Anacleto Flori

Canzoni ribelli

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Alla scoperta di Gero Riggio, vincitore del Premio Poliziamoderna a "Musica contro le mafie" con un brano su Paolo Borsellino e la figlia Fiammetta ma anche dei trapper che spopolano tra i ragazzi

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“Sono solo canzonette” cantava qualche anno fa Edoardo Bennato con la sua aria da eterno ragazzo impertinente, e forse è vero che alla fine una canzone non è mai una poesia e neppure un vessillo da sbandierare, ma solo parole e note in libertà. Eppure ci sono canzoni che arrivano dritte al cuore, con il loro carico di significati ed emozioni che vanno oltre la rima o la scala del pentagramma. Un tempo le avremmo definite ”impegnate”, come quelle che abbiamo ascoltato a Cosenza in occasione dell’assegnazione del riconoscimento speciale Poliziamoderna a una delle 10 canzoni finaliste del Premio musica contro le mafie. Alcune parlavano di figli che si ribellano a un padre mafioso, altre raccontavano la fatica di vivere in una città stretta nella morsa della camorra, ma quella che più ci ha colpito è stata Svuoto il bicchiere di Gero Riggio, un ragazzo siciliano di Mussomeli, in provincia di Caltanissetta. È un bel brano, fresco e al tempo stesso poetico, con un ritornello che ti entra in testa come una sorta di “tormentone”, solo che non parla di cuore, sole e amore, ma parla del giudice Paolo Borsellino e dei poliziotti della sua scorta, Agostino Catalano, Walter Eddie Cosina, Vincenzo Fabio Li Muli, Emanuela Loi e Claudio Traina, attraverso gli occhi della figlia Fiammetta. Non abbiamo avuto dubbi, il nostro premio è andato proprio a lui. Ma la canzone non è piaciuta soltanto a noi… Gero ha infatti vinto il premio Winner Tour assegnato dalle giurie di Musica contro le mafie ed è così letteralmente volato a Casa Sanremo, dove lo scorso 5 febbraio, giornata inaugurale del 69° Festival della musica italiana, ha ritirato il premio dalle mani di Gennaro De Rosa, direttore artistico di Musica contro le mafie e di Vincenzo Russolillo, organizzatore di Casa Sanremo, mentre a consegnare la targa di Poliziamoderna sono stati il direttore Annalisa Bucchieri e il portavoce stampa della questura di Imperia, Giuseppe Valentino. In un sala, quella dedicata a Ivan Graziani, piena di ragazzi e ragazze, la consegna del nostro riconoscimento a un giovane cantautore ha, una volta di più, testimoniato l’importanza di stabilire un punto di contatto e di incontro con le nuove generazioni sul tema della legalità, della memoria e della giustizia. Per questo assumono un valore ancora più alto le parole riportate sulla targa: “ ... Svuoto il bicchiere ha il merito di infondere speranza mantenendo viva la memoria di chi ha combattuto la mafia e sacrificato la propria vita in nome della legalità”.  

Al termine della cerimonia, siamo andati alla scoperta” di Gero Riggio sulla terrazza di Casa Sanremo. 

Hai vinto il premio Musica contro le mafie e la targa di Poliziamoderna con un brano ispirato al giudice Paolo Borsellino e ai poliziotti della sua scorta, eppure all’epoca della strage di via D’Amelio eri solo un bambino. Come nasce questa canzone? 
Io sono nato a Mussomeli, un paesino in provincia di Caltanissetta e per me, come per molti altri ragazzi siciliani, la figura di Paolo Borsellino, così come quella di Giovanni Falcone, è un punto di riferimento importante. Grazie a loro è scattata quella scintilla di cambiamento portata poi avanti dalle nuove generazioni, nonostante le difficoltà storicamente legate alla nostra terra, difficoltà culturali, sociali ed economiche in cui la mafia ha sempre trovato terreno fertile.  

Con la mia canzone non volevo celebrare degli eroi, ma ricordare delle persone come noi, che sono morte facendo il proprio dovere e seguendo i propri ideali di giustizia, onestà e trasparenza. Per questo oltre a Paolo Borsellino volevo dedicare la canzone anche agli uomini della sua scorta Agostino, Claudio, Walter Eddie, Vincenzo ed Emanuela, che se non sbaglio è stata la prima poliziotta a cadere in un servizio di scorta. Sono convinto che, nonostante il dolore e lo sgomento, quella strage criminale abbia rappresentato per coloro che si oppongono alla mafia un nuovo inizio, un fondamentale punto di ripartenza, così come sono convinto che ancora oggi sia importante, per sconfiggere la cultura e il potere mafioso, fare finalmente chiarezza su quelle stragi, anche per rispetto verso i familiari di quei caduti. 

