Irene Scordamaglia* e Laura Pagliuca**

Delitti contro la dignità della persona

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1. La riduzione o mantenimento in schiavitù 
L’art. 600 cp punisce con la reclusione da otto a venti anni “chiunque esercita su una persona i poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà, ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in stato di soggezione continuativa costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento, ovvero a sottoporsi al prelievo di organi”. 

La disposizione richiamata è il frutto di un articolato susseguirsi di interventi legislativi – a partire dalla l. n. 228/2003 e fino al dlgs n. 24 del 2014 – diretti a coniugare le esigenze di politica criminale, evidenziatesi in relazione a fenomeni di proporzioni globali e di peculiare rilievo offensivo tenuto conto dei valori attinti dalle condotte incriminate, e le istanze di determinatezza e tassatività nella descrizione delle fattispecie punitive.

Al riguardo giova rammentare che il legislatore del 1930, che aveva disciplinato la fenomenologia ricadente nel cono d’ombra dell’attuale normazione mediante la previsione di due ipotesi delittuose, la riduzione in schiavitù (art. 600 cp) e il plagio (art. 603 cp), aveva determinato un deficit di tassatività usando la locuzione “condizione analoga alla schiavitù”, giudicata, peraltro, del tutto inadeguata a delineare l’area di rilevanza penale delle situazioni di reificazione dell’essere umano.

Donde l’orientamento prevalente in dottrina e in giurisprudenza era nel senso di ritenere che non potesse ricorrere in Italia il delitto di riduzione in schiavitù o in condizioni analoghe, di cui all’art. 600  cp, in quanto riferibile esclusivamente a situazioni di diritto in cui un soggetto fosse stato privato dello status libertatis; mentre le situazioni di fatto – riconducibili ad un generico “stato di soggezione” – fossero da ricondursi al delitto di plagio di cui all’art. 603 cp 

La riforma del 2003 ricadente sulla materia de qua costituì l’approdo di un percorso di progressivo affinamento della sensibilità e degli strumenti specifici di normazione, le cui tappe più significative furono segnate: dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 96 del 1981, che dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 603 cp per contrasto con il principio di tassatività e determinatezza della legge penale; dalla sentenza Sez. U, n. 261 del 20/11/1996 - dep. 16/01/1997, C. e altro, con la quale il Supremo Consesso della Corte di legittimità pose il principio di diritto a mente del quale la condizione analoga alla schiavitù di cui agli artt. 600 e 602 cp non si identifica necessariamente con una situazione di diritto, e cioè normativamente prevista, bensì anche con qualunque situazione di fatto con cui la condotta dell’agente abbia per effetto la riduzione della persona offesa nella condizione materiale dello schiavo, e cioè nella sua soggezione esclusiva ad un altrui potere di disposizione, analogo a quello che viene riconosciuto al padrone sullo schiavo negli ordinamenti in cui la schiavitù sia ammessa. 

La conseguenza di tali autorevoli prese di posizione fu la reazione della dottrina, che forte del richiamo della Consulta al rispetto del principio di tassatività e determinatezza delle fattispecie incriminatrici, come corollario del principio di legalità di cui all’art. 25 della Costituzione, evidenziò come, nella mancanza di un criterio uniforme di interpretazione, si annidasse il rischio del ricorso a parametri descrittivi meta-giuridici, strettamente ancorati a una concezione storica di schiavitù, erroneamente assunta per presupposta e acquisita nella coscienza sociale, che preannunciavano non consentite operazioni analogiche in malam partem e, comunque, suscettibili di ampliare oltre misura la discrezionalità del giudice. 

A ciò deve aggiungersi che il crescente manifestarsi di forme di schiavismo del tutto nuove e, in particolare, di forme di criminalità organizzata transnazionale, finalizzate allo sfruttamento delle donne, avviate alla prostituzione, e dei bambini, destinati all’accattonaggio o al prelievo di organi, nonché di una moltitudine di soggetti in stato di debolezza economico-sociale posti sul mercato del lavoro nero, sollecitò una “modernizzazione della legislazione penale”, specie con riferimento alle nozioni di schiavitù e servitù.

In ultimo era improcrastinabile l’adempimento dell’obbligo di adeguare la legislazione nazionale agli strumenti normativi internazionali e, in particolare, alla decisione quadro 2002/629/GAI e alla direttiva 2011/36/UE, al fine di fronteggiare efficacemente i descritti fenomeni attraverso un’azione di contrasto coordinata tra gli Stati.

1.1 La fattispecie di reato

1.1.1 Il bene giuridico tutelato
Nel codice penale, l’art. 600 è collocato nel capo intitolato “delitti contro la libertà individuale” e nella sezione dedicata ai “delitti contro la personalità individuale”, cui si affiancano le sezioni dedicate ai delitti contro la libertà personale, la libertà morale, la inviolabilità del domicilio e l’ inviolabilità dei segreti. Tale scelta sistematoria è stata criticata in dottrina, laddove suggerisce una sorta di parificazione tra i beni giuridici menzionati, posto che la personalità individuale costituisce, piuttosto, il “prius logico” delle singole manifestazioni della libertà individuale, cui rappresenterebbe la matrice. 

In quest’ottica, pertanto, la tutela della personalità individuale copre lo status libertatis dell’individuo, “inteso come l’insieme delle condizioni necessarie per la libera esplicazione della personalità umana” e garantisce che le singole libertà possano essere esercitate da chiunque. Donde il bene giuridico protetto dall’art. 600 cp si identifica “con la facoltà di ogni essere umano di persegu

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08/01/2019