccia, rendendo difficile la loro identificazione. Una volta trovati su Internet i luoghi dove si svolgevano feste ed eventi li raggiungevano in pullman low cost o con il taxi o con voli economici prenotati on line o anche tramite il ride sharing (condivisione passaggi in auto difficilmente intercettabile). Per loro utilizzare la macchina era “una cosa da vecchi”, e così senza problema raggiungevano molte città europee. In questo caso il classico modo di fare le indagini con il pedinamento e il controllo del telefono non erano sufficienti e ci ha costretti a perfezionare le procedure. Ed stato anche grazie a tre giovani poliziotti qui alla Squadra mobile, che sanno come muoversi sui socialnetwork che siamo riusciti ad entrare in contatto con loro, a copiare le chat e le loro storie e quindi a raccogliere una serie di fonti di prova utili al fermo di questi ragazzi che erano diventati molto pericolosi».

«Nonostante questi avvenimenti non possiamo dire che a Torino esista un’emergenza di bande criminali giovanili, e cioè con una organizzazione strutturata – osserva il dirigente della Squadra mobile – fenomeni come quelli analizzati rientrano tra delitti e reati predatori, tipici di una grande città e tali da non destare particolare allarme».

Sono invece le bande dei Latinos a interessare Milano. Parlare di bande milanesi significa parlare soprattutto di quattro tipologie: Ms13, Barrio 18, Latin Kings e Trinitarios. Apparse circa venti anni fa (anche a Genova) si sono in seguito consolidate dal punto di vista criminale nel capoluogo lombardo. Parliamo di gang originarie del Nord e del Centro America di cui conservano i nomi e anche modalità feroci e il disprezzo per la vita. «Nel tempo i movimenti migratori verso Milano di equadoriani, peruviani e soprattutto salvadoregni ha portato nelle periferie milanesi alla creazione di piccole cellule base chiamate clique – spiega Lorenzo Bucossi, dirigente della Squadra mobile di Milano – che hanno tentato di conquistare il mercato criminale, come lo spaccio di droga, tanto che nei primi anni Duemila arrivavano a 500 le persone affiliate».  

Ma dal 2005 queste bande hanno subito negli anni un duro colpo grazie all’attività di contrasto della Squadra mobile che ha portato all’arresto di più di 230 persone, di cui 169 per associazione a delinquere e 34 per omicidio. Un lavoro repressivo – prosegue il dirigente – che ha prodotto un loro indebolimento, tanto che calcoliamo ad oggi siano tra i 100 e i 150 gli affiliati di vario livello in città».  Attualmente, lo scopo di queste bande non è tanto quello di conquistare il mercato criminale quanto di affiliare ragazzi che vivono nelle periferie urbane e che, non riuscendo a inserirsi nella società milanese, trovano in questi gruppi un modo per affermarsi. Per quanto riguarda l’età dei componenti si registra un abbassamento: se nel 2004 l’età media era tra i 20 i 35 anni ora è tra i 15 e i 25. «Gli omicidi o i tentati omicidi commessi da queste gang – osserva il dirigente della Squadra mobile – sono sempre diretti a persone appartenenti alla loro dimensione sociale, quindi sudamericani facenti parte o ritenuti vicini a bande, o amici di membri di una parte avversa».

Le azioni che compiono sono di una violenza inaudita come quella che nel luglio 2016 portò alcuni ragazzi della Ms-13, all’uscita di una discoteca, a tagliare la gola a un ragazzo salvadoregno (salvato in ospedale con 120 punti di sutura) che credevano membro di un’altra gang e, immediatamente dopo, ad uccidere con una coltellata al cuore un ragazzo albanese, Dreni Albert, 18 anni, visto ad un fermata di un tram e scambiato per un amico dei membri di una gang rivale. In quel caso le indagini della Squadra mobile hanno condotto all’arresto di 16 appartenenti Ms-13.