Il ritratto che ne viene fuori è davvero molto umano e poetico.
Scrivendo Svuoto il bicchiere il rischio era quello di cadere in un eccesso di retorica, per questo ho scelto il punto di vista della semplicità e della normale quotidianità. Paolo Borsellino appare come un papà, simile a tanti altri, raccontato in un pomeriggio d’estate, trascorso assieme a sua figlia Fiammetta, dopo un piccolo incidente a bordo della sua Vespa. 

Come hai fatto a coinvolgere Fiammetta Borsellino in questa canzone? 
Dal momento che Salvatore Borsellino, fratello di Paolo era l’unica figura della famiglia presente sui social, l’ho contattato semplicemente per inviargli il link della canzone. Lui ha chiesto il mio numero di cellulare e dopo qualche giorno mi è arrivata una telefonata da un numero sconosciuto, quando ho sentito «Ciao Gero, sono Fiammetta Borsellino» mi è quasi preso un colpo, non sapevo più cosa dire, per fortuna lei è una donna straordinaria e mi ha messo subito a mio agio, chiedendomi di parlarle un po’ del Premio Musica contro le mafie e della canzone che parlava di lei e di suo padre. È stata un’emozione incredibile. 

A proposito come è nata la scelta di partecipare alle selezioni del Premio Musica contro le mafie?
In televisione avevo visto un bel servizio che parlava di questa iniziativa, la cosa mi aveva incuriosito e d’accordo con il mio produttore artistico, Leo Curiale, che è anche uno dei miei musicisti, ho deciso di provarci. L’idea era quella di scrivere un brano che contenesse un messaggio “forte”, in cui ci fosse un richiamo alla memoria ma anche un segnale di speranza. Ho inviato il mio brano senza crearmi tante aspettative anche perché alla fine i brani in gara erano tantissimi, ben 350. Speravo solo di aver scritto una bella canzone, quella era la cosa importante. 

Quando hai iniziato a suonare la chitarra? 
La prima volta che ho ”imbracciato” una chitarra avevo più o meno 16 anni, fino a quel momento mi ero limitato a fare l’animatore nei villaggi turistici perché ero bravo a cantare, poi ho capito che la mia vera passione era la musica e mi sono lanciato a scrivere canzoni mie. Comunque mi ritengo più un paroliere che un musicista, e infatti non sono un grande chitarrista, diciamo che scrivo i testi e una melodia di base, poi per fortuna posso contare sulla bravura di Leo come arrangiatore musicale; nel nostro piccolo insieme formiano un bel duo, tipo Mogol e Battisti.

Il tuo genere musicale è quello di un cantautore con venature pop, c’è qualche artista che ti ha influenzato o al quale ti sei ispirato? 
A me è sempre piaciuto tantissimo Cesare Cremonini. Sono quasi vent’anni che faccio parte dei suoi fan club e dopo averlo seguito molto da vicino sui social ho avuto la fortuna di conoscerlo: è una persona eccezionale, uno straordinario professionista con una grande passione per la musica. Da lui ho imparato molto dal punto di vista della composizione dei brani, ma è stato anche un esempio per come ha saputo “reinvertarsi” artisticamente dopo il periodo di crisi successivo allo scioglimento dei Lùnapop (la prima band di Cesare Cremonini, ndr). Recentemente sono invece stato letteralmente rapito da un artista come Brunori Sas, dopo averlo ascoltato in concerto a Palermo sono andato alla riscoperta di tutti i suoi dischi e poi ho seguito in Tv il suo programma andato in onda su Rai3: purtroppo non ha avuto tantissimo successo, anche per via dell’infelice orario di programmazione (la domenica, in seconda serata, ndr), io però quelle puntate le trasmetterei in continuazione. Con Brunori Sas sono entrato in un vero e proprio loop, per me è ormai un punto di riferimento musicale insostituibile.

Anche tu come molti giovani artisti sei passato attraverso un talent, organizzato da Antenna Sicilia. È stata un’esperienza utile? 
Secondo me i talent show sono uno strumento importante se hai già un tuo percorso artistico alle spalle, un tuo progetto musicale e vuoi farli conoscere a una platea più vasta possibile, come può essere quella televisiva. In questo caso i talent servono e possono essere davvero un bel trampolino di lancio, però non bisognerebbe perdere la magia di andare a scovare qualche nuovo artista nei piccoli locali dove si suona dal vivo e si fa davvero la gavetta. 

