Giovanni Aliquò*
Questione di disciplina
La possibilità del vertice dell’Amministrazione di intervenire sui vizi del procedimento secondo la sentenza del Consiglio di Stato
Il delicato rapporto dialettico che, nel corso di un procedimento disciplinare a carico di un appartenente alla Polizia di Stato, può intercorrere tra superiore gerarchico competente a infliggere una sanzione e organo collegiale proponente è oggetto della sentenza n. 7093 del 6 dicembre 2018 (depositata il 17 dicembre) del Consiglio di Stato, Sez. IV. Il supremo consesso amministrativo ha ribadito la legittimità del provvedimento del capo della Polizia con il quale era stata annullata la decisione della Commissione di disciplina che, discostandosi illegittimamente dalla contestazione formulata dalla “autorità che ha disposto l’inchiesta”, aveva proposto l’applicazione della sospensione dal servizio in vece della più grave sanzione della destituzione, in origine proposta. Le questioni trattate dal Consiglio di Stato – attinenti alla concreta applicazione delle disposizioni degli articoli 6 e 7 del dpr 25 ottobre 1981, n. 737, secondo i procedimenti previsti dai successivi articoli 19 e 21 – sono piuttosto complesse. È affermata, innanzitutto, la possibilità per l’Amministrazione di intervenire repressivamente sull’eventuale modifica dei fatti contestati, ove essa si dimostri “immotivata, apodittica, non aderente alle risultanze processuali”. Nel caso di specie è stata considerata tale la “riqualificazione” dei fatti operata dalla Commissione di disciplina, con conseguente sostanziale derubricazione della proposta sanzionatoria, effetto non di valutazioni puntuali concernenti dati “processuali” (ovvero direttamente riferibili alle condotte contestate), ma di valutazione di fatti “successivi ed esterni al perimetro della contestazione”.
Il Consiglio di Stato, dunque, si mantiene nel solco della giurisprudenza consolidata, secondo cui il potere dell’Amministrazione di irrogare sanzioni disciplinari “comprende, necessariamente, quello di con