Modalità operative utilizzate anche per ristabilire un’ordine gerarchico e punire ferocemente chi pensa di potersi allontanare dalla pandilla (banda), da cui si esce secondo la loro tradizione solo da morti: «Un altro caso di estrema violenza è quello accaduto nel gennaio scorso – racconta Bucossi della Squadra mobile - Alcuni criminali volevano rifondare una cliqua (cellula) di Ms-13 per ridarle slancio, invitando alcuni vecchi affiliati ad unirsi e, siccome uno di questi aveva cambiato abitudini, faceva una vita da sbandato e gli aveva detto di no, loro hanno chiesto l’autorizzazione alla “casa madre” in Salvador di poterlo punire. Così, attirato in una trappola, lo hanno caricato su una macchina, lo hanno accoltellato al cuore e poi seppellito in un canale di scolo a Melegnano, tra Milano e Lodi. Dopo aver ricevuto la notizia in via confidenziale e trovato il corpo abbiamo eseguito il fermo per omicidio a carico di tre connazionali della vittima, tutti appartenenti alla MS-13».

Operazioni che i poliziotti della Squadra mobile hanno portato a termine con successo anche grazie alle informazioni raccolte in un database interno, risultato di un censimento costante istituito dagli operatori della Sezione criminalità straniera della Squadra mobile che, oltre ai tradizionali metodi di indagine, consente di orientare più rapidamente le investigazioni.

Devastazioni, estorsioni, rapine commessi con inaudita violenza. A Venezia dal giugno 2018 un gruppo di giovani seminava il panico in pieno centro e anche sulla terraferma, nelle zone periferiche. Uno stop a queste azioni è però arrivato alla fine di maggio scorso, dalla Squadra mobile che grazie ad accurate indagini, compiute in sincronia con la Procura ordinaria e minorile, è riuscita ad arrestare 7 ragazzi (tre maggiorenni e quattro minori). Anche se sono ancora 12 gli indagati a piede libero: «Appena ci siamo accorti del fenomeno che stava aumentando a dismisura – spiega Stefano Signoretti,  dirigente della Squadra mobile di Venezia – abbiamo iniziato le investigazioni che ci hanno messo sulla pista di questi ragazzi che siamo riusciti a fermare anche se ci sono ancora diversi gruppi che stiamo identificando». 

Il quadro emerso dalle indagini è sconsolante sottolinea il dirigente della Squadra mobile: «Ad accumunare questi giovani sono l’età e la spregiudicatezza delle azioni ‒ osserva il dirigente ‒ motivate non tanto da un ritorno economico, quanto dal desiderio di condividerle sui social per ottenere una sorta di consenso dal gruppo. Le indagini ci fanno ritenere che abbiamo sfiorato solo la punta di un fenomeno molto più ampio. Quello che più sconforta – conclude – è comportamento di questi ragazzi che anche quando venivano perquisiti e ammanettati avevano un atteggiamento di sfida e strafottenza». 

Per un caso che riguarda sempre gang giovanili ci spostiamo a Napoli, nel quartiere del Vomero, dove la sera del 9 dicembre 2017 cinque minorenni, appena usciti da un fast food, vengono accerchiati da un gruppo di coetanei che dopo aver saputo che non erano della zona li aggredisce con calci e pugni. Uno di loro viene colpito con delle coltellate al torace, tanto da essere ricoverato e operato ai polmoni. «Partite dal commissariato Vomero, le indagini sono poi passate al nostro ufficio, in particolare alla quarta sezione che si occupa del fenomeno dei reati riconducibili alle bande giovanili ‒ spiega Antonio Salvago, da poco dirigente della Squadra Mobile di Napoli ‒ che è riuscita a risalire all’identificazione dei responsabili (5 di cui 4 minorenni e 1 maggiorenne) e successivamente ad altri due partecipanti all’aggressione. Dal processo investigativo ‒ continua ‒ è emerso che questi ragazzi, provenienti dal quartiere Vomero e da quello vicino di Salvator Rosa, intendevano imporre con violenza e minacce, soprattutto verso i propri coetanei, la propria supremazia nel Vomero». 