Tornando al nostro premio, cosa hai pensato quando hai saputo che con Svuoto il bicchiere ti eri aggiudicato anche la nostra targa? 
In realtà Gennaro De Rosa, prima della serata finale a Cosenza, ci aveva spiegato quali premi fossero in palio e tra questi anche quelli speciali come la targa di Poliziamoderna, la rivista ufficiale della Polizia di Stato. Essermi aggiudicato anche questo riconoscimento per me ha un significato molto particolare, perché credo che la polizia svolga un’attività importante e insostituibile, un compito delicato che non sempre viene apprezzato e valorizzato nella giusta misura. Spero che la mia canzone possa dare un piccolo contributo.

Pensi che la musica sia ancora uno strumento attraverso il quale sia possibile parlare ai ragazzi di valori positivi come la tolleranza, il rispetto degli altri e della legalità?  
La musica è forse lo strumento più diretto per comunicare con i giovani: basti pensare che la prima cosa che facciamo quando nasciamo è quella di emettere un vagito, un suono e quindi, se vogliamo, una sorta di musica che poi ci accompagna per tutta la vita. Trasmettere e recepire messaggi attraverso la musica, credo sia il modo più istintivo e immediato. 

Attraverso una canzone si possono però lanciare non solo i messaggi positivi, ma anche quelli negativi e pieni di violenza, come nel caso della musica Trap, che ne pensi di questo genere molto ascoltato dai ragazzi?
Credo che un cantante trap o un artista in genere, attraverso la propria musica non voglia lanciare messaggi negativi a qualcuno, quanto piuttosto rappresentare le difficoltà o le brutture incontrate nel corso della propria esistenza. Anche quando in alcuni brani trap si parla di droga non credo che sia un invito a farne uso, ma che sia più semplicemente un modo di raccontare un mondo in cui la droga gira. Certo molto dipende dall’età di chi ascolta questo tipo di musica, anche perché purtroppo i ragazzini a volte non riescono a percepire questa sottile differenza e si rischia di diventare, anche non volendo, cattivi maestri. 

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Quando la trap canta il disagio metropolitano

Le canzoni di impegno civile e sociale ascoltate a Musica contro le mafie sono solo una faccia della medaglia del panorama musicale, l’altra faccia, quella che potremmo definire di rottura, è sicuramente la trap. Per conoscere meglio questo genere di musica abbiamo sentito un esperto come il professore Marcello Ravveduto, docente di Public & digital History presso l’Università di Salerno. 

Professore, dove nasce la musica trap? 
Musicalmente la trap, che in inglese significa trappola ed è lo slang con cui vengono chiamati i palazzi abbandonati in cui si spaccia e si consuma droga, è in pratica una evoluzione del genere hip hop. Nata in America, in ambienti metropolitani, la trap è sbarcata prima nelle banlieu francesi e da lì si è via via diffusa in tutta Europa, Italia compresa.  

Come si spiega il successo che sta avendo, soprattutto tra gli adolescenti?
Perché racconta essenzialmente storie di vita dei ragazzi delle periferie urbane: gli adolescenti si immedesimano in questa narrazione che si propone con una dimensione fortemente generazionale, nella quale ritrovarsi. Inoltre i ragazzi, soprattutto quelli immigrati di seconda o terza generazione, cercano di costruirsi, attraverso questo mondo marginale, una propria identità. Un’identità che non è più quella del passato, dei propri genitori e dei Paesi d’origine, ma che è del tutto nuova e che viene giorno dopo giorno alimentata dall’orgoglio di essere differente e di vivere quasi in una sorta di aparthaid sociale. 

Qual è in particolare il panorama della musica trap in Italia?
In Italia la trap è arrivata sull’onda dei legami che si sono creati, sempre all’interno dell’ hip hop, tra i rapper dei ghetti urbani e gli esponenti musicali delle banlieu: uno dei primi passaggi di trasferimento culturale tra questi due mondi è avvenuto quando il clamore della condizione di emarginazione di Scampia ha attirato l’attenzione di diversi gruppi francesi che, da quel momento, hanno iniziato a girare i propri video musicali all’interno delle Vele. Tutto ciò ha fatto di Napoli una scena importante della trap, così come lo è stata e lo è dell’hip hop, perché la città partenopea, che ha sempre dimostrato una grandissima capacità di fare sincretismo culturale, ha amalgamato la propria tradizione autoctona con il tema della marginalità delle periferie urbane europee, trovando così una nuova modalità per raccontarsi. Questa fusione, se vogliamo, è stata facilitata dal fatto che la trap mette insieme il modo tipico di fare musica del rap con la neo-melodia tradizionale e l’auto-tune, il correttore della voce, uno strumento in grado di “melodizzare” alcune parti delle canzoni. In questo modo chi seguiva i cantanti neo-melodici, ma si disinteressava della scena rap, si è invece avvicinato proprio all’hip hop che parlava di periferie degradate, di spaccio, di violenza e di famiglie disastrate. Alla fine questo modo di fare musica e questi temi si sono incontrati. 