Napoli è una città complessa dal punto di vista criminale, dove le bande giovanili sono molto violente e alcune di loro possono essere composte anche da minorenni figli di pregiudicati o di capi di rioni cittadini e questa è sicuramente una componente che va considerata durante il lavoro investigativo.  

«Per affrontare questo contesto così difficile ‒ prosegue il dirigente della Squadra mobile  ‒ la procura della Repubblica di Napoli ha disposto un protocollo che contempla, per punti, lo svolgimento di molteplici attività che toccano diversi ambiti di intervento, in relazione a fatti delittuosi riconducibili all’agire di gruppi giovanili violenti.

In quest’ottica, presso la Squadra mobile di Napoli è stato istituito un gruppo di lavoro ad hoc che si avvale del contributo dei Servizi centrali della polizia, ed assicura uno stretto raccordo con l’Autorità giudiziaria.» 

è stata la cittadina di Manduria, in provincia di Taranto, ad essere recentemente al centro di un triste caso di cronaca, che ha visto protagonisti un gruppo di ragazzini tra i 14 e i 17 anni accusati di aver seviziato e picchiato per molto tempo Antonio Cosimo Stano, 66 anni, poi deceduto il 23 aprile scorso in ospedale. Un fatto che, oltre alla reazione emotiva suscitata nell’opinione pubblica, fa riflettere sulla deriva dei comportamenti dei giovani e sulla responsabilità in una mancata educazione ai valori etici da parte della famiglia e della scuola in generale. Otto i ragazzi raggiunti dal provvedimento di fermo (6 minorenni e 2 appena maggiorenni) anche se gli indagati sono molti di più, da quanto risulta dall’analisi delle chat dei cellulari sequestrati. «Non si ha memoria di casi analoghi a questo accaduto a Manduria e nel capoluogo – osserva Carlo Pagano, dirigente della Squadra mobile di Taranto – le indagini sono ancora aperte per approfondire alcuni aspetti, poiché è probabile che Antonio Stano non sia stata l’unica vittima presa di mira da questi gruppi di ragazzi. In realtà quello che sta emergendo – continua il dirigente – è che si tratti di una cerchia di ragazzi abbastanza ampia che condividono i banchi di scuola e i pomeriggi all’oratorio».  E neanche si può parlare di una vera propria banda che cerca di darsi una propria identità comune attraverso tatuaggi, o il medesimo modo di vestire. I ragazzi implicati nel caso di Manduria sono accumunati dal possedere cellulari di ultima generazione e, per una buona parte di loro, di indossare capi firmati e soprattutto dalla necessità di attribuirsi un valore attraverso alcune “prove di coraggio”: «Alcuni di loro singolarmente prima andavano dalla vittima e immediatamente dopo condividevano i filmati dell’aggressione sui gruppi social proprio per dimostrare agli altri di essere  all’altezza del gruppo ‒ spiega il dirigente ‒ o addirittura per cucirsi addosso anche il ruolo di leader derivante dall’aver avuto il coraggio di fare determinate azioni». La vittima, Antonio Stano, era infatti considerato una specie di “pazzo” e i ragazzi più spericolati volevano dimostrare di essere in grado di non temere assolutamente il soggetto, tanto da poterlo aggredire. Uno spaccato sul mondo giovanile molto triste, se contiamo che le aggressioni erano dirette contro una persona con gravi deficit mentali e assolutamente incapace di difendersi.  

«Ma quello che più colpisce – conclude Pagano – è l’assoluta inconsapevolezza di questi ragazzi anche dopo che si era diffusa la notizia sui giornali locali: come se la realtà fosse trasfusa in una fiction». ϖ

10/06/2019