In Italia ci sono “scuole” diverse di trap?   
Sicuramente, Milano, Roma e Napoli sono tre luoghi in cui si fa questo genere musicale. In queste città, infatti troviamo sia le risorse per la produzione sia una affermata tradizione di musica hip hop e poi c’è la comune condizione di periferia metropolitana che alimenta questo tipo di narrazione. Le tre scene, però, sono assai diverse tra loro: a Milano è possibile trovare uno scenario con giovani migranti delle seconde e terze generazioni che si integrano e “diventano” italiani attraverso questo tipo di musica, a Roma invece troviamo una dimensione più legata alla gang, al quartiere deviante, mentre a Napoli il trapper racconta la vita dei clan di camorra, come se fosse un elemento narrativo normale: canta quello che accade nelle strade del suo quartiere, sotto casa sua. E quel racconto diventa poi esemplificativo per un’intera generazione. 

Nata in un contesto urbano di emarginazione, la trap è ascoltata anche da ragazzi delle classi agiate e borghesi, come spiega questa trasversalità?
Non ci si deve meravigliare se parliamo dei trapper più famosi a livello nazionale come Sfera Ebbasta o piuttosto come Ghali, immigrato della seconda generazione e proveniente dalla periferia milanese, che trova la sua identità e la sua dimensione cominciando a cantare temi anticonformisti e apertamente di ribellione. 
Ed è quello che accadde negli Anni ’60 con il rock ‘n roll, considerato un elemento di grande rottura con i rigidi canoni sociali delle generazioni precedenti. Oggi invece il rock è considerato mainstream, appartenente ormai a una società e a un mondo “formali”. Del resto ogni generazione si costruisce la propria musica e, intorno a quella stessa musica, crea un pezzo della propria ribellione, partendo dal contesto storico in cui si ritrova a vivere. 

È corretto considerare questa musica diseducativa per i ragazzi? 
Credo che questo giudizio rientri in quella storica battaglia tra generazioni a cui accennavo prima, nel senso che le accuse sono le stesse che venivano fatte a chi faceva rock ‘n roll o agli artisti punk degli Anni ’80. La differenza fondamentale con la cosiddetta “musica ribelle” del passato sta nel fatto che mentre il rock parlava di temi come il sesso, la droga e di vite bruciate con la consapevolezza e la voglia di creare una rottura, un conflitto sociale e generazionale, i cantanti trap parlano di quegli stessi temi non per provocare un conflitto, ma come un dato di fatto, non si pongono il problema di farsi capire: il loro mondo è quello, loro sono così e basta. La trap rivendica la libertà di parlare di droga, sesso, violenza e di vite devianti come se fosse del tutto normale, visto che ormai, nell’immaginario collettivo, l’essere deviante costituisce un pezzo dell’ eroismo della contemporaneità.

Che ruolo hanno avuto i social nella diffusione della musica trap?
Hanno giocato un ruolo enorme. La trap è proprio il prodotto della trasformazione del mercato discografico dovuta al boom delle piattaforme social: l’esempio più eclatante è quello di Capo Plaza, ventenne trapper salernitano seguito dallo stesso produttore di Sfera Ebbasta, che ha lanciato la sua canzone Giovane fuoriclasse direttamente su You tube dove ha raggiunto un numero di visualizzazioni impressionante, oltre 40milioni. Si tratta di un personaggio sicuramente underground, ma che tutti gli adolescenti conoscono. Non a caso lo scorse mese La Repubblica gli ha dedicato un’intera pagina.

Come si può leggere la vittoria a Sanremo di Mahmood?
Prima di Mahmood c’era stata qualche anno fa la vittoria di Rocco Hunt con un pezzo rap, un successo che ha contribuito a istituzionalizzare il rap che da musica alternativa è diventata mainstrean per una generazione. La stessa cosa potrebbe succedere ora con la trap. A quel punto i nuovi adolescenti potrebbero spostarsi verso nuove sonorità e altri canoni di narrazione. E poi non bisogna dimenticare che lo stesso genere musicale può essere declinato in modo diverso: se ad esempio Rocco Hunt, con il suo rap faceva un richiamo di impegno civile parlando della Terra dei fuochi, il gangsta rap inneggia alla violenza, all’uso delle armi, al maltrattamento delle donne. La trap potrebbe quindi andare incontro a una futura formalizzazione, il problema è capire se sarà in grado di mantenere la stessa capacità di attrazione nei confronti dei ragazzi anche parlando di temi cosiddetti civili. La domanda da farsi è questa: la canzone di Mahmood diventerà un successo e sarà ascoltata anche dai ragazzi o resterà solo un brano che ha vinto il Festival 2019?

04/03/